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web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

lunedì 2 aprile 2018

Al cospetto del Presidente del Centro di Riabilitazione Psichiatrica.


Era un periodo nero. Il mio lavoro nell’istituto psichiatrico stava lentamente svuotandosi da quelle motivazioni con cui all’inizio mi facevo forza. I turni si susseguivano senza che io riuscissi a cavare fuori il benché minimo interesse per quello che facevo. Le giornate erano quasi sempre uguali: aprivo e chiudevo centinaia di volte le stesse porte, prendevo schiaffi e pugni sempre dagli stessi pazienti, li guardavo mentre saltavano, correvano, mangiavano, vomitavano, urlavano, scoreggiavano, si masturbavano, si menavano, bevevano il proprio piscio , mangiavano la propria merda ( e anche quella di altri). Mi stavo stancando di raccogliere le loro deiezioni lungo i corridoi e asciugare le loro pozze di urina nei posti più impensabili. Ogni tanto mi facevo anche qualche risata nell’osservare i rituali liturgici con i quali certi ragazzi autistici si approcciavano alla doccia del mattino o alla ritirata serale ma erano momenti sporadici. autentiche perle solitarie in lunghe giornate di lotte e contenzioni. A volte, quando proprio non ce la facevi più, la direzione organizzava la cosiddetta Supervisione a cui partecipavano sempre un paio di oss o infermieri o educatori. La presenziava uno psicologo la cui partecipazione doveva servire come valvola di sfogo per noi operatori in quanto, durante la riunione, si poteva “vuotare il sacco” cioè spiegare allo psicologo a quale livello di burn out eri arrivato. Ovviamente nessuno osava fare sapere al collega che sedeva accanto a te quante volte avresti voluto scaraventare dal secondo piano almeno il 90% degli ospiti della struttura in cui lavoravi e quindi ci si trovava a discutere di problematiche su cui il professionista mai avrebbe potuto dare una soluzione. C’erano anche le riunioni di equipe ma ti rendevi conto che qualunque fosse stato l’esito della riunione nulla sarebbe cambiato. Era un senso di impotenza che mi pervadeva a 360 gradi. Mi ci sentivo immerso. Era come se fossi in una gelatina permanente. Ogni cosa che osservavo era come se la filtrassi attraverso una lente deformante. Sentivo che la priorità assoluta era mantenere quel delicato equilibrio in cui cercavo di non pensare eccessivamente e mi imponevo di dedicarmi alcuni angoli mentali di assoluta libertà all’interno dei quali potevo ritirarmi, leggero ed evanescente come una nebbia al mattino. Ma gli angoli, in certi luoghi orrendi, possono diventare all’improvviso rotondi, piccoli e bui e tutti i tuoi pensieri e le tue risorse devono mettersi a lavorare di fino per rimediare ad un errore che inevitabilmente arriverà.

Così, stanco ed amareggiato, chiesi udienza al direttore della struttura il quale mi consigliò di parlarne con il Presidente. Obiettai che, forse, il Presidente sapeva ben poco sull’andazzo del Centro Psichiatrico. Questa fu la sua risposta:



“…vedi Alvaro, Egli, cioè il Presidente, il Dott. Ignazio Grassi, è la cuspide piramidale di questa nostra cooperativa che dà lavoro a migliaia di persone. Egli trasforma il presente in un ennesimo culto dopo essersi sbarazzato dell’ossequio al passato. Ha fondato la Sua azienda sulle orme del padre attraverso un rito palingenetico di mutazione aziendale sdoganandola da un cliché che la fossilizzava anni prima ad una semplice agenzia interinale. Per Lui la sua cooperativa è una tendenza, uno slancio in avanti. È l’amore per il nuovo. Il Suo tono di voce è sempre vibrante, le Sue affermazioni apodittiche. Egli può essere paragonato ad un re forte e fascinoso. Meccanicamente immortale. Un eroe senza sonno come GAZURMAH, l’interprete principale del romanzo mito poetico di Marinetti “MAFARKA LE FUTURISTE DEL 1909”. Lo sai chi è Marinetti, Alvaro?”

“…beh, …ecco…mi pare fosse uno scrittore futurista che…”

“Appunto, il futuro, lo sguardo oltre l’orizzonte, Egli come un falco domina dall’alto la percezione multipla e sinestetica delle cose di Sua competenza. Supervisiona, da ottimo intenditore, alle assunzioni del personale femminile secondo un prototipo dannunziano che miscela, nelle giuste dosi, i fondamenti dell’estetica, l’egemonia del bello e il sacerdozio dell’arte. La sua forza comunicativa è completamente nuova senza tentativi di sperimentazione. Ha un solo Horror Vacui che lo irrita piacevolmente: il pensiero di essere frainteso. Quindi, Alvaro, ti prego, non aver timore di incontrarlo. Esponi a Lui i tuoi problemi e vedrai che dopo ti sentirai un uomo nuovo, ripulito dalle scorie che ti affliggono ora. “

“D’accordo…quando possiamo fissare l’appuntamento?”

“Domani mattina verso le 10 va bene?”

“Va bene”.



Uscii dall’ufficio del direttore proprio mentre il solito psicopatico lanciava un estintore da 10 chili addosso alla donna delle pulizie che stava scappando in preda ad una crisi isterica di pianto.

Quella notte dormii poco poiché pensai all’incontro con il Presidente. Cosa gli avrei detto? Come avrei esposto i miei problemi pseudo esistenziali ad un uomo così fulgido? Ma soprattutto: avrebbe compreso?

Mi addormentai su queste domande e quando mi svegliai erano ancora tutte lì che mi aspettavano.

Alle 09.45 ero già davanti alla porta verde pastello del suo ufficio. Dentro la mia testa ripetevo come un mantra tutto quello che dovevo dire cercando, per quanto possibile, di indovinare il contraddittorio.

Dopo 14 minuti e 58 secondi la porta si aprì e apparve una donna sui quarant’anni: senza arte né parte, anonima, leggermente androgina e con un nome così stupido che me lo dimenticai all’istante. Fece un cenno con la mano nella mia direzione e io mi incamminai verso di lei. Aveva un profumo dolciastro che mi provocò una frustata olfattiva. La oltrepassai e fui nell’ufficio. Era un bell’ufficio: spazioso, areato e scevro da qualsiasi traccia di frenesia e caos rispetto ai locali attigui. Egli, il Presidente, era seduto come un monarca desideroso di venire a conoscenza dell’altrui pensiero. Sulla sua scrivania poche cose: un computer, qualche agenda, due penne allineate lungo il bordo destro e un libro. Aguzzai la vista e lessi il titolo: PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA. Il vecchio Freud era dappertutto. Anche lì sopra. Mi vennero in mente le sue paranoie sul sesso e sui simboli fallici. Ho sognato una torre da cui sta cadendo un uomo? È il mio desiderio sfrenato di sesso. Ho sognato che mangio un gelato? Probabilmente sono omosessuale ma ancora non lo so.

Un colpo di tosse del Presidente mi fece tornare alla realtà. Egli mi sorrise e, quasi telepaticamente, mi invitò a parlare. Gli esposi tutte le mie perplessità e le mie paure nel giro di 8 minuti dopodiché attesi la sua risposta immerso in un silenzio siderale. Con un gesto ieratico del braccio destro fece cenno alla segretaria di uscire. Si sprofondò nella sua sedia con un sospiro. Iniziò a fissare il libro di Freud. Pareva immerso in profondi pensieri. Poi, d’un tratto, con un formidabile colpo di reni si alzò in piedi. Era un bell’uomo, sui quarant’anni, vestito di tutto punto e cromaticamente perfetto. Fece qualche passo mentre io tentavo di ingoiare un tot di saliva che mi ingombrava la bocca. Si diresse verso una nicchia scavata nel muro nel cui interno vi erano incastonate due borracce. Mi chiese cosa vedessi. Gli risposi che vedevo due borracce. Poi mi domandò se sapevo cosa potessero contenere. Ovviamente la mia risposta fu negativa. Dopo un lungo silenzio all’interno del quale, a volte, sono contenute delle verità, mi rivelò che in una c’era un liquido che poteva aiutare un uomo ad affrontare la paura e a risolvere i problemi che lo affliggono. Allungò un braccio, afferrò la seconda borraccia e, ad alta voce, mi chiese:

“SAI, INVECE, COSA C’E’ QUI DENTRO?”

Aveva l’aria di chi conosce la risposta e non vede l’ora di dirtela.

Feci finta di pensare. Abbassai il capo in una sorta di penitenza mistica. Mi arrovellai su cosa potessi dirGli per stupirlo ma i minuti passavano e a me non veniva in mente nulla.

Fu così che per la seconda volta Egli parlò:

“QUI DENTRO C’E’ LO STESSO LIQUIDO CHE SERVE PER ANDARE AVANTI ED AFFRONTARE NUOVAMENTE LE PROPRIE PAURE CHE GENERANO A LORO VOLTA I PROBLEMI!”



Rimasi in silenzio. Osservai attentamente il libro di Freud come se potesse, in qualche modo, aiutarmi. Diedi un’occhiata al retro dello schermo del suo computer. Vagai con gli occhi su alcuni particolari delle sue scarpe poi mi ritirai sconfitto in me stesso. Il Presidente rimase fermo con la borraccia in mano mentre mi congedai da lui. Uscii dall’ufficio, aprii e chiusi sette porte che mi scaraventarono nella triste realtà del Centro di Riabilitazione Psichiatrica. Mentre camminavo nel corridoio che dava verso l’uscita, ripensando a ciò che mi aveva detto il Presidente, vidi un operatore che stava facendo l’ennesima doccia alla coprofaga muta a cui piaceva tanto disegnare sui muri con le proprie feci. Notai che il bastardo aveva posizionato il miscelatore sull’acqua fredda ma ero troppo avvilito per dire qualcosa quindi mi allontanai con i muggiti della poveretta nelle orecchie sovrapposti agli urli dell’operatore che, con un ghigno, ben sapendo perché volesse scappare dal bagno tutta sporca di merda, tentava in tutte le maniere di ricacciarla sotto l’acqua.

150 euro...

Centocinquanta euro e i vestiti erano tutto quello che gli rimaneva.  Aveva appena chiuso la porta del suo vecchio appartamento il cui proprietario, con uno sfratto esecutivo, lo lasciava sulla strada.  Gli restavano i vestiti che indossava, una causa in tribunale per mancati alimenti alla ex moglie, qualche debito a causa di tre anni di disoccupazione e uno scooter. Prima di uscire di casa, con l’ultima mezz’ora pagata di connessione internet, aveva fatto il calcolo di quanti chilometri si potevano fare con quella somma tra benzina e pedaggi autostradali: circa 600. La distanza coperta lo avrebbe fatto arrivare all’incirca verso Friburgo in Brisgovia, Germania. La Guida Michelin dava 16.50 euro di autostrada, 77.28 euro di carburante e 29.12 euro di tassa svizzera. Avrebbe viaggiato circa 6 ore e mezza coprendo 577 km. Gli pareva una distanza sufficiente da porre tra lui e l’Italia, una nazione che non gli aveva mai dato nulla se non grane. Una terra meravigliosa abitata da troppa gente corrotta. D’un tratto si era ricordato dello sberleffo che i francesi usavano rivolgerci: “L’Italia è bellissima. Peccato che ci siano gli italiani!”. Come si faceva a dargli torto? Dentro questo pensiero  aveva già fatto un rapido calcolo di quanto gli sarebbe avanzato per le spese “accessorie” e cioè per il cibo: 27.10 euro. Non era una gran cifra ma sarebbe bastata. Lo scooter era già in moto quindi ci si sedette sopra. Infilò il casco, se lo assicurò al mento e abbassò la visiera. Prima di accelerare si voltò e diede un’ultima occhiata alla sua casa. Era stato bene insieme a lei e certamente avrebbe conservato bellissimi ricordi di tutto quel tempo uno nell’altra. Gli venne da ridere come quel pensiero, assolutamente innocente e romantico, poteva assumere una valenza sessuale degna di una seduta di psicoanalisi. Ruotò la manopola destra in basso e il potente motore, con uno strattone, lo sganciò dalla sua vecchia realtà. Un’altra sarebbe iniziata molto più lontano da lì. Scendendo la lunga discesa che lo portava all'ingresso dell’autostrada vide il postino venirgli incontro, anch’egli su uno scooter che, gesticolando, lo informava di avere della posta per lui. Lasciò che la sua giallastra figura scomparisse nello specchietto laterale sinistro e accelerò. Non ci sarebbe stato più per nessuno. Stava iniziando un altro viaggio. Aveva 50 anni e ancora un paio di cose da chiedere alla vita confidando sul fatto che, a motivo della sua estrema umiltà, gli sarebbero state concesse.      

Acquafangossacementoarmatoesangue.


Quel bastardo mi ricattava e tu Ale, lo sai bene cosa vuol dire essere ricattati. In fin dei conti io e te siam fatti della stessa merdosa pasta: acquafangossacementoarmatoesangue. Quel bastardo era lì che mi derideva e parlava dei tempi in cui io e te andavamo a scoperchiar tombe e raccattar ossa umane. Capisci Ale? in un certo senso ho usmato il pericolo e ho pensato: quel gran figlio di N.N. ci vuole fare del male. Vuole distruggere tutti i nostri discorsi sotto la luna del 1974.Quei momenti fantastici in cui si teorizzava un nuovo sistema di cose, un nuovo mondo, una cazzo di struttura umana all’interno della quale sguazzare nudi e sudati e urlanti e così ho pensato: deve scomparire. Deve essere eliminato. E ‘una feccia umana.  E mentre lui ci accusava ( si, Ale, accusava anche te, non so come sia arrivato a capire dove  ti nascondevi visto che sei sempre stato come un topo bastardo affamato con tre cicatrici sulla schiena causate dalle lotte con volpi e cinghiali ) io sapevo bene cosa fare: il mio film di morte scorreva nella testa e i suoi denti scintillanti mi facevano quasi pena perché sapevo che tra una ventina d’anni saremmo andati a trafugarli direttamente dalla fonte nella casa in cui sarebbe stato abbandonato: il cimitero. Ale, io ti prego in ginocchio, dammi la forza di nascondere questo corpo. In fondo, io e te, siam fatti della stessa pasta: acquafangossacementoarmatoesangue.Io e te abbiamo fatto cose di cui vergognarci ma sempre per sopravvivere, per galleggiare, per continuare a sognare. Ti ricordi quando andammo a cercare Luciano Big Hands per menarlo a sangue? Quando lo prendemmo all’uscita del portone dove abitava e lo trascinammo in quello scantinato dove tu ti divertisti come un pazzo a colargli la cera fusa sulle palle? Eravamo peggio di serial killer, per quanto riguardava le idee. Certo, non finiva mai come avremmo voluto però ci divertivamo lo stesso. Ricordo ancora quando picchiasti quel poveretto a cui avevi detto di non salutarti mai più: lo incontrammo all’incrocio tra via Moriondo e via Palestro e il meschino ti rivolse un ciao quasi sottovoce ma tu, memore dell’embargo vocale lo trascinasti in un vicolo e lo riempisti di botte mentre io contavo i colpi: 1,2,3,4,5,6,7,8,9…BASTA ALE, GLI FAI MALE…12,13,14,15,16. Toccava sempre a me strappartelo dalle mani e beccarmi, a volte, anche qualche manrovescio, refusi di una violenza ipnotica ma esistenziale. Ora ‘sto bastardo è nel bagagliaio della mia auto. Che facciamo? Dal tuo sorriso capisco che hai capito. Sono contento. In fondo questo maiale è solo un mucchio di carne e ossa mentre noi  siamo ancora acquafangossacementoarmatoesangue. A noi non importa nulla di queste merde. Noi siamo come Thelma e Louise: insieme fino alla morte. Io e te, Ale, siamo fratelli. Tutto questo pensiero ci ha fatti arrivare nella campagna di Melazzo. Tu conosci bene questi posti.  Chissà quante zoccole ti sei castigato qui, eh? Massì…dai…lasciamolo qua questo finocchio. Facciamo un buco dietro quel platano? Secondo te lo troverà qualcuno? Quante domande retoriche. Ho portato la birra con ghiaccio. A che ora devi tornare? Così presto? Allora dai, scaviamo che poi facciamo il pieno. Io e Ale: acquafangossacementoarmatoesangue.

La ragazza che faceva la O.S.S.


La ragazza si specchia. È una bella tipa, capelli rossi, sui 30 anni e ha un sorriso che piace agli uomini. Uno di quei sorrisi che sanno di plastica ma che attraggono tanto e fanno sperare, in chi li osserva, ad un fenomenale essere umano dedito alle cose buone e giuste. Invece no. La ragazza è una stronza, lavora in una casa di riposo e sfoga tutta la rabbia repressa che la vita le ha riservato, a causa del suo cervello da imbecille cerebrolesa, con anziani malati e disabili. La ragazza si esercita davanti allo specchio nel tentativo di migliorare il suo sorriso cercando di farlo virare dal concetto esecrabile di cicatrice purulenta a sacro deposito di bellezza e sentimenti. Dopo fa scorrere il suo badge dentro il segna presenze della struttura e per la cronaca, da quel momento in poi, saranno grossi problemi per un sacco di indifesi vecchietti. Mentre cammina nel lungo corridoio si destreggia con gli operatori con sguardi ed ammiccamenti, con gesti e posture erotiche, con battute idiote a sfondo sessuale che solo lei capisce, assimilabili alla più alta rappresentazione mentale dell’imbecillità umana. Guarda l’orologio a parete: segna le 21. Sorride. Sa di averli in mano per 9 ore. Inermi. Deboli. Vecchi. Ma è così che va il mondo. Quando le truppe hanno sconfitto il nemico, si impossessano delle terre, violentano le donne e uccidono i vecchi e i bambini. E lei si occupa dei vecchi. Ha fatto il corso O.S.S.  e ha illuso i docenti di essere una in gamba. Una che esercita empatia. Una flebile sinapsi gliene fa ricordare il significato:



“L’empatia è la capacità di mettersi nei panni degli altri. Cercare di vedere le cose dal punto di vista dell’altra persona. Questo può aiutarci a non prendere così seriamente le offese commesse contro di noi, ma piuttosto a fare concessioni. L’empatia è una qualità che possiedono le persone mature, quelle che son grandi in senso emotivo e spirituale.”



Ed ecco un altro sorriso. La ragazza ride per come sono le cose nella teoria ma di quanto appaiono diverse nella pratica ed è con quel pensiero che entra in una camera e inquadra un anziano tremante per il Parkinson che chiede di essere cambiato. Per tutta risposta la ragazza gli afferra un orecchio, lo tira con forza e il poveretto urla, non capisce, ma la ragazza si diverte:

"...ma che richiesta assurda: io dovrei togliere la tua merda? Oh, brutto stronzo! Ma chi pensi che io sia, la tua mammina morta da 40 anni? Caga sotto tremolante merdoso che non sei altro! Ora rimani nel tuo sterco fino al turno successivo!"

La ragazza coi capelli rossi esce dalla stanza ed entra in quella dopo, si avvicina ad un letto e, sempre con il suo sorriso, si avvicina ad una vecchietta che nulla percepisce del mondo circostante a causa di un Alzheimer devastante ma che probabilmente, in un qualche anfratto del suo mondo parallelo, capisce che quella stronza sopra di lei non ha nulla a che vedere con un essere umano. Ma la ragazza inizia con uno schiaffetto sulla guancia destra e poi su quella sinistra e poi una tirata di orecchio e una tirata di capelli, quelli rimasti. A lei non rimane altro che gridare ma la ragazza è forte e con un dito, rigorosamente fasciato da guanti di lattice, le sfrucugna l’interno del naso con violenza. La vecchia urla ma è lei che comanda. A lei è stato dato il potere e come tutti quelli che lo hanno, lo esercita.



“La signora del letto 15 va sedata!” – urla all’infermiera, la quale fa cenni di assenso. Da sedati è meno divertente menarli ma questo è il suo lavoro. Lo fa da tanti anni, ormai. La ragazza, purtroppo, è anche simpatica e le sue battute, sempre a sfondo sessuale, sono divertenti e fanno ridere gli uomini. Ogni tanto si fa scopare da quell’infermiere che non gli sa resistere e, finito il turno, dal medico. A volte anche a casa sua, quando la moglie è al supermercato a far la spesa. Si fa mettere sulla lavatrice a gambe larghe, attacca la centrifuga e lo supplica di trattarla molto male.

Sono le otto e la ragazza ha finito il turno. Va nello spogliatoio, si specchia, si sciacqua la faccia, si toglie il camice bianco e ritorna ad essere una della qualunque volgari pseudo donne che pullulano la città. Ripassa il badge nel segna presenze e imbocca l’uscita ed è proprio in quel momento che la giustizia, come un gigantesco martello cosmico, si abbatte su di lei.



“MOLLA LA BORSA!” – è quello che sente come una voce imperiosa.

“Che cosa?” – domanda, iniziando a realizzare la situazione.

“MOLLA QUELLA CAZZO DI BORSA E NESSUNO SI FARA’ DEL MALE!” – urla un tipo con in mano un coltello.

“Non ho nulla dentro la borsa. Ci sono calzini, scarpe, t-shirt, il rossetto, lo smalto, il fard, il…”

Ed è proprio su quell’ultimo articolo che il castigamatti mandato dal destino decide di perlustrare con l’acciaio le budella della ragazza. Poi le strappa dalle mani la borsa e corre via.

La ragazza sente il suo sangue mischiarsi con la saliva. Guarda il terreno e vede una pozza rossa che, lentamente, si allarga verso il marciapiede. Iniziano ad arrivare i curiosi. Qualcuno chiama il 118. La ragazza appoggia la testa sulla strada e attende. I suoi capelli rossi diventano tutt’uno con il suo sangue mentre lei sta pensando che vuole vivere, che la vita è bella, che è bello scopare l’infermiere e il medico e che sono quei maledetti vecchi che devono morire, non lei. Loro sì che sono inutili. Lei è bella. Lei è giovane. Lei. Lei. Lei. Sempre lei.  Ma l’emorragia che ha tranciato l’arteria polmonare sta lasciando la sua inutile vita sul marciapiede che in un rivolo rosso ha iniziato a defluire in un tombino fognario. Un pallore spettrale si è impossessato del suo bel viso lasciando la bocca contratta in un sorriso malinconico. A guardarla con attenzione si potrebbe dire che il suo volto si sia trasformato in una smorfia di incredulità insieme, forse, al suo ultimo tentativo di riconciliarsi con un mondo cattivo. Un mondo che pensava di tenere sotto controllo e che prontamente, alla sua prima distrazione, gli ha restituito ciò che ha dato con tutti gli interessi del caso.



                                                                                     Alvaro.

Rimbambini.


Certi bambini sono infelici.

Povere bestiole!

Hanno il cervello dei genitori: 

quadrato, di un millimetro quadrato.



Ridono,

saltano,

urlano,

spaccano,

sputano,

danno calci e mollano pugni

ma i genitori li giustificano,

li scusano,

gli creano alibi.

Mostri che creano piccoli mostri,

idioti che generano piccoli idioti.

Ma sono bambini,

piccoli Buddha,

esseri intoccabili.

Li hanno partoriti le loro madri

che hanno sofferto

aprendo le gambe e spingendo.

Si sono replicate.

Hanno creato qualcosa di loro

che occuperanno un posto utile inutilmente.



Povere coppie illuse!

Stavate tanto bene da sole!

Passavate inosservati

nelle vostre tute da jogging blu con le strisce bianche

assolutamente uguali.

Nelle vostre cene con gli amici

con le solite foto del vostro ultimo viaggio a Parigi

e gli sbadigli trattenuti per educazione.

Come sono belli i vostri bambini!

Come sono simpatiche le vostre creature!

Meritano il meglio di ogni cosa bella!

Sicuramente meritano voi.

Ma noi non ci meritiamo di avervi.

Non desideriamo vedere i vostri mocciosi

piangere e strillare

e voi che li scusate e li coccolate.



Diventeranno come quegli imbecilli

che giocano a palla sulle spiagge;

o che parlano ad alta voce nel cellulare

sul treno,

in aereo,

in ascensore,

al ristorante,

in ospedale,

ai funerali

e in tutti quei posti

dove nessuno si sognerebbe di disturbare.

Stavate tanto bene da soli!

Nella vostra casetta di 400 metri quadri

in riva al mare

con il sole all’orizzonte

e i vostri vezzi da artisti.

Al massimo

avreste dipinto una tela

con qualche cosa di orrendo

pagando poi un critico d’arte

per dire il contrario.

E invece no: vi siete clonati!

La massima opera d’arte.

La vostra carne.

Già scaduta appena nata.



                                                                                                               

Droga.


                          Droga


Ingerisco 0.05 gr.

Soluzione all’1%.

Dopo poco rido e sono leggero.

Le mie labbra sono spesse.

Bevo acqua fresca

Che è calda all’ingresso e gelida in gola.



Conati di vomito ed eccola: l’euforia.

Il polso rallenta ma subito dopo accelera.



Arriva un eritema,

inizio a urinare,

ho gli occhi secchi.



Tutto ha lo stesso odore.

Poi

c’è l’aumento dell’auto controllo,

la scomparsa della fame,

del sonno,

della fatica.



Quaranta ore senza cibo.

Sveglio per intere notti.

Il corpo partecipa attivamente e intensamente.



Niente paura,

niente rabbia,

niente piacere sessuale.



Processi mentali e processi somatici allo stato brado.

Esaltazione del sentimento religioso.

Immagini fosforescenti di guarigioni miracolose.

Reliquie di me stesso offerte a pellegrini chimici.



Invoco la grazia divina

Poiché penso che il fine sia finalmente raggiunto.

Influssi psichici imprevedibili.

Specchi ipnotici davanti a me.

Psico volontà di oggetti lucenti.

Orologi accostati agli orecchi.

Comunicazioni argentee con flussi striati arancioni.

Non provo più alcun dolore.

Sono come un sonnambulo idiosincratico.

Mi sento come un generatore di energia semi pura

soggetto a filtri di catarsi psicogenetica.

Ora sono un automa deciso a convincermi del contrario.

Meravigliato ed irritato per i sintomi isterici di questo meccanismo perfetto.

Sto vivendo un principio di paralisi cerebrale.

Mano bloccata.

Braccio rigido.

Non ho più l’accesso all’idea del braccio.

Cado a terra e mi rotolo sul tappeto.

Sprofondo nel pavimento e mi materializzo nella stanza da letto.

Il mio campo visivo è ristretto.

Cerco di respirare piano.

Tremo.

Si libera l’angoscia.

Il mio Io è in lacrime.



“Sono un tossico”, penso.



Con la mano libera cerco una bottiglia di vino.



Bisogna festeggiare.