Era una mattina come tante a Cornigliano. Almeno per Filippo
poiché per il resto del mondo si celebrava la più grande festa commerciale che
la storia ricordi a memoria d’uomo e cioè il giorno di Natale. I postumi della sbronza lo martellavano. La
notte era stata orribile in quella stanza lurida al terzo piano di C.so
Perrone. Gli incubi si erano alternati a
risvegli da capogiro. Aveva vomitato sul pavimento e su se stesso. La puzza era
nauseante. La barba, incolta e lunga, gli pendeva dal mento come una triste
appendice. Il volto, scavato dall’alcol, aveva ancora discreti lineamenti che
gli conferivano un’aria quasi nobile. Gli occhi, di un azzurro chiaro,
contrastavano con tutto il resto, regalando un’impressione di pulizia e
vivacità intellettuale a chi li avesse incrociati. Il suo sguardo, profondo e
triste, era di chi aveva tanto vissuto e molto sofferto. Filippo si alzò
faticosamente dal materasso lercio, raccattato chissà dove e quando, e si
guardò intorno come non aveva mai fatto. Intravide il calendario dell’avvento
che gli avevano regalato quelli della Caritas. Segnava il 25 Dicembre. Un suo
pensiero, quasi in forma di ringraziamento, andò al Creatore per aver disatteso
le gufate dei Maya. Poi, in una sorta di ipnotico ripensamento ragionò che il
Creatore non poteva averci messo del suo per contrastare la profezia di un
popolo che non riuscì a salvare nemmeno se stesso.
Si avvide che lungo i muri di quella stamberga vi erano decine di
copertoni d’auto che servivano ad isolarlo dal freddo esterno; cassette di
legno per verdure, cartoni grandi e piccoli, bottiglie vuote e un carrello da
supermercato erano sparsi ovunque. Un contenitore di plastica verde accoglieva
i suoi escrementi, proiettando in quell’interno terribili segni della sua
presenza.
Quando fu ritto in piedi barcollò, scaricando il suo peso ad un
grosso tubo arrugginito all’interno del quale, un tempo, quasi sicuramente, era
scorsa dell’acqua.
Girò lo sguardo a fatica in direzione di un frammento di specchio,
incastrato tra le crepe del muro, squadrandosi per molto tempo. Un’espressione
di stupore si delineò sul suo viso: si era completamente dimenticato che la
sera prima , vestito da Babbo Natale, era andato alla Fiumara per rassicurare i
paffuti bambini, insieme alle loro famiglie, dell’imminente suo arrivo nelle
loro case, con imponenti sacchi di doni. Cosa bisognava fare per vivere. I cani
avevano le pulci. Gli uomini i guai.
Quel triangolo irregolare rifletteva un’immagine che non era
esaltante.
Si chinò leggermente, afferrò una bottiglia appoggiata lì da
chissà quanto tempo e, con un gesto lento ma deciso, la fracassò sullo
specchio.
L’immagine di Babbo Natale scomparve. Una scheggia gli procurò un
taglio sulla mano destra e il sangue iniziò a colare; prima piano poi sempre
più copioso.
Stette ad osservare quella ferita attendendo che un elfo gli
facesse una fasciatura a regola d’arte ma ben sapeva che nella realtà certe
cose non accadono o almeno non accadono se sei sobrio. Quindi prese un vecchio
calzino sporco e semi rigido dal freddo e se la fasciò. Si diresse verso la
porta, la aprì e con un passo fu fuori.
Scese le tre rampe di scale barcollando. Il gelo esterno si aggrappò a lui
facendolo rabbrividire. Tirò su il bavero rosso della sua ridicola giacca e si
soffiò fiato caldo all’interno delle mani messe a mò di coppa. Intorno a lui
c'era una Cornigliano gelata, piante spoglie e pozze d’acqua ghiacciate.
Diede un’ultima occhiata alla finestra di quell’appartamento in cui era vissuto
per così tanto tempo quindi si voltò e iniziò ad allontanarsi.
Aveva deciso: se ne sarebbe andato. Non sapeva dove ma camminando
si sarebbe riscaldato. Il terreno brullo ed impervio metteva a dura prova le
sue scarpe zeppe di buchi e strappi ma, in quella mattina, ricominciò a
pensare.
Era tanto che non riusciva a farlo occupato com’era a bere, a
subire umiliazioni dagli altri e a far sì che la vita continuasse a scorrere
dietro a lui per affrontare un altro giorno, per interpretare un altro atto
della sua personale commedia, nell’attesa che calasse il sipario. Gli venne in
mente di quando era bambino. CERTO! Lo era stato anche lui; anche se tantissimo
tempo prima.
Ma cosa gli era successo? Inutile cercare di ricordare! Era tutto
annebbiato nella sua mente…come quella mattina.
Aveva avuto una famiglia? Una casa? Dei figli?
Ma a chi sarebbe interessato questo? Avrebbe cambiato qualcosa
nella sua vita?
Continuò a camminare fino a che arrivò accanto ad uno scambio
ferroviario all'altezza di Sestri Ponente. Si sedette proprio davanti dove
c’era un piccolo avvallamento fatto a culla, quindi si sdraiò. Il freddo
pungente lo avvolse ma i suoi occhi azzurri splendevano. Come un piccolo
squarcio di cielo in quel mattino grigio e ventoso.
Era intenzionato a riposarsi un po’, prima del passaggio del treno
merci. Allora si sarebbe alzato e, mentre il treno rallentava, sarebbe salito.
Se ne sarebbe andato via. Per l’ennesima volta. Come sempre.
L’aveva fatto centinaia di volte. Solo che ora si sentiva stanco.
Voleva riposare solo un attimo.
L’avrebbe sentito il treno. Avrebbe sentito il suo lungo fischio.
Ce l’avrebbe fatta anche questa volta. Aveva solo una strana
sensazione all’altezza della tasca destra dei pantaloni. Infilò le dita
intirizzite ed estrasse il contenuto. Era una lettera. La lettera di uno di
quei buffi bambini sovrappeso che il giorno prima lo chiamavano babbo. La aprì.
C’era scritto:
“ Caro Babbo Natale, mi
rendo conto di essere stato cattivo e di non meritare nulla ma PER FAVORE!
potresti almeno trovare un posto di lavoro a mio padre? Grazie! Il tuo Andrea.”
Filippo tentò di distrarre la sua anima da quella preghiera ma non
ci riuscì, così pianse e in quel pianto passò quella supplica a qualcuno più
grande di lui. Poi piegò con cura il foglio , lo depose all’interno della
manica sinistra e, lentamente, chiuse i suoi occhi azzurri lasciando che quelle
due finestre sul cielo scomparissero in lui.
Poco dopo il treno fece capolino all’orizzonte. A rilento si
avvicinò e con un lunghissimo fischio avvisò quel pezzo di mondo della sua
presenza.
Quando passò accanto al vecchio babbo natale sdraiato, fece
vibrare il terreno sotto di lui e il vento, dovuto allo spostamento d’aria, gli
scompigliò la lunga barba.
Filippo aveva iniziato il suo più lungo viaggio con qualcosa di
diverso sul viso. Qualcosa che sembrava un sorriso.
Chissà quale sarà stato il suo ultimo pensiero. Nessuno l’avrebbe
mai saputo. E a nessuno sarebbe mai interessato.
Il treno scivolò verso levante mentre tutt’intorno calò una strana
quiete.
Era Natale. Un Natale come tanti. I festeggiamenti erano già in
atto per tutta Genova: i suoni e i colori dell’evento, benché sotto tono a
motivo della crisi, riempivano le vie e le piazze del quartiere ma intorno a
Filippo, in quel luogo, c’era qualcosa di peggiore del silenzio: una totale
assenza di rumori così assordante che nemmeno l’urlo dell’intero genere umano
sarebbe riuscito a sovrastare.
Alva.