Era un
periodo nero. Il mio lavoro nell’istituto psichiatrico stava lentamente
svuotandosi da quelle motivazioni con cui all’inizio mi facevo forza. I turni
si susseguivano senza che io riuscissi a cavare fuori il benché minimo
interesse per quello che facevo. Le giornate erano quasi sempre uguali: aprivo
e chiudevo centinaia di volte le stesse porte, prendevo schiaffi e pugni sempre
dagli stessi pazienti, li guardavo mentre saltavano, correvano, mangiavano,
vomitavano, urlavano, scoreggiavano, si masturbavano, si menavano, bevevano il
proprio piscio , mangiavano la propria merda ( e anche quella di altri). Mi
stavo stancando di raccogliere le loro deiezioni lungo i corridoi e asciugare
le loro pozze di urina nei posti più impensabili. Ogni tanto mi facevo anche
qualche risata nell’osservare i rituali liturgici con i quali certi ragazzi
autistici si approcciavano alla doccia del mattino o alla ritirata serale ma
erano momenti sporadici. autentiche perle solitarie in lunghe giornate di lotte
e contenzioni. A volte, quando proprio non ce la facevi più, la direzione
organizzava la cosiddetta Supervisione a cui partecipavano sempre un paio di
oss o infermieri o educatori. La presenziava uno psicologo la cui
partecipazione doveva servire come valvola di sfogo per noi operatori in
quanto, durante la riunione, si poteva “vuotare il sacco” cioè spiegare allo
psicologo a quale livello di burn out eri arrivato. Ovviamente nessuno osava
fare sapere al collega che sedeva accanto a te quante volte avresti voluto
scaraventare dal secondo piano almeno il 90% degli ospiti della struttura in
cui lavoravi e quindi ci si trovava a discutere di problematiche su cui il
professionista mai avrebbe potuto dare una soluzione. C’erano anche le riunioni
di equipe ma ti rendevi conto che qualunque fosse stato l’esito della riunione
nulla sarebbe cambiato. Era un senso di impotenza che mi pervadeva a 360 gradi.
Mi ci sentivo immerso. Era come se fossi in una gelatina permanente. Ogni cosa
che osservavo era come se la filtrassi attraverso una lente deformante. Sentivo
che la priorità assoluta era mantenere quel delicato equilibrio in cui cercavo
di non pensare eccessivamente e mi imponevo di dedicarmi alcuni angoli mentali
di assoluta libertà all’interno dei quali potevo ritirarmi, leggero ed
evanescente come una nebbia al mattino. Ma gli angoli, in certi luoghi orrendi,
possono diventare all’improvviso rotondi, piccoli e bui e tutti i tuoi pensieri
e le tue risorse devono mettersi a lavorare di fino per rimediare ad un errore
che inevitabilmente arriverà.
Così, stanco
ed amareggiato, chiesi udienza al direttore della struttura il quale mi
consigliò di parlarne con il Presidente. Obiettai che, forse, il Presidente
sapeva ben poco sull’andazzo del Centro Psichiatrico. Questa fu la sua
risposta:
“…vedi
Alvaro, Egli, cioè il Presidente, il Dott. Ignazio Grassi, è la cuspide
piramidale di questa nostra cooperativa che dà lavoro a migliaia di persone.
Egli trasforma il presente in un ennesimo culto dopo essersi sbarazzato
dell’ossequio al passato. Ha fondato la Sua azienda sulle orme del padre
attraverso un rito palingenetico di mutazione aziendale sdoganandola da un
cliché che la fossilizzava anni prima ad una semplice agenzia interinale. Per
Lui la sua cooperativa è una tendenza, uno slancio in avanti. È l’amore per il
nuovo. Il Suo tono di voce è sempre vibrante, le Sue affermazioni apodittiche.
Egli può essere paragonato ad un re forte e fascinoso. Meccanicamente
immortale. Un eroe senza sonno come GAZURMAH, l’interprete principale del
romanzo mito poetico di Marinetti “MAFARKA LE FUTURISTE DEL 1909”. Lo sai chi è
Marinetti, Alvaro?”
“…beh,
…ecco…mi pare fosse uno scrittore futurista che…”
“Appunto, il
futuro, lo sguardo oltre l’orizzonte, Egli come un falco domina dall’alto la
percezione multipla e sinestetica delle cose di Sua competenza. Supervisiona,
da ottimo intenditore, alle assunzioni del personale femminile secondo un
prototipo dannunziano che miscela, nelle giuste dosi, i fondamenti
dell’estetica, l’egemonia del bello e il sacerdozio dell’arte. La sua forza
comunicativa è completamente nuova senza tentativi di sperimentazione. Ha un
solo Horror Vacui che lo irrita piacevolmente: il pensiero di essere frainteso.
Quindi, Alvaro, ti prego, non aver timore di incontrarlo. Esponi a Lui i tuoi
problemi e vedrai che dopo ti sentirai un uomo nuovo, ripulito dalle scorie che
ti affliggono ora. “
“D’accordo…quando
possiamo fissare l’appuntamento?”
“Domani
mattina verso le 10 va bene?”
“Va bene”.
Uscii
dall’ufficio del direttore proprio mentre il solito psicopatico lanciava un
estintore da 10 chili addosso alla donna delle pulizie che stava scappando in
preda ad una crisi isterica di pianto.
Quella notte
dormii poco poiché pensai all’incontro con il Presidente. Cosa gli avrei detto?
Come avrei esposto i miei problemi pseudo esistenziali ad un uomo così fulgido?
Ma soprattutto: avrebbe compreso?
Mi
addormentai su queste domande e quando mi svegliai erano ancora tutte lì che mi
aspettavano.
Alle 09.45
ero già davanti alla porta verde pastello del suo ufficio. Dentro la mia testa
ripetevo come un mantra tutto quello che dovevo dire cercando, per quanto
possibile, di indovinare il contraddittorio.
Dopo 14
minuti e 58 secondi la porta si aprì e apparve una donna sui quarant’anni:
senza arte né parte, anonima, leggermente androgina e con un nome così stupido
che me lo dimenticai all’istante. Fece un cenno con la mano nella mia direzione
e io mi incamminai verso di lei. Aveva un profumo dolciastro che mi provocò una
frustata olfattiva. La oltrepassai e fui nell’ufficio. Era un bell’ufficio:
spazioso, areato e scevro da qualsiasi traccia di frenesia e caos rispetto ai
locali attigui. Egli, il Presidente, era seduto come un monarca desideroso di
venire a conoscenza dell’altrui pensiero. Sulla sua scrivania poche cose: un
computer, qualche agenda, due penne allineate lungo il bordo destro e un libro.
Aguzzai la vista e lessi il titolo: PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA. Il
vecchio Freud era dappertutto. Anche lì sopra. Mi vennero in mente le sue
paranoie sul sesso e sui simboli fallici. Ho sognato una torre da cui sta
cadendo un uomo? È il mio desiderio sfrenato di sesso. Ho sognato che mangio un
gelato? Probabilmente sono omosessuale ma ancora non lo so.
Un colpo di
tosse del Presidente mi fece tornare alla realtà. Egli mi sorrise e, quasi
telepaticamente, mi invitò a parlare. Gli esposi tutte le mie perplessità e le
mie paure nel giro di 8 minuti dopodiché attesi la sua risposta immerso in un silenzio
siderale. Con un gesto ieratico del braccio destro fece cenno alla segretaria
di uscire. Si sprofondò nella sua sedia con un sospiro. Iniziò a fissare il
libro di Freud. Pareva immerso in profondi pensieri. Poi, d’un tratto, con un
formidabile colpo di reni si alzò in piedi. Era un bell’uomo, sui quarant’anni,
vestito di tutto punto e cromaticamente perfetto. Fece qualche passo mentre io
tentavo di ingoiare un tot di saliva che mi ingombrava la bocca. Si diresse
verso una nicchia scavata nel muro nel cui interno vi erano incastonate due
borracce. Mi chiese cosa vedessi. Gli risposi che vedevo due borracce. Poi mi
domandò se sapevo cosa potessero contenere. Ovviamente la mia risposta fu
negativa. Dopo un lungo silenzio all’interno del quale, a volte, sono contenute
delle verità, mi rivelò che in una c’era un liquido che poteva aiutare un uomo
ad affrontare la paura e a risolvere i problemi che lo affliggono. Allungò un
braccio, afferrò la seconda borraccia e, ad alta voce, mi chiese:
“SAI,
INVECE, COSA C’E’ QUI DENTRO?”
Aveva l’aria
di chi conosce la risposta e non vede l’ora di dirtela.
Feci finta
di pensare. Abbassai il capo in una sorta di penitenza mistica. Mi arrovellai
su cosa potessi dirGli per stupirlo ma i minuti passavano e a me non veniva in
mente nulla.
Fu così che
per la seconda volta Egli parlò:
“QUI DENTRO
C’E’ LO STESSO LIQUIDO CHE SERVE PER ANDARE AVANTI ED AFFRONTARE NUOVAMENTE LE
PROPRIE PAURE CHE GENERANO A LORO VOLTA I PROBLEMI!”
Rimasi in
silenzio. Osservai attentamente il libro di Freud come se potesse, in qualche
modo, aiutarmi. Diedi un’occhiata al retro dello schermo del suo computer.
Vagai con gli occhi su alcuni particolari delle sue scarpe poi mi ritirai
sconfitto in me stesso. Il Presidente rimase fermo con la borraccia in mano
mentre mi congedai da lui. Uscii dall’ufficio, aprii e chiusi sette porte che
mi scaraventarono nella triste realtà del Centro di Riabilitazione
Psichiatrica. Mentre camminavo nel corridoio che dava verso l’uscita,
ripensando a ciò che mi aveva detto il Presidente, vidi un operatore che stava
facendo l’ennesima doccia alla coprofaga muta a cui piaceva tanto disegnare sui
muri con le proprie feci. Notai che il bastardo aveva posizionato il
miscelatore sull’acqua fredda ma ero troppo avvilito per dire qualcosa quindi
mi allontanai con i muggiti della poveretta nelle orecchie sovrapposti agli
urli dell’operatore che, con un ghigno, ben sapendo perché volesse scappare dal
bagno tutta sporca di merda, tentava in tutte le maniere di ricacciarla sotto
l’acqua.
...ebbi occasione di leggerlo tempo fa...rimane un piacere della mente,un gusto succulento del mio occulto ethos letterario,questo racconto così crudamente e pacatamente realistico.Uno spaccato della vita,nella sua accezione fatta di sofferenza,dolori ed odori,illusioni e anestetizzata rassegnazione autoimposta. Ale
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