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web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

sabato 21 giugno 2014

Funeral Party

Ho due ricordi distinti
del funerale di mio padre:
le scarpe di vernice che dovetti mettere
e il caldo.

Odiavo quelle scarpe di vernice.
Erano belle ma cigolavano.
Facevano un rumore insopportabile
ed avevano le stringhe sottilissime
e le mie mani erano troppo grandi.

Era una mattina d’estate
e faceva caldo
molto caldo.
Mentre mi piegavo per allacciarle
gocce di sudore cadevano dalla mia fronte
sopra quelle fottute scarpe.

Le maledicevo.
Ma erano belle.
Per le grandi occasioni.

E l’occasione era arrivata
piombata su di me
come un falco sulla preda.

L’uomo che aveva contribuito
a silurarmi in questo mondo schifoso
se ne era andato all’inferno.

E all’inferno
doveva far molto più caldo che qui.

I miei piedi erano gonfi
e le scarpe strette.

Ma tutto ad un tratto
il piede sinistro scivolò dentro alla scarpa
e il destro lo seguì a ruota.

Non avevo più scuse. Dovevo andare.

Vedevo mia madre indaffarata
invecchiata di 20 anni
19 dei quali per colpa sua.

L’aveva abbandonata
quando io avevo 2 anni e mezzo.

Non mi sopportava
perché piangevo,
perché mi cagavo addosso,
perché mangiavo prima di lui.

Gli rompevo i coglioni
e non faceva niente per nasconderlo.

Mia madre era succube.
Troppo stupida per lui.

E la picchiava.Senza ragione.
E lei piangeva.Con ragione.

Un giorno a pranzo
mi tirò una bottiglia di vino
e mi mancò
e la macchia rimase per anni su quel muro.

Io crescevo.

Lui ci aveva lasciato.
Ma quella macchia no.
Rimaneva a ricordarci di lui.

Ero pronto.
Vestito giusto,
scarpe giuste,
umore sbagliato.

Camminai.
Le scarpe iniziarono a protestare.

Sudavo. Ma m’incamminai.

Arrivammo all’ospedale.

Tanta gente. Troppa gente.

Nessuno piangeva.

I soliti discorsi si intrecciarono.
Le solite strette di mano.

Dovevo avere una faccia terribile
perché nessuno mi parlò.

Meglio così.

In fondo a uno stanzone, una bara aperta.
Era sorretta da due piedistalli.

Poco più in là una suora.
Stava seduta e anche lei sudava.
Ma pregava.
- tempo sprecato, sorella! - pensai

Il mio naso
con la sua infinita onestà
mi scaraventò nel cervello i primi odori:

sudore, fiori marci e formaldeide.

Ogni tanto qualcuno estraeva un fazzoletto
e si asciugava la mani e la fronte.

L’atmosfera diventò pesante.

Arrivò un addetto
e disse di stringere i convenevoli
e chiudere la cassa
dato il caldo...

Tutti annuirono.

Uno dopo l’altro gli passarono accanto. Per l’ultimo saluto.

Arrivò anche il mio turno.
Mi avvicinai
ed eccolo lì
quel figlio di puttana.
Avrei voluto sputargli in faccia. Ma non lo feci.
Non avevo più nemmeno un goccio di saliva.

Mi vennero in mente tante cose.

La sua mania per l’igiene,
il suo modo di voler vincere sempre e a qualunque costo.

E c’era riuscito.
S’era fatto i soldi.
E li aveva anche spesi.
Con migliaia di baldracche.

Mi diceva:
“ricordati che ciò che è importante nella vita è vincere, non partecipare, perchè qualunque stronzo può partecipare, ma a vincere è sempre e solo uno!”

Mentre finivo di pensare a quello
il coperchio fu messo
e iniziarono a chiuderlo.

Il caldo era insopportabile.
La suora grondava sudore ovunque.

Cercavo di immaginarla sotto la doccia.
Con il rosario appeso al rubinetto.

Quando la bara fu chiusa
chiesero chi volesse sostenerla.

Mi girai dall’altra parte.

Quattro uomini lo issarono sulle spalle.
Avevano la giacca e la cravatta.

E il caldo mi tirava calci nel culo.

Uscirono molto in fretta.
Lo deposero in una vettura apposita.
Il tragitto da lì al cimitero fu breve.

Lo seguimmo a piedi.

Il piccolo corteo varcò l’ingresso.
Attraversammo due campi uguali.
Tante croci, marmi, parole scritte.
Parole di lodi a chi non era più.
Quel cimitero,come tutti, era zeppo di persone insostituibili.

Le lucertole parevano le uniche
ad apprezzare il caldo.

Intanto i raggi del sole
usavano la mia testa
come un tamburo.

Arrivammo a destinazione.
Vidi un grosso buco con tanta terra ai lati.

Era profondo
buio
fresco.

Mi ci sarei buttato dentro
e avrei schiacciato un pisolino all’ombra.

Invece calarono lui. Con delle corde.

Quando arrivò in fondo
le sfilarono.

Qualcuno biascicò qualcosa. Forse una preghiera.

Una signora si chinò
raccolse una manciata di terra
e la lasciò cadere sulla cassa.

Avrei voluto fare anch’io lo stesso.
Ma non con la terra.
Mi sarebbe piaciuto riempire quel fosso
con la merda che mi aveva buttato addosso
in tutti quegli anni.

Ma non sarebbe bastato quel buco.
Neanche due.
Forse neanche cento.

La prima badilata di terra
fece un colpo sordo
insignificante
quasi in punta di piedi.

Poi seguirono gli altri.
E furono più allegri
secchi
decisi
costanti.

Un’ora dopo tutto finì.
Quintali di terra erano ormai su di lui.
- un ottimo concime per tutta quella roba - pensai.

Ineluttabilmente i vermi avrebbero presto banchettato di lui.

Ero felice di non essere un verme.
Ero felice di non essere uno di quei vermi.

Il caldo mi stava sciogliendo.

Decisi di andarmene.
Diedi un’altra occhiata
e conclusi che tutto si era compiuto.

Mio padre era al sicuro.
I suoi ricordi di me erano seppelliti con lui.

Le mie scarpe cigolavano.

Ero sudato,
stanco
ed incazzato.

Oltrepassai il cancello,
mi voltai,
gettai uno sguardo distratto
e lasciai gli ospiti di quel luogo
ad attendere l'ennesima sera.
Per mio padre sarebbe stata la prima.
Fosse stato vivo avrebbe detto: “ …un gran brutto posto per trascorrerla!”

Ma era morto.
Non sparava più cazzate.

Un sole arancione
stava tramontando
dietro le colline.
Lo osservai fino a che scomparve.
Poi,
faticosamente,
trascinai me stesso
dentro il mondo
che mi accolse.

                                                                                                    Alvaro.

martedì 17 giugno 2014

Al tempo in cui...


...una dopo l'altra
tutte le mie cose erano finite:

la famiglia,
la casa,
il denaro,
il senso della vita,
il rispetto verso me stesso.

Ero diventato nervoso e insofferente.

Vivevo in un monolocale
davanti al porto di Genova.
Costantemente in ritardo con l'affitto.

Il proprietario
che abitava qualche piano sopra me
non dimenticava mai di ricordarmi che ero un fallito.

Era lui che ritirava la posta
che arrivava dalle case editrici
per comunicarmi il loro rispettoso rifiuto.

“C'è posta per il grande scrittore!” - mi scherniva.
Io mi chiudevo dentro quella stanza
e aprivo le buste:

<...e dopo un attenta rilettura dei Suoi testi siamo lieti di informarLa che nel caso Lei desiderasse riunirli in un volume
al modico costo di...>

<...siamo spiacenti informarLa che, a causa del contenuto eccessivamente scurrile dei Suoi “testi”, non potremo...>


<...desideriamo inoltre informarla che anche scrittori di fama internazionale, dovettero autofinanziare i propri lavori per...>

<...e così questa è la nostra proposta: suddividere in due (2)
volumi i Suoi racconti e le Sue poesie dal costo complessivo di...>

finiva tutto nello scarico del cesso.
Era quello il mio posto: il cesso.

Ogni tanto entrava qualche donna in quella stanza.

“ questo posto fa schifo!” - dicevano.
“ se non ti piace puoi andartene” - era la mia risposta.

E se ne andavano.
Ma solo dopo aver preso una buona dose di cazzo.

Era così che funzionava.

Donne vestite bene e profumate
che provavano il brivido della povertà
accanto ad uno pseudo scrittore
che le avrebbe trattate
come a loro piaceva
e cioè come puttane.

Donne belle e brutte
donne giovani e vecchie
donne intelligenti e stupide

Donne che fingevano
di apprezzare ciò che scrivevo.
Donne con gli occhi languidi.
Donne silenziose.
Donne che puzzavano.
Donne a cui piaceva sentirsi dire: “ sei una troia!”

e tutte che rispondevano allo stesso modo: “ sono la Tua troia!”.

Per salvare le apparenze.

Ma sapevo che sarebbero state le troie
di chiunque fosse riuscito
ad entrare nelle loro mutande.

Una di loro mi disse:

“ Resta com me e la tua vita cambierà!”
“ La vita non può cambiare – risposi – puoi solo renderla più accettabile”.
“ Meglio una vita più accettabile che una vita di merda come la tua!” - gracchiò.
“ Meglio una vita di merda come la mia piuttosto che una vita
di merda 'accettabile' come la tua” - fu la mia risposta.

“ ADDIO!” - urlò mentre usciva dalla porta.
Nel richiuderla notai una busta infilata sulla maniglia esterna.
Non era quella di un editore.
“ ...e se non provvederà, entro due (2) giorni, al saldo dell'affitto da Lei dovuto, sarò costretto, mio malgrado, a chiederLe di abbandonare il locale di mia proprietà. In caso
ciò non dovesse avvenire La informo che provvederò allo sgombero coatto con le Forze dell'Ordine le quali...”.

Al tempo in cui

ricevetti questa lettera

ricordo che avrei voluto rincorrere
quella donna
che mi aveva promesso
una vita migliore

ma dopo tanti anni
sono certo che
sia io
che lei

facemmo la scelta giusta.


                                               Alvaro.

Iper Coop o Face Book?

Quando entro in casa la seconda cosa che faccio è: la pipì. La prima: mi connetto a Facebook. Digito il Login e osservo se è cambiato qualcosa. Osservo con una di quelle occhiate come farebbe un vecchio lupo di mare quando scruta il cielo sereno e il mare piatto e ad un certo punto, con una voce resa roca da milioni di sigarette profetizza: “ QUESTA SERA, BURRASCA!”.  E tu quasi sempre ridi. E lo abbandoni sul molo con pensieri di compassione verso quel babbeo senile, pensieri di cui dovrai pentirti, diciamo verso le 19.30, quando un violento e imprevisto temporale distruggerà il tuo barbeque, organizzato da mesi e al quale avevi invitato quattro tuoi cari amici d’infanzia provenienti dai quattro punti cardinali della penisola. Cosa stavo dicendo? Giusto,il mio profilo. Gli do un’occhiata e realizzo che: ho sempre i soliti tre amici, nessuno mi ha scritto e le mie foto sono sempre senza commento (sigh!). Forse qualcuno non sa che è MOLTO difficile farsi degli amici su Facebook e quasi impossibile delle amiche. TEORIA PERSONALE: se cerchi di farti degli amici pensano che tu sia gay; se cerchi di farti delle amiche pensano che tu ti voglia far loro ERGO : non ho amici su Facebook!
Il meccanismo di questo social network è semplice: vedi una foto, ti piace la tipa o il tipo quindi clicchi, su “INVIA UN MESSAGGIO”. Dopodiché devi aspettare ( a volte anche settimane) che il/la futuro/a amico/a ti annoveri tra i suoi amici informandoti del lieto evento con una mail alla tua casella di posta elettronica. Ti puoi divertire a digitare un nome e cognome a caso tanto per vedere a quante foto corrispondono quelle due parole. Una sorta di omonimia catartica che si srotola davanti ai tuoi occhi. Un vero e proprio catalogo umano di facce. Alcune belle. Altre stupide, volgari, rozze, orrende; con sguardi ebeti e vacui che sembrano sciogliersi  lungo lo schermo.  Vabbè, neanche mezz’ora dopo ho già spento il pc. Ho bisogno di vedere gente reale. Apro il frigo. E’ vuoto. Ho bisogno di fare la spesa. Decido di andare all’Iper Coop di Carasco.
Carasco, che è un piccolo paesino nell’entroterra di Lavagna, ospita sul suo territorio l’IperCoop, detto anche “ I Leudi”. Esso è una costruzione di scarsa importanza architettonica ma di grande interesse antropologico. Nel suo interno vi è un sacco di gente che è occupata all’acquisto di generi alimentari e non. E’ di vitale importanza imparare a “zigzagare” , affinandosi nell’arte dello sgusciare verso la via di fuga più vicina. I primi che ti saltano agli occhi sono i “fotofobi”, coloro che inforcano scurissimi occhiali da sole per tutta la durata della spesa ( sintomatico splendore, carismatico mistero. Battiato docet.). Poi ci sono i modaioli un po’ tamarri che non fanno altro che vagare inconcludenti tra le corsie. In pratica non fanno nulla ma lo fanno con estrema eleganza. Ho anche visto 2 gigolò ( li conosco, bazzicano certe discoteche a Genova delle quali è pietoso e saggio tacerne il nome) che scannerizzano la fauna femminile.  Ma il pezzo forte sono: LE FAMIGLIE!  Si potrebbe scrivere un’enciclopedia per ognuna di esse.  Le famiglie hanno:
1)   i carrelli sempre zeppi di cose che piacciono solo ai figli;
2)   almeno un genitore obeso;
3)  almeno un genitore magro che ha 30 anni o poco più ma che ne dimostra 50 o poco meno; 
4)   mediamente 2 figli;
5)   almeno uno dei loro figli obeso;
6)   almeno uno dei loro figli magro ma iperattivo.
I genitori di tutte le famiglie, all’interno del supermercato, sempre e sistematicamente: URLANO!
Cose tipo: VIENI QUA!
COSA FAI?
NON TOCCARE!
NON SI FA!
DOVE VAI?
STAI VICINO A ME!
STAI VICINO A PAPA’!
GUARDA DOVE  VA’ TUO/A FIGLIO/A!
NON CORRERE! GUARDA CHE POI LE BUSCHI!
CATTIVO/A! NON TE LO COMPRO!
 CE L’ABBIAMO GIA’!
LA MAMMA NON HA PIU’ SOLDI!
LA MAMMA NON HA INTENZIONE DI SPRECARE SOLDI!
CHIEDI I SOLDI A PAPA’!
E’ PAPA’ CHE HA I SOLDI!
STO PERDENDO LA PAZIENZA!
APPENA SIAMO FUORI LE PRENDI!
Le famiglie non lo sanno ma i loro figli sono già dei teppisti a 8 anni infatti, quando credono di non essere visti da nessuno:
1)   INFILANO LE DITA NEL CAMEMBERT;
2)   APRONO LA NUTELLA;
3)   MANGIANO LE CARAMELLE E RICHIUDONO IL SACCHETTO PRECISO PRECISO; 
4)   SI PULISCONO IL NASO SUI CAPI APPESI;
5)   SI SCACCOLANO E LANCIANO LE PALLINE APPENA CREATE DENTRO I BANCONI DEI SURGELATI;
6)   PRENDONO LE BARRETTE  DI CIOCCOLATO, LE TENGONO PER 1 ORA IN MANO E POI LE ABBANDONANO( SCIOLTE) DOVE CAPITA;
7)   STRAPPANO LE FOGLIE ALLE PIANTE NEL REPARTO GIARDINAGGIO;
8)   SPUTANO PER TERRA E ATTACCANO I CHEWING GUM NELLE VASCHE DELLE LAVATRICE VICEVERSA LI SPUTANO DIETRO LE TELEVISIONI ESPOSTE NEL REPARTO HI – FI.
Potrei andare avanti per ore ma ho finito di fare la spesa. Vado alla cassa e pago. La cassiera mi dice ad alta voce: “ IL SUO RESTO AMMONTA A 1 EURO E 35 CENTESIMI!”
“ Grazie” – biascico io. Poi esco. Un ragazzo al cellulare urla: “ OHI…SONO ALL' IPERCOOP, STASERA CI VEDIAMO SU FACEBOOK?”.
Ma vaffanculo, penso.                              
                                                                                     Alvaro.

Cosa sappiamo fare?

Genova.
Foce.
Piazzale Kennedy.
Cinque e trenta del mattino.

Sto attendendo l’autobus. Il mare,poco distante, mugghia.

Accanto a me, appollaiato su un cartellone pubblicitario, un gabbiano.


Ad un tratto arriva una macchina,
si ferma bruscamente,
si apre la  portiera destra ed esce una ragazza;
sui 30 anni,
bionda,
con un lungo cappotto nero...
quasi nello stesso momento
dall’altro lato
esce un uomo
molto più vecchio di lei
le si avvicina e inizia a dirle quanto l’ama...
ma lei ha la testa bassa,
non dice nulla
lui sembra disperato

continua a dire:”ti amo...ti amo...non so fare altro...”

Lei dice no con la testa e con le mani lo allontana.
Lui la supplica di tornare nella loro casa

Ma lei non ne vuole sapere.

Ora piange.

E’ un pianto isterico,liberatorio.

Un pianto che contiene una decisione,

e lui lo sa

“...ti amo...ti amo...non so fare altro!”- continua a ripetere l’uomo

e mentre lo dice ha il volto tirato,
come chi sa di starsi per giocare l’ultima carta
ora però lei ha deciso
non lo vuole mai più vedere.

Lui le chiede se è sicura
la donna risponde si con la testa e si con il cuore.

L’uomo rientra in macchina e se ne va sgommando.

Arriva l’autobus.

Sono le sei.

Il sole sta nascendo per l’ennesima volta.

Sia io che lei saliamo.

Le porte si chiudono.

Mentre mi allontano verso levante
guardo dove prima c’era il gabbiano appollaiato
e che ora non c’è più.

Alzo gli occhi al cielo

e lo osservo veleggiare sul primo vento caldo del mattino,

elegante,

sinuoso,

aristocratico.

Sta volando verso il suo destino.

Prima o poi lo raggiungerà.


Non sa fare altro.





                                                                                         Alvaro.

Il mio amico Gianni.

Gianni, l’artista pazzo che dipingeva con i colori prodotti dallo sminuzzamento dei mattoni e dalle pietre e dalle piante, mi fece entrare nella camera in cui viveva al bordo della strada. Era umida e fredda. 

Era il 21 gennaio 1979. 

Camminavo tra le lattine di birra e le bottiglie di vino vuote.
“ Vuoi un quadro?” – mi chiese.
Mi guardai attorno. Non vedevo quadri.
“ Beh, tu sai che a soldi sono mal messo e…”
“ No, no, no, no! – disse ad alta voce – Non dipingo per denaro!”
“ Ok, affare fatto! – risposi – dammi un quadro.”
Sapevo che Gianni sarebbe diventato qualcuno. Era troppo simile a Ligabue, troppo vicino alla pazzia, così vicino da farti sentire imbarazzato per la logicità dei suoi pensieri mal riposti in quella testa pitecantropesca.
“ Ora, se mi dai una mano, te lo dipingo.” – disse Gianni.
Mi chiese di seguirlo dentro una botola che stava sulla parete. Strisciando arrivammo in un cortile che dava sul muro di un supermercato. Come fosse un grillo Gianni iniziò a scegliere le cassette di verdure che erano ammonticchiate un po’ ovunque. Ne afferrò una. Me la diede e mi indicò il buco da dove eravamo arrivati. Quando rientrammo nella stanza faceva un freddo terribile. Il fiato di entrambi diventava vapore e sembravamo due fumatori accaniti.
Corse vicino a una vecchia stufa di ghisa, rotta nella parte inferiore e si strofinò le mani come se da essa uscisse il più bel caldo del mondo.
Notai un foglio, appoggiato accanto ai piedini della stufa, su cui vi era scritto:” Battidenti atomica. Il freddo è una proiezione mentale!”
Prese la cassetta, spaccò i 4 lati e sul retro iniziò a dipingere.
Dopo 10 minuti mi consegnò la “tela”.
Era il ritratto di un viso di donna giapponese.
“ Lei mi protegge!” – mi disse sorridendo.
“ Certo!” – gli risposi.
Quando me ne andai lo vidi rientrare spingendo la porta senza serratura.
Tre giorni dopo una macchina lo travolse in un incrocio.
Sono passati 35 anni da allora.
Il quadro l’ho perduto in un trasloco, ma gli avevo fatto una fotografia.


Eccola.
Non è bellissima?






                                                                           Alvaro.

Cannonau

Campagne francesi.
Nord ovest di Parigi.
Settembre 2004.
So dove mi trovo ma non riesco a scriverlo.
So che mi sono fermato ( a destra, sempre a destra )
e un tizio mi ha detto che lì andava bene,
che non davo fastidio
che potevo morirci, lì.

“ Mercì beacoup!” - ho risposto.

I lavoratori
onesti padri di famiglia
escono da una fabbrica.

Fuori li attende un autobus
per riportarli a casa
con un tavolo già pronto
e i figli davanti alla televisione.

Io, invece, sono solo

tra il sole e le stelle
tra la torre Eiffel e Dio
vicino a una strada che porta a Roma ( così dicono).

Non so cosa fare
così mi sono messo a bere:

un bicchiere,
poi un' altro, un'altro, un'altro, un'altro e un'altro.

Dio, sono accanto a Te: mi senti?

Guarda il tuo maledetto figlio di n.n. che ti cerca!

Sono qui.
Agonizzante. Non vivo. Non morto.

Come un relitto
pieno di scheletri vestiti
che vorrebbero andarsene
ma che invece resteranno ( avete mai visto uno scheletro nuotare?)

E, sapete una cosa?
La tigre è di nuovo qua!
Non c'è verso a sfuggirgli!

E' nervosa,
inquieta,
e mi guarda.
La faccio salire. Mi annusa.
Si struscia contro di me e mi lecca il braccio destro ( la sua lingua come una lima).

Poi s' accuccia e chiude gli occhi.

Ma ogni tanto li riapre
come per guardare cosa sto facendo.

Io sono stravolto dal vino.
Vedo la musica. Sento la luce.

Luce che si scompone in mille volti sofferenti.

Il profilo del santo pugliese si fa guardare.

Chiedo un miracolo e aspetto:

un minuto,
dieci minuti,
cento minuti.

Non succede nulla.
Tutto è come prima.
Fuori è buio. Le stelle urlano.

In un campo accanto
dodici mucche si dirigono lentamente alla stalla.
Tonnellate di bistecche in movimento.

Il telefono tace.
La radio spara cazzate.

Mentre io

torbidamente

per l'ennesima volta

chiedo conforto alla bottiglia.


                                                                            Alvaro

Matteo che voleva volare.

Facevamo coppia fissa.
Io e Lui.
Estate del ’73.
18 anni in due.

Il mondo non c’interessava.
Galoppavamo con la fantasia.
Dalla mattina alla sera.
Giù in cortile.

Tra i casermoni vecchi e grigi del nostro quartiere.

Imitavamo le gesta dei supereroi che leggevamo.

Era bello giocare con lui
perché non si bisticciava mai per il ruolo principale;

potevi fare quello che volevi,
rivestire i panni di qualunque personaggio,

dato che a Matteo
interessava solo VOLARE!

Mi spiego: se la nostra città da salvare
era invasa dagli alieni
ed io lottavo strenuamente
per sconfiggerli,

lui, ad un certo punto,
alzava le braccia
come fossero ali di un aereo
e
imitandone i motori

arrivava a velocità fantastica
compiendo evoluzioni tali
da far impallidire il più provetto dei piloti.

Quando, invece,
la nostra città mentale era tranquilla,
perché gli alieni si erano momentaneamente ritirati,

Matteo la pattugliava dall’alto,
sempre con le braccia tese,
come uno sceriffo volante,
pronto a scendere in picchiata per ristabilire l’ordine.

Un giorno mi disse:

“…sono sicuro che riuscirei a volare!”.
“ Ah si? - gli risposi - e come?”.
“ Guarda là, ”- e indicò una parte del terreno, poco distante da noi, leggermente in discesa.

“ E allora?” - domandai incuriosito.
“ Potremmo costruire delle ali con del cartone, legarle alle mie braccia e poi…con un po’ di rincorsa…”.

Lo guardai dall’alto dei miei 10 anni.
I suoi occhi luccicavano d’ingenuità.

“ Sul serio credi di poter volare con delle ali di cartone?” - chiesi.
“ SI!” - fu la sua secca risposta.
Trascorremmo l’intero pomeriggio a costruire quelle ali.
Quando furono pronte, gliele legai alle braccia.
Andammo su quel terreno in pendenza.
Prese la rincorsa.
La giornata era stupenda e il sole bruciava la pelle.
Quando arrivò nel punto prestabilito, spiccò il salto.
Sbatté un paio di volte le braccia in un ultimo, disperato tentativo.
Poi cadde a terra.
Lo guardai piangere. Da lontano.
Urlava, strappava a pezzi quel cartone che l’aveva tradito.
Dopo quell’episodio non ne parlammo più.
Continuammo a giocare. Come sempre.

Io a terra. Lui in cielo.

Un mattino, come al solito ci incontrammo
e gli dissi che me ne sarei andato via per un po’,
i miei mi portavano in vacanza.

Ci rimase male, ma poi disse:
“…vabbè, volerò da solo!”.

Il giorno seguente partii per il mare con i miei genitori.

Per 30 giorni mi annoiai.

Odiavo tutta quell’acqua in movimento,
la gente,
la sabbia;
odiavo ciò che gli altri amavano.

L’unica cosa che mi divertiva
era osservare i gabbiani litigare per il cibo.
Quando li vedevo librarsi in volo,
rimanendo ore a galleggiare nel vento,
pensavo a Matteo
e a come sarebbe stato felice
nel fare la stessa cosa.

Le vacanze finirono
quindi ritornai nel mio quartiere;
senza mare,
senza sabbia,
senza gabbiani,

con gli edifici
talmente attaccati tra loro
che a volte
a mezzogiorno
eravamo anche senza sole.

Cercai Matteo.
Ma in giro non c’era.

Dal mio cortile potevo vedere
le finestre chiuse del suo appartamento.
Pensai che se ne fosse andato in vacanza anche lui.

Ero triste, così me ne tornai a casa.

Alla sera
venni a sapere dai miei genitori
che 4 giorni dopo la nostra partenza
Matteo cadde giù dal suo terrazzo,
al settimo piano,
sfracellandosi al suolo.

I suoi genitori se n’erano andati,
trasferiti in un’altra città,
molto lontano da lì,
portandosi dietro anche il povero Matteo.

Non riuscii mai a sapere
quale fosse la città
in cui andarono,

perciò non lo rividi mai più.

Nemmeno in foto. Su una lastra di marmo.
Ma è rimasto nella mia memoria.
Sento ancora la sua voce infantile
e vedo i suoi occhi ingenui.

A volte,
ancora adesso,
dopo 41 anni,
mi ritrovo a piangere.

So che non è stato un incidente,
bensì l’ennesimo tentativo di volare.

Ma è un segreto che rimarrà tra noi due.

Mi auguro che gli dei
siano gentili con Te,

e che, impressionati dalla tua determinazione,
ti regalino un bellissimo paio di ali,

come quelle dei gabbiani

ma grandi come quelle delle aquile,

permettendoti di pattugliare il mondo dall’alto,

come sarebbe piaciuto a Te.

Io
invece
sono ancora qua,
non so per quanto

e non so ancora adesso il perché.

Ma se mi dovessi trovare nei guai
per le strade del mondo
fai come facevi in quella calda estate del ’73:

scendi in picchiata e salvami.

Anche se so

che l’hai già fatto

più di una volta.


                                                                                                  Alvaro

domenica 15 giugno 2014

Confessione.

Io sono il figlio di un bastardo e di un'ingenua.
Il frutto andato a male dello sbaglio di due famiglie.
Non credo che difenderò la patria
o morirò per il tricolore.

La mia arma è stata la menzogna.
Ogni conquista una fortuna.
Ogni sconfitta una dura realtà.

I miei diritti sono stati il frutto dei miei doveri.
Il mio poco denaro è stato un mezzo e non un fine.
La fede in Dio un rifugio spartano.

Avrei voluto avere il coraggio del ragazzo di Piazza Tien an Men:
un' autentica forza divina.

Ma ho dovuto lavorare giorno e notte.
E ho confuso il giorno con la notte
per ottenere ciò che mi è stato tolto.

Sono entrato nel cuore di molte donne
per poi sedermi negli angoli delle loro stanze rotonde.

Ho rispettato l'umiltà degli uomini
e cercato di capire la presunzione di Dio.

Tutto questo con un solo obiettivo:
non essere mai come mio padre.
E una sola utopia:
esser migliore di lui.


Nel corso del tempo nessuno mi ha mai ostacolato.


E' stata ed è una strana storia, questa.

Ma è la vita.

Ed è mia.



                                                                                     Alvaro.

Scacco matto.

Scrissi la mia prima poesia all’età di 12 anni.
Più che una poesia
era una specie di riflessione filosofica
che rasentava la saggezza
tipica di chi
col passare degli anni
è incline a vivere la vita
con indifferenza e distacco.

La “immortalai” su di un foglio di carta a quadretti
che dimenticai sul mio comodino.

All’ora di cena
mio padre
era più silenzioso del solito.
Masticava lentamente il cibo che aveva in bocca
con un ipnotico movimento delle mandibole.

- Abbiamo un poeta in famiglia! - esordì con sarcasmo
rompendo il silenzio e guardando negli occhi mia madre.

- Oh! - disse lei - e chi sarebbe? -

Lui spianò lo sguardo verso me. Lentamente le sue labbra si contrassero in un ghigno.

- Ma chi, se non IL GRANDE ALVARO! -

Capii che aveva scoperto le mie parole.
Non alzai lo sguardo e continuai a mangiare.

- E cosa avrebbe scritto “il grande Alvaro”? - chiese mia madre con una punta d’ironia.
A quel punto il mio vecchio mise una mano nella tasca dei suoi pantaloni,
sfilò un pezzo di carta piegato malamente e lo porse a mia madre con un gesto brusco.
Guardavo da sottecchi.
Considerai più volte l’ipotesi di alzarmi e rintanarmi in camera mia: ma non lo feci.
Ero stranamente curioso di sapere cosa avrebbero detto.
In fondo, loro due erano il mio primo pubblico.

- Non male questo Alvaro ! - disse lei con un mezzo sorriso.


 - NON MALE UN CAZZO! - urlò lo stronzo - E’ UNA COSA DA FINOCCHI, NON DA UOMINI!

Percepivo il suo sguardo, ma non alzai la testa.

 - CRISTO DI UN DIO - farfugliò - UN POETA DEL CAZZO!
Mentre portavo il cibo alla bocca, avvertii l’irrefrenabile bisogno di piangere, ma il
mio orgoglio me lo impedì.

 - NON TI PERMETTO DI PARLARE COSI’ DI MIO FIGLIO! - urlò ad un tratto
mia madre.
Ero felice che prendesse le mie parti, ma il fatto di non avere la stima di mio padre
mi uccideva.

Trascorsero, bene o male, cinque anni.

Avevo preso l’abitudine di scrivere le mie cose su un libriccino tascabile.
Una sera, mentre andavo alla biblioteca comunale, ( era il periodo in cui leggevo le
biografie di tutti gli scrittori per vedere, se anche loro, nelle loro infanzia, avessero
dovuto sopportare delle umiliazioni ) mi resi conto di averlo scordato a casa,  nella tasca della mia giacca.
Fui preso dal panico.
Ritornai di corsa, mi precipitai in camera mia e vidi ciò che rimaneva delle mie parole: centinaia di coriandoli strappati alle belle meglio.
Ricordo di avere urlato la parola PERCHE’almeno dieci volte, mentre lui, dal salotto, senza nemmeno scomporsi disse:  - SONO COSE DA FINOCCHI, NON DA UOMINI! - .
Mi chiusi nel mio mondo e cercai di piangere. Invano.
Dopo quell’episodio trascorsero circa 15 anni, durante i quali mi sposai, ebbi 2 figli
e mi divorziai.
Continuavo a scrivere.
Mio padre si era trasferito con un’altra donna, 20 anni più giovane di lui, in un’altra città.
Mia madre invecchiava come solo una donna abbandonata può fare.
Anch’io invecchiavo.
Gli editori rifiutavano ciò che gli inviavo.
Le loro risposte erano sempre circolari.

“…apprezziamo molto il contenuto dei Suoi racconti ma, come Lei certo capirà, il nostro obbiettivo prioritario è la famiglia, quindi i Suoi scritti, eccessivamente scurrili
e reali non sono, per il momento, ciò che Noi vorremmo da Lei. Nel caso ridimensionasse la Sua emotività, saremmo ben lieti di proporLe un periodo di collaborazione di…”.
Iniziai a bere per non pensare.
Andavo ai reading di poesia alternativa che si svolgevano in un locale dove una compagnia teatrale faceva le prove.
Conobbi una marea di gente assurda.
Tutti con la segreta speranza di diventare qualcuno.
In quel momento non mi fregava più nulla di me stesso.
Cercavo di sopravvivere.
Volevo scaricare un po’ della mia merda, accumulata negli anni, a qualcun altro.
Ma era merda particolare. Incolore,inodore, insapore.
E quando la spargevo, facendo finta di niente, leggendola ad alta voce, c’era sempre quello/a che diceva: “ EHI, MA NON HAI VISSUTO NULLA DI ALLEGRO?”.

Cambiai luoghi di lettura.
Lessi le mie cose in certi pub talmente maleodoranti che una volta, tornando a casa ( da mia madre ) buttai via i vestiti indossati per quell’occasione.

Una sera di ottobre tentai il suicidio.
Mi svegliai in un ospedale dove l’infermiere continuava a dirmi di una tale persona che mi aveva salvato e che sarebbe arrivata da un momento all’altro.
Non riuscii a ringraziarla.
Era una società strana. Non potevo decidere di morire in santa pace senza che qualcuno si arrogasse il diritto di impedirmelo.

Uscito di lì, decisi di riprendermi la vita in mano.
Non serviva nulla perderla.
Iniziai a frequentare una palestra, cercando di far risalire in superficie i miei muscoli
annegati nel grasso.
Un martedì mattina ricevetti una lettera da mio padre.

“…non c’è nulla di peggio che andarsene da questo mondo, sapendo che il tuo unico figlio non ti perdonerà mai per degli errori di gioventù. Se tu solo cercassi di capire
in che vuoto sto trascorrendo gli ultimi giorni che mi rimangono certamente potresti,
non dico perdonarmi, ma almeno riflettere sul passato e concederti un ripensamento
sui fatti che hanno contribuito a deteriorare il nostro rapporto…”.

Stracciai la lettera, infilai tutti i pezzettini in una busta e allegai un foglio con su scritto: “ AVER PAURA DI MORIRE NON E’ DA UOMINI! E’ UNA COSA DA FINOCCHI!”.

La affrancai e la spedii.

Dopo circa sette mesi e mezzo, una sera, nella buca delle lettere trovai una busta molto elegante, il cui mittente era un famoso notaio del padovano.

“…e secondo le volontà di Suo padre, NULLA  a Lei sarà dovuto ( secondo le disposizioni testamentarie del sopracitato), sia dei beni immobili, sia del patrimonio
personale così suddiviso:…”
Girai la lettera dal lato bianco del retro e iniziai a scrivere.


“ C’è un uomo che piange. Ed è solo in una stanza.
In una stanza buia e silenziosa. E’ lì perché vuole stare solo. E non vuole sentire nessuno. Il suo è un pianto disperato. Non sò per cosa pianga. Ad un certo punto
è tale il suo bisogno di silenzio che decide di trattenere
ogni  più piccolo gemito. Nonostante ciò, nel suo cuore e nella sua anima, vi è frastuono. Così decide di andarsene. Esce da quella stanza. E ritorna il silenzio.
Per essere esatti il silenzio non si è mai mosso da lì. Siamo noi a fare rumore. Il silenzio è sempre esistito.
Ancor prima di Dio. E quando ce ne dovremo andare,
da questa immensa stanza chiamata vita ritornerà. Per l’esattezza,continuerà ad essere."                                                      

Questa era la prima poesia che scrissi quando avevo 12 anni.
Mi avvicinai al fuoco
che stava bollendo l’acqua per il caffè
e la bruciai.

Con quel gesto
feci l’ultima mossa
che decretò
la fine di una partita
durata oltre 30 anni.

Dopo uscii di casa.
Camminai a lungo quella mattina.
Ero un uomo.
Un uomo che scriveva poesie.
Non c’era nulla di male in tutto questo.

Avvertii  una sensazione strana:
come se un grosso peso
si staccasse dalla mia anima.


La partita era conclusa.

Potevo piangere.


                                                                                                                                             Alvaro.