Il mio nome è Francesco anche se mi hanno sempre chiamato “
Ceccù”. Sono nato a Genova nel ’49, in
Corso Perrone. Ho lavorato 35 anni in Italsider
all’altoforno fino al 2002, proprio quando le cokerie chiusero per il
loro impatto sulla salute . Ricordo ancora con terrore l’esplosione, nel 1991,
del crogiolo Afo2 e la perdita di ghisa liquida a 1550° nel 2004 che sconvolse
l’intero quartiere. In quei tempi chi
stava in quel reparto doveva per forza essere robusto e senza tante storie per
la testa. Penso ancora ai i volti dei colleghi che erano alla linea di
decapaggio di acido cloridrico e solforico: avevano 30 anni ma ne dimostravano
50 e i loro volti erano scavati intorno
ad occhi come palline da golf usate da troppo tempo. Ho sempre nelle orecchie
il frastuono dei treni per la laminazione a freddo vicino alle linee di
stagnatura e cromatura elettrolitica. Era una bolgia infernale di fumi e fuoco
e odori nauseabondi e noi stavamo lì come dannati senza aver commesso peccati
particolari se non quello di avere una famiglia a cui dare da mangiare. Quando
tornavo a casa mia moglie, talvolta, mi vedeva così stanco che non diceva
nemmeno di togliermi i vestiti sporchi, permettendomi di sedere direttamente
alla tavola per il pranzo o la cena. Mi lavavo solo le mani: quelle si. A
volte, fissando il buco del lavandino che inghiottiva l’acqua sudicia , mi
chiedevo se insieme a quella nera miscela ,sarebbero scivolate via anche le
ultime forze rimaste per aprire la bocca e masticare. Ho anche un sacco di
amici. Alcuni di loro, purtroppo, sono morti così ogni tanto vado a portare
loro un fiore, su al cimitero di Coronata. E lì ritrovo il Parodi morto di tumore al
polmone, addetto alla cokeria; il Canepa, morto di leucemia, anche lui alla
cokeria; Sciaccaluga Vittorio, “il gigante buono”, che invece di schiacciare
l’uva, come l’origine del suo nome farebbe pensare, ha “pestato” per 30 anni i
laminati con la pressa che ora sta arrugginendo davanti al Leroy Merlin.
Ma la cosa strana di cui volevo parlarvi è quello che è
accaduto proprio oggi, 1° novembre,
mentre facevo il mio solito giro a salutare vecchi colleghi. Dopo aver
lasciato un crisantemo sulla tomba del caro Ferrando, anche lui scomparso per
un brutto male, ho visto un mio vecchio amore di tanti anni fa. Ma proprio
tanti! Ci siamo incrociati lungo il vialetto che porta all’ossario comune. Mi ha guardato ma non mi ha riconosciuto. E
quasi immediatamente la memoria ha scaraventato nel mio naso un profumo di uva,
pitosforo, glicine ed erba appena tagliata. Mentre le passavo vicino, senza
guardarla, sfiorando appena con un braccio il cappotto del marito, la mia mente
ha attivato le immagini sbiadite di una merenda dietro un casolare su alla
Guardia e un bacio appassionato davanti ad un tramonto, che in quei periodi era
ancora uno dei più bei film che si potessero vedere. Quella passione era durata
qualche mese, anche se ci eravamo promessi che non sarebbe finita mai.
L’ho guardata e ho capito che a ricordarmi di quell’amore
ero rimasto solo io e mentre stavo uscendo dal cimitero, qualcosa mi ha detto
che è andata bene così. Scendendo la lunga discesa verso il centro ho pensato
che tra i due chi mi ha fatto rabbia è il marito: tutto ben coperto, con
cappotto, sciarpa, cappello e ombrello sul braccio. Aveva l’aspetto sano di un
ricco imprenditore in pensione. Uno di quelli che l’aria di Cornigliano, in
quegli anni, l’aveva sempre respirata attraverso il filtro di un condizionatore:
sia d’estate che d’inverno.
Ma forse quello non era il posto giusto per simili cattivi
pensieri e nemmeno il giorno.
Alva.