VOTAMI!

web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

giovedì 25 aprile 2013

L'ultimo giorno con lei ( 7 Settembre 2002).


Dopo quell’ennesimo e furioso litigio, decisi che non avrei mai più partecipato ad un altro. Quindi mi alzai e andai in camera a vestirmi.

“ E ora cosa fai? Torni a dormire? Ma certo, dimenticavo, è l’unica cosa che ti riesce meglio: DORMIRE!” - urlò lei.

Mi sedetti sul letto e infilai le calze; erano belle, forse le cose più belle che avessi mai posseduto.

“ Guarda che pancia hai! Fai schifo! Ti credi di piacere a una donna? Credi veramente che, in tutti questi anni, io sia rimasta con te perché mi piacevi? Ti sbagli se la pensi così; sono rimasta perché mi facevi pena, perché nessun’altra avrebbe osato starti accanto!”.

Cercai i pantaloni e scelsi quelli blu a righe chiare. Mi erano sempre piaciuti perché non cadevano eccessivamente sulle scarpe.

“ Guardatelo il culone! Ma come ti vesti bene! Vai dalla tua amante? Oppure vai dalla tua mammuccia a piangere e a dirle quanto sei infelice?”

Si! Erano proprio belli, ma stringevano un po’. Avrei dovuto perdere qualche chilo. Infilai la cintura nei passanti e la serrai.

“ Non vali nulla, non sei nessuno! Sei solo capace di mangiare, bere e leggere quegli stupidi fumetti!”.

Presi un maglione e ci saltai dentro.

“ Sei un pazzo! Dovresti farti curare. Lo dico per te, per il tuo bene. Nessuno dorme con la luce e la radio accesa per tutta la notte! Nessuna donna potrà mai sopportarti a meno che tu faccia come fai ora e cioè  dormire in una stanza per conto tuo.”

Aprii un paio di cassetti e cercai la mia sciarpa di lana. Ci ero affezionato. Aveva più di vent’anni ma avvolgermela al collo era come indossare un amuleto. Lo feci con un gesto liturgico.

“ Ti credi che non sento, la notte, quando ti alzi e ti siedi in cucina per delle ore? Ti ho anche visto una volta con una coperta sulle spalle che scrivevi. Ma a chi scrivi se non hai amici? Il bello è che non ti frega neanche di averli! Sei un malato di mente.”

Tirai giù dall’armadio il mio giaccone imbottito e lo indossai.

“ Dammi retta Alvaro…fatti vedere da uno specialista. Tu hai dei problemi, dei grossi problemi!”.

Uscii dalla camera e attraversai il corridoio lentamente. Aprii la scarpiera che stava nell’entrata ed estrassi le mie scarpe da ginnastica: erano vecchie e logore ma quando le avevo ai piedi mi sembrava di camminare su una nuvola. Me le infilai delicatamente, ma ben deciso a spingere con forza nel caso avessi trovato resistenza. Pensai che quella procedura aveva un nonsoché di erotico e che mi aveva sempre procurato brividi di eccitazione.

“ Non sei nemmeno in grado di vestirti! Hai visto come ti sei conciato? Devi ancora uscire e sembri appena tornato da una corsa di 100 km!”.

Allungai il braccio destro e impugnai la maniglia della porta. Premetti il pulsante e tirai. La porta si aprì cigolando.

“ Ma si…vattene, vattene. Non hai nessuno a cui chiedere aiuto! Tu lo sai bene. Nessuno ti sopporta! Sei  un essere a parte…sei come una bottiglia vuota!”.

Scesi le scale e nell’aria avvertii ancora l’odore di fritto della cena di qualcuno. Aprii il portone e fui fuori. Iniziai a camminare. Non guardai indietro.

“ Dove dormirai?  - urlò dalla finestra - Non senti che freddo fa? Finirai come un barbone. Morirai da qualche parte, in qualche brutto posto, solo e abbandonato…come piace a te!”.

La strada era leggermente in discesa. Dovetti fare attenzione a non scivolare. Non guardai indietro.

“ Sei solo un maledetto figlio di puttana!! - urlò con tutto il fiato che poté.

Poi sentii la finestra sbattere e subito dopo il silenzio. Lo assaporai. Non guardai indietro.
La luna, terrea, era nel cielo. Le stelle intorno a lei. Mi fermai ad osservarle: era strano…non le avevo mai viste brillare in quel modo. Poi, mi ricordai che erano più di 15 anni che non le guardavo. Decisi di rimanere ancora un po’ a testa all’insù.

Doveva essere passato parecchio tempo poiché il collo mi doleva. Abbassai lo sguardo.
Lassù l’infinito, quaggiù i muri imbrattati della città. Lassù poesia, quaggiù desolazione e miseria umana.
Faceva freddo. Molto freddo. Misi le mani in tasca, cercai di far rientrare, per quanto possibile, il mio viso sotto la sciarpa. Più o meno come fanno le tartarughe quando sono in pericolo. Continuai a camminare. Non guardai indietro. Entrai nel buio di un vicolo che mi inghiottì.


                                                                                                  Alva

lunedì 1 aprile 2013

Al cimitero, vacci tu!


Io sono morto da molto tempo.
Quando arrivai al cimitero
 misero questa lapide,
che avevo preparato con le mie mani
prima di morire sulla quale,
come potete notare, c’è scritto:
“ Era un brav’uomo. Di animo sensibile,
partecipò a molti concorsi di poesia
senza mai vincerne uno. Non vi fermate
qui davanti: tirate dritto: in fondo a destra
c’è un angioletto con la faccia da imbecille
che i suoi genitori rimpiangono dal giorno in cui
appiccò fuoco alla loro casa, bruciando ogni cosa
nel raggio di 300 metri, compreso se stesso.”
Non si danno pace da 50 anni.
Non sanno che l’umanità gli è grata.
Sono disperati e vecchi.
Non sembrano più genitori.
Nemmeno nonni.
Sono già morti anche loro ma non lo sanno.
Gli hanno fatto una targa commemorativa
con su scritto: “ Il destino ti ha strappato dal nostro amore;
ora sei un angioletto che vola per i cieli del paradiso e cerca
di dividere il suo amore con altri.”
Un piromane in meno,
ci avrei scritto io,
anche se non faccio testo.
Sono solo un sarcofago di ossa vecchie.
Ingiallite dal tempo.
Pronte per l’ossario comune.
Rimane la mia foto all’esterno:
una faccia da pirla,
con un tatuaggio sul collo e una pinna di squalo sulla gola,
che se potesse vi sputerebbe in faccia
mentre passate.
Mi raccomando: non vi fermate
a meno che non vogliate leggere una mia poesia.
Quella che preferisco si intitola:
“ AL CIMITERO, VACCI TU!”
Fa più o meno così:

“ Io sono morto
da molto tempo
quando arrivai al cimitero
mi misero una lapide…”
                                                                                         Alvaro.



Aggiungi un posto a tavola.


Viaggiando parallelo al cielo
corro verso l’orizzonte
senza mai incrociarlo

in questa notte che la luna tradisce.

La radio
da qualche ora
continua a ripetere le stesse notizie
sugli scontri a fuoco in Medio Oriente

mentre la strada
sotto di me
continua a scorrere.

Ora la luna
è scivolata via
e il sole,ancora un po' assonnato,
inizia ad illuminare le cose.

Arrivano ancora notizie.
Questa volta aggiornate.

Il vortice della violenza continua.

C’è ancora morte, sangue ed orrore laggiù.

Qui,invece, è mezzogiorno passato
e il mio stomaco brontola.

Mi fermo.

Entro in un locale
da cui esce un profumo delizioso.

Non faccio tempo a sedermi
che subito arriva la cameriera:


tra i 40 e i 50,
alta, carina e con un seno così bello
che se fosse in vendita lo comprerei.
Mi domanda cosa voglio.
Glielo dico.
Quello che invece vorrei da lei
lo penso soltanto.

C’è una radio anche in quel locale
ed è sulla stessa frequenza
che ascoltavo io

ma non si sente nulla
da come è disturbata.

Un tizio si alza
e accende un televisore
che è appeso al soffitto.

Ora vedo anche le immagini
giungere da quella terra
e
devo dire che non sono esaltanti né piacevoli.

Arriva ciò che ho ordinato.
Agguanto la forchetta con l’acquolina in bocca
ma le ultime immagini del telegiornale mi bloccano.

La voce dell’inviato
continua a ripetere:
“...centinaia di morti innocenti per un pezzo di terra...”

Abbasso lo sguardo.
Laggiù morti innocenti per una causa
qua morti innocenti per nulla.


Raccolgo il cibo che ho davanti a me.

Lo porto alla bocca.
Mangio avidamente.

La morte non conta un cazzo quando hai fame
ma soprattutto non conta mai un cazzo
quando non è seduta al tavolo con te.


                                                           Alvaro

" Va bene Elena...


... puoi alzarti, per oggi abbiamo finito!” - disse una voce metallica attraverso un piccolo altoparlante posto sul soffitto. La ragazza si alzò, si rivestì lentamente ed uscì da quella camera isolata. Il radiologo era seduto davanti a lei che scriveva sopra un foglio.
“ Mi raccomando, ci vediamo martedì alla stessa ora!” - continuò con una voce vellutata e al tempo stesso ferma.
“ Certo! Come al solito! – rispose lei, sconsolata. Salutò l’uomo in camice verde e si allontanò dal reparto.
Elena aveva 33 anni. Le era stato diagnosticato un cancro  e ora si stava sottoponendo a svariate cure allo scopo di rallentarne l’avanzata. Stava perdendo i capelli, era molto dimagrita e sapeva, con la certezza che gli derivava dalla sua professione di infermiera, che le sarebbe rimasto ben poco da vivere.
Il tragitto, dall'ospedale a casa sua, era piuttosto lungo ma ogni giorno che passava sembrava accorciarsi sempre più. Non voleva far ritorno in quella casa ma doveva. Era debole e sdraiarsi sul suo letto pareva essere l’unico sollievo. Quando giunse davanti alla porta d’entrata, suonò il campanello. Sentì dei piccoli passi, come di una processione di nani all’interno di una cabina telefonica, poi la serratura girò e finalmente poté entrare.
“ Elena, mia piccola Elena, com’è andata oggi?”.
Era sua madre. Gli rivolgeva la stessa stupida domanda da almeno 8 mesi. Con lo stesso identico sorriso stampato malamente su un viso rugoso e raggrinzito. Piccola di statura e magra all'inverosimile, aveva orrendi capelli bianchi intrecciati che troneggiavano su una testa sgraziata, come se il suo cranio avesse dimensioni diverse da ciò che lo rivestiva. Stava perennemente avvolta in un gigantesco drappo di seta nera e aveva al collo un lungo rosario di legno con agganciato ad esso un crocefisso di avorio.
“ Papà corri, è tornata Elena, la nostra Elena!” - gridò con voce stridula. Suo padre arrivò dondolando. Era zoppo dalla gamba destra, molto più alto della madre e anche molto più pesante: diciamo un centinaio di kg in più.
“ Oh Elena, sei tornata!” - disse l’uomo melodiosamente. Era un essere insignificante, Senza carattere e completamente succube di sua moglie. Ricordava le innumerevoli volte in cui lei l’aveva insultato come un cane, urlandogli in faccia che, da solo, sarebbe morto. E forse aveva ragione. Li guardò per qualche istante. Le parve di farlo per la prima volta. Erano davanti a lui:due pazzi arteriosclerotici e, cosa ben più grave, vecchi: terribilmente, disgustosamente vecchi. La sua era stata una nascita ponderata. Molto ponderata.
Abbozzò un sorriso e si diresse verso la sua stanza. Si lanciò sul letto e iniziò ad osservare il soffitto. La madre gli si avvicinò lentamente.
“ Sai, è tornato di nuovo!” - disse a bassa voce e con un gran sorriso.
“ Chi?” - chiese Elena; ma la sua domanda suonava come un rituale, come qualcosa di meccanico, come quando si conosce già la risposta perché si è sentita decine di volte.
“ PADRE PIO! Ed era splendido!” - rispose la donna con le lacrime agli occhi. Suo padre stava immobile all'ingresso della stanza, annuendo estatico.
“ Ha di nuovo chiesto di Te! Non vede l’ora di averti accanto a Lui. Tu sei l’eletta!” - gracchiò.

Erano pazzi. Indiscutibilmente psicopatici. Avrebbe potuto parlarne con qualcuno che li avrebbe scaraventati in qualche manicomio per il resto dei loro giorni, ma non poteva farlo: aveva bisogno del loro denaro per continuare le visite e comprare i farmaci. Non sarebbe riuscita a lavorare per procurarseli. Doveva prendere tempo. Forse sarebbe guarita o forse, ancor meglio, sarebbe morto.

“ DIO E’ IN QUESTA CASA E VUOLE NOSTRA FIGLIA!” - urlò ad un tratto la donna, alzando le mani al cielo.
“ PRENDI QUELLO CHE VUOI, O MIO SIGNORE, PER LA TUA GLORIA E LA TUA POTENZA!” - continuò cadendo in ginocchio e iniziando a pregare.
L’uomo sulla porta era a mani giunte e pregava concitatamente. Elena piangeva in silenzio. Non era già abbastanza dover morire così giovane? Perché sopportare tutto questo? Quale malefica mente lo aveva ideato? E perché proprio a lei e non a questi vecchi idioti? Troppe domande intelligenti in un mondo stupido.

“ Potete uscire da questa stanza che devo pregare?” - chiese Elena cantilenando.
“ Ma certamente, tesoro mio!” - la donna si alzò sorridendo e si diresse verso la porta dove il marito era ancora assorto.
“ Vieni papà…lasciamo il nostro angelo alle sue preghiere!” - detto questo uscirono.

Aveva deciso di assecondarli. Era più semplice che lottare. Tanto non si sarebbero mai accorti della sua sofferenza. Non c’era altro da fare. Erano sempre stati così. Fin da quando poteva ricordare, avevano costantemente attribuito, qualunque cosa accadesse loro, nel bene e nel male, alla volontà divina. C’era sempre una spiegazione a tutto. Perfino quella volta in cui il televisore si guastò a causa di un banale inconveniente, riuscirono a relativizzare quella situazione dandole una spiegazione “celeste”: Padre Pio non voleva che loro guardassero quei programmi così, da quel giorno, l’apparecchio sparì dalla casa. Erano sprofondati in una sorta di corto circuito  religioso che con gli anni degenera e può portare chiunque ad una lucida pazzia o a una opaca realtà.

“ Elena, il pranzo è in tavola!”. La disgustosa voce mielosa di sua madre la riportò alla realtà. Erano trascorse quasi tre ore da quando aveva iniziato a viaggiare sui suoi pensieri.
“ Arrivo subito! - rispose  -  dammi ancora 5 minuti!”.
“ Come vuoi tu!” - belò la donna attraverso la porta.

Si sedette sul letto. La testa era come una trottola. Si sentiva debole a causa dei farmaci. Tentò di alzarsi con fatica e quando vi riuscì, iniziò a dirigersi verso la cucina. Più si avvicinava, più si facevano chiare le lente preghiere in latino che i suoi genitori usavano recitare prima del pranzo. Si adagiò sulla sedia e fece finta di parteciparvi, muovendo le labbra a casaccio. Poi le preghiere, come erano iniziate, finirono. Solo allora pensò di piluccare qualcosa dal tavolo.

“ Oh, Elena,come sei magra! Dovresti mangiare di più!” - esordì la madre. Non sapeva, la megera, che tre quarti di ciò che ingoiava giornalmente finiva nello scarico.

“ Prendi troppe di quelle orrende medicine!” - sentenziò la vecchia.
Il padre annuiva, mangiando come un maiale all'ingrasso.
“ Non c’è nulla che tu possa fare per evitare ciò che è scritto nell'alto dei cieli!” - disse la donna con gli occhi sbarrati, fissando un punto sopra la sua testa.
Elena mangiava nervosamente e dal più profondo del suo animo sentiva salire quell'odio che sino ad allora era rimasto sopito.

“ PADRE PIO TI VUOLE! VUOLE LA NOSTRA FIGLIOLA! VUOLE CIO’ CHE DI PIU’ CARO ABBIAMO E NOI LO LASCEREMO FARE, PERCHE’ LUI E’ UN SANTO CHE STA NEL CIELO E VIGILA SULLA TERRA!” - urlò la donna, con lo sguardo e le braccia rivolte al cielo.
La ragazza, a testa bassa, cercava di reprimere quell'enorme massa di rancore e violenza che stava risalendo, a velocità inimmaginabile, dal suo più recondito essere.

“Figlia mia - intervenne il padre - lasciati andare. Cerca di capire l’immensa fortuna che ti è capitata quando Padre Pio ha deciso di scegliere Te per il regno dei cieli! Ah, se questa grazia fosse capitata a noi!”.

 Anche lui alzò il suo testone matto verso il soffitto, con le mani giunte e tremanti. Era veramente troppo! Certo, non poteva far nulla per evitare di morire ma, forse, poteva far qualcosa per evitare, a quei due pazzoidi, di vivere. Afferrò con la mano destra il coltello accanto al suo piatto e con un breve ma poderoso colpo lo conficcò nel petto dell’uomo alla sua sinistra.
Calò un silenzio innaturale. L’affondo era stato letale. Gli doveva aver sicuramente aperto il cuore in due, a quell'essere, perché rimase con gli occhi sbarrati al cielo, appoggiato allo schienale e con ancora la forchetta in mano.
Elena sfilò quel coltello dal petto del padre con un unico movimento. Lo strinse nella sua mano e girò lo sguardo verso la madre che, annichilita dal terrore, era pietrificata e terrea al suo fianco.

“ Oh, mamma…mammina mia! Ti immagini la felicità di papà adesso? Egli è finalmente con Padre Pio; felice ma sostanzialmente triste perché tu non sei con lui a condividere quella gioia! Non credi?” - e rise come non aveva mai fatto prima.
La madre, riavutasi dallo shock, iniziò una inutile e penosa fuga verso la porta d’uscita, urlando come una vacca al macello.
Ma Elena fu più veloce. La raggiunse e le vibrò il primo colpo alla schiena. La donna cadde rantolando. Poi sfilò la lama e colpì ancora e ancora e ancora.
Esaurite le forze si riposò per qualche secondo. Dopo si avviò verso il lavandino; lavò accuratamente il coltello, mise in ordine la cucina, lavò i piatti e stese una tovaglia pulita sul tavolo. Suo padre era sempre seduto con gli occhi sbarrati al cielo e la testa lievemente inclinata a destra. Lo guardò come un oggetto strano: la morte lo aveva reso,come dire: buffo!
Andò in bagno, fece una doccia, si cambiò i vestiti ed uscì, evitando accuratamente di sporcarsi le scarpe con quel sangue, ormai inutile, sparso sul corridoio.
Scese in strada e si sentì stranamente felice al pensiero che i suoi genitori ora erano con il loro santo di Pietrelcina. C’erano arrivati prima di lei, come ospiti inattesi. Quasi le sembrava di vederli tutti e tre che cantavano e ballavano felici.
Un brivido di gioia le scosse il corpo.
Camminò fino al posto di polizia più vicino e prima di entrarvi pensò alla condanna.
Gli avrebbero dato non meno di vent’anni.

VENT’ANNI!!!

Rise.
Non sarebbe vissuta così a lungo.

                                                                                        
                                                                                                                                                         Alvaro.