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web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

sabato 21 giugno 2014

Funeral Party

Ho due ricordi distinti
del funerale di mio padre:
le scarpe di vernice che dovetti mettere
e il caldo.

Odiavo quelle scarpe di vernice.
Erano belle ma cigolavano.
Facevano un rumore insopportabile
ed avevano le stringhe sottilissime
e le mie mani erano troppo grandi.

Era una mattina d’estate
e faceva caldo
molto caldo.
Mentre mi piegavo per allacciarle
gocce di sudore cadevano dalla mia fronte
sopra quelle fottute scarpe.

Le maledicevo.
Ma erano belle.
Per le grandi occasioni.

E l’occasione era arrivata
piombata su di me
come un falco sulla preda.

L’uomo che aveva contribuito
a silurarmi in questo mondo schifoso
se ne era andato all’inferno.

E all’inferno
doveva far molto più caldo che qui.

I miei piedi erano gonfi
e le scarpe strette.

Ma tutto ad un tratto
il piede sinistro scivolò dentro alla scarpa
e il destro lo seguì a ruota.

Non avevo più scuse. Dovevo andare.

Vedevo mia madre indaffarata
invecchiata di 20 anni
19 dei quali per colpa sua.

L’aveva abbandonata
quando io avevo 2 anni e mezzo.

Non mi sopportava
perché piangevo,
perché mi cagavo addosso,
perché mangiavo prima di lui.

Gli rompevo i coglioni
e non faceva niente per nasconderlo.

Mia madre era succube.
Troppo stupida per lui.

E la picchiava.Senza ragione.
E lei piangeva.Con ragione.

Un giorno a pranzo
mi tirò una bottiglia di vino
e mi mancò
e la macchia rimase per anni su quel muro.

Io crescevo.

Lui ci aveva lasciato.
Ma quella macchia no.
Rimaneva a ricordarci di lui.

Ero pronto.
Vestito giusto,
scarpe giuste,
umore sbagliato.

Camminai.
Le scarpe iniziarono a protestare.

Sudavo. Ma m’incamminai.

Arrivammo all’ospedale.

Tanta gente. Troppa gente.

Nessuno piangeva.

I soliti discorsi si intrecciarono.
Le solite strette di mano.

Dovevo avere una faccia terribile
perché nessuno mi parlò.

Meglio così.

In fondo a uno stanzone, una bara aperta.
Era sorretta da due piedistalli.

Poco più in là una suora.
Stava seduta e anche lei sudava.
Ma pregava.
- tempo sprecato, sorella! - pensai

Il mio naso
con la sua infinita onestà
mi scaraventò nel cervello i primi odori:

sudore, fiori marci e formaldeide.

Ogni tanto qualcuno estraeva un fazzoletto
e si asciugava la mani e la fronte.

L’atmosfera diventò pesante.

Arrivò un addetto
e disse di stringere i convenevoli
e chiudere la cassa
dato il caldo...

Tutti annuirono.

Uno dopo l’altro gli passarono accanto. Per l’ultimo saluto.

Arrivò anche il mio turno.
Mi avvicinai
ed eccolo lì
quel figlio di puttana.
Avrei voluto sputargli in faccia. Ma non lo feci.
Non avevo più nemmeno un goccio di saliva.

Mi vennero in mente tante cose.

La sua mania per l’igiene,
il suo modo di voler vincere sempre e a qualunque costo.

E c’era riuscito.
S’era fatto i soldi.
E li aveva anche spesi.
Con migliaia di baldracche.

Mi diceva:
“ricordati che ciò che è importante nella vita è vincere, non partecipare, perchè qualunque stronzo può partecipare, ma a vincere è sempre e solo uno!”

Mentre finivo di pensare a quello
il coperchio fu messo
e iniziarono a chiuderlo.

Il caldo era insopportabile.
La suora grondava sudore ovunque.

Cercavo di immaginarla sotto la doccia.
Con il rosario appeso al rubinetto.

Quando la bara fu chiusa
chiesero chi volesse sostenerla.

Mi girai dall’altra parte.

Quattro uomini lo issarono sulle spalle.
Avevano la giacca e la cravatta.

E il caldo mi tirava calci nel culo.

Uscirono molto in fretta.
Lo deposero in una vettura apposita.
Il tragitto da lì al cimitero fu breve.

Lo seguimmo a piedi.

Il piccolo corteo varcò l’ingresso.
Attraversammo due campi uguali.
Tante croci, marmi, parole scritte.
Parole di lodi a chi non era più.
Quel cimitero,come tutti, era zeppo di persone insostituibili.

Le lucertole parevano le uniche
ad apprezzare il caldo.

Intanto i raggi del sole
usavano la mia testa
come un tamburo.

Arrivammo a destinazione.
Vidi un grosso buco con tanta terra ai lati.

Era profondo
buio
fresco.

Mi ci sarei buttato dentro
e avrei schiacciato un pisolino all’ombra.

Invece calarono lui. Con delle corde.

Quando arrivò in fondo
le sfilarono.

Qualcuno biascicò qualcosa. Forse una preghiera.

Una signora si chinò
raccolse una manciata di terra
e la lasciò cadere sulla cassa.

Avrei voluto fare anch’io lo stesso.
Ma non con la terra.
Mi sarebbe piaciuto riempire quel fosso
con la merda che mi aveva buttato addosso
in tutti quegli anni.

Ma non sarebbe bastato quel buco.
Neanche due.
Forse neanche cento.

La prima badilata di terra
fece un colpo sordo
insignificante
quasi in punta di piedi.

Poi seguirono gli altri.
E furono più allegri
secchi
decisi
costanti.

Un’ora dopo tutto finì.
Quintali di terra erano ormai su di lui.
- un ottimo concime per tutta quella roba - pensai.

Ineluttabilmente i vermi avrebbero presto banchettato di lui.

Ero felice di non essere un verme.
Ero felice di non essere uno di quei vermi.

Il caldo mi stava sciogliendo.

Decisi di andarmene.
Diedi un’altra occhiata
e conclusi che tutto si era compiuto.

Mio padre era al sicuro.
I suoi ricordi di me erano seppelliti con lui.

Le mie scarpe cigolavano.

Ero sudato,
stanco
ed incazzato.

Oltrepassai il cancello,
mi voltai,
gettai uno sguardo distratto
e lasciai gli ospiti di quel luogo
ad attendere l'ennesima sera.
Per mio padre sarebbe stata la prima.
Fosse stato vivo avrebbe detto: “ …un gran brutto posto per trascorrerla!”

Ma era morto.
Non sparava più cazzate.

Un sole arancione
stava tramontando
dietro le colline.
Lo osservai fino a che scomparve.
Poi,
faticosamente,
trascinai me stesso
dentro il mondo
che mi accolse.

                                                                                                    Alvaro.