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web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

giovedì 20 settembre 2012

Terra.


Buddha, un giorno disse
che tutto ciò che aveva detto
non era né vero, né falso.
E questa affermazione
è l’ unica cosa esatta che io abbia mai letto.
L’ ultima delle cose giuste.
Una goccia di rugiada tra le dune di un deserto infuocato.
Questa citazione mi è venuta in mente proprio stamattina,
dopo aver scoperto
che il mio cane di appena tre anni
era morto .
Pensavo stesse dormendo.
Quando ho compreso la triste realtà  ho pianto.
Ho pianto un piccolo oceano infinito di lacrime
e  ho pensato che quel cane io l’avevo amato; come lui aveva amato me
anche  quando ero senza un soldo
e  quello che avevo in tasca
non bastava per sfamare né me, né lui.
Eravamo così magri entrambi
che quando lo abbracciavo
i nostri cuori si toccavano
e si scaldavano l’un l’altro
dal freddo del mondo.
Così l’ho seppellito sotto un albero d’ulivo,
accanto ad una fonte d’acqua che lui adorava.

Buddha, un giorno, disse
che tutto ciò che aveva detto
non era né vero, né falso.
Ma quello che accade nel mondo, a differenza delle parole,
è sempre reale.
E  il mondo è fatto di fuoco, aria ,acqua  e terra.
Ed è nella terra  che l’ho lasciato.
                                                                                                                      Alva.

La poesia perfettibile.


Potrai scrivere quanto vorrai, fino a che la mano ti farà male,
ma la poesia perfetta, così dicono,
deve ancora esser scritta.
Cercherai le parole giuste,
infilandole con eleganza
tra le tue lacrime
che bagneranno un foglio bianco,
in attesa di inchiostro
per diventare qualcosa di più
di un semplice niente, degno di esser guardato, interpretato,
osservato con attenzione
o gettato tra le fiamme di un camino
in una notte d’inverno.
Sfinirai la tua anima alla ricerca
del pensiero elevato, della giusta dose di saggezza
che ti consentirà di penetrare
nel cuore di chi la leggerà.
Ma la poesia perfetta,
 così dicono,
deve ancora esser scritta.
Ci vuole rabbia, dolore, fatica, nausea, mal di stomaco,
indifferenza
per scrivere qualcosa che si avvicini
anche in minima parte
alla verità delle cose.
Devi avere coraggio per dire ciò che altri non dicono
mentre tutti credono che tu sia solo un pazzo
che gioca a scacchi con la sorte.
A volte ,penso che abbiano ragione loro:
gli intellettuali, i grandi poeti, i famosi scrittori, i cattedratici
quando dicono
che la poesia perfetta deve ancora esser scritta,
ma sono certo che ci sarà sempre un foglio bianco
in attesa di chi oserà sfidare il loro sublime
e illuminato pensiero
e che un giorno
o una notte
prima di impazzire
la scriverà.


                                                                                         Alva.

Fine di un amore, via cavo.


Lavagna: le due del mattino.
La via principale è deserta, illuminata da luci sfocate.
C’è una cabina telefonica,con i vetri appannati.
Dentro c’è un uomo con un lungo impermeabile nero;
ha la cornetta in mano e lo sguardo fisso a terra.
Sta parlando con foga e dice che non può finire così
dopo tutti quegli anni è impossibile che termini in quel modo,
non ci vuole credere.
Ogni tanto c’è silenzio e lui scuote la testa,
muove le gambe, pesta i piedi.
Poi ricomincia e urla che ha sbagliato
si, ha sbagliato,ma ama solo lei
c’è solo lei nella sua vita e non può finire così,
dopo tutti i momenti belli trascorsi insieme.
Nel mentre passa una volante della polizia, rallenta,
i due poliziotti dentro alla macchina lo guardano e si dicono qualcosa,
poi se ne vanno sgommando.
Lui continua e dice che farà qualsiasi cosa per farsi perdonare
dice che non può fare a meno di lei, che cambierà,
che tornerà e essere come prima.

Altro silenzio.

Adesso lui la supplica:

- TI PREGO! TI PREGO! -  geme,
chiede ancora una possibilità, una “chance”.

Ancora silenzio. L’uomo ora singhiozza, piange disperato.

- TI SCONGIURO!- mormora.

D’un tratto guarda la cornetta,la riattacca al ricevitore ed esce lentamente dalla cabina
Per qualche istante rimane immobile,
con lo sguardo davanti a se come smarrito,
come annientato,come sconfitto.
Poi si volta e se ne va. La via principale è di nuovo deserta.
Due colombi gloglottano su una scalinata.
Il camion del latte ha iniziato il suo giro.
Un colpo di vento alza delle cartacce facendole roteare per aria.

Dopo, solo il silenzio.

Ci sono sempre dei buoni motivi
per cui un amore non dovrebbe finire
ma in questa mattina, tra le due e le due e trenta
per la donna che parlava con quell’uomo
evidentemente
non hanno contato nulla.                             

                                                                                         Alva.


Bambini.


Certi bambini sono infelici.
Povere bestiole!
Hanno il cervello dei genitori: quadrato, di un millimetro quadrato.
Ridono,
saltano,
urlano,
spaccano,
sputano,
danno calci e mollano pugni
ma i genitori li giustificano,
li scusano,
gli creano alibi.
Mostri che creano piccoli mostri,
idioti che generano piccoli idioti
e hanno facce che pesteresti volentieri con la suola delle scarpe.
Ma sono bambini,
merde intoccabili.
Li hanno partoriti le loro madri
che hanno sofferto
aprendo le gambe e spingendo.
Si sono replicate.
Hanno creato inutili spurghi di fogna
che occuperanno un posto utile inutilmente.
Povere coppie illuse!
Stavate tanto bene da soli!
Passavate inosservati
nelle vostre tute da jogging blu con le strisce bianche
assolutamente uguali.
Nelle vostre cene con gli amici
con le solite foto del vostro ultimo viaggio a Parigi
e gli sbadigli trattenuti per educazione.
Come sono belli i vostri bambini!
Come sono simpatiche le vostre creature!
Meritano il meglio di ogni cosa bella!
Sicuramente meritano voi.
Ma noi non ci meritiamo di avervi.
Non desideriamo vedere i vostri mocciosi
piangere e strillare
e voi che li scusate e li coccolate.
Diventeranno come quegli stronzi
che giocano a palla sulle spiagge;
o che parlano ad alta voce nel cellulare
sul treno,
in aereo,
in ascensore,
al ristorante,
in ospedale,
e in tutti quei posti
dove nessuno si sognerebbe di disturbare.
Stavate tanto bene da soli!
Nella vostra casetta di 400 metri quadri
in riva al mare
con il sole all’orizzonte
e i vostri vezzi da artisti.
Al massimo
avreste dipinto una tela
con qualche cosa di orrendo
pagando poi un critico d’arte
per dire il contrario.
E invece no: vi siete clonati!
La massima opera d’arte.
La vostra carne.
Già scaduta appena nata.

                                                                            Alva.

L'ultima mezz'ora.


Mi ricordo che

ero bambino
e correvo
correvo
non ero mai stanco
sentivo l’aria che mi accarezzava
ed ero felice
ridevo sempre.

Mia nonna urlava dal balcone
“Attento a non cadere!”.
Io la guardavo
e continuavo a correre.
Tutto era bello
ed il sole splendeva.

Mi ricordo che

quando fui più grande
incontrai brutta gente
ed il disprezzo e l’indifferenza
verso gli altri
si accamparono in me.
Litigavo con tutti
facevo a botte
dicevo parolacce

non correvo più

e la gente
iniziava ad osservarmi
ma io li odiavo
sputavo sui loro passi.

Mi ricordo che

quando crebbi ancora
ero il più grande
ed il più grosso
io lo sapevo
e mi divertivo
a spaventare tutti

avevano paura di me.

Me ne approfittai
diverse volte
facendo piangere
tanti bambini
ma la cosa
non mi toccava più di tanto.

Mi ricordo che

quando mi sposai
giurai amore e rispetto
alla donna che mi stava a fianco
ma non mantenni nulla

ed io rimasi solo.

Mi ricordo che

ebbi molte donne
ma trattai male anche loro
le feci piangere.
Mi lasciarono tutte

ed il sole
non splendeva più come prima
e l’aria
quando mi toccava
mi faceva male.

Mi ricordo che

quel giorno all’ospedale
mi dissero
che avrei avuto
ancora poco da vivere.

Io risi.

Ero ancora forte.
Una roccia d’uomo.
Certo, non potevo più correre
tanto veloce
ma ero un gigante
incutevo ancora timore.
e mentre me ne andavo
sapevo che alla Morte
non facevo paura.

Ed ora
eccomi qua
in questo letto
con la pelle
che mi fascia le ossa
senza un capello
debole ed inerme
e le persone che stanno intorno a me
hanno tutte la faccia tirata.
Nessuno è triste.
Sono qui solo per dovere.
Sanno che sono stato un figlio di puttana
e che morire
non è una punizione sufficiente.

Li capisco.

C’è anche mio figlio.
Un uomo ormai.
So cosa sta pensando.
E me lo merito.

Appeso al muro
davanti a me
c’è un orologio
che segna le 20:30
e sono conscio
che non vedrò mai le 21.00

Mi godo in silenzio
gli ultimi istanti
della mia vita.


Non ho paura.
Io so perdere.
Solo, vorrei avere un po’ più di tempo
per scusarmi con tutti.

E’ ora di andare.

Il demonio reclama la mia anima.

Ora intorno a me
tutto è sfocato

cerco di far mia
ancora un po’ d’aria.


Ho come un tremito.

ed eccolo, l’ultimo ricordo…

mi vedo bambino
e corro
corro
corro
quando ad un tratto
incontro mia mamma.

Alzo lo sguardo
e, ansimando, chiedo:

“…mamma quando morirò io?”
“…ma cosa ti viene in mente? Tra tantissimo tempo!!”  - mi risponde

“…com’è quando si muore?” -  chiedo
“…non lo so, piccolo, non lo sa nessuno!”

Poi fa un lungo sospiro.

“…ma ora è tardi, torna a casa”  - dice sorridendo.

Io la saluto con la mano
e mi vedo riprendere a correre.

“…torna a casa!” urla mia mamma.

Sempre più veloce.

E vedo il sole che splende.

Sembra messo lì apposta per me.

Ma è un sole strano

è come se si muovesse qualcosa
al suo interno

è come se…


L’orologio a muro
segna le 20:58.


Il tempo.

Ecco cosa rincorrevo.

Il tempo.

Chiudo gli occhi.

Sto morendo.

Sto tornando a casa. 

                                                                                                     Alva.  

Lettera a mio padre.


Caro papà,

sai che ti ho visto l’altro ieri?

Camminavi come se te la fossi fatta nei pantaloni.

La tua faccia
sembrava una prugna secca
&
i tuoi occhi
due palline da ping-pong usate da troppo tempo.

Di denti & capelli nemmeno l’ombra.


Sai: mi hai quasi fatto compassione

& mi sono chiesto:

ma dov’è finito
il lurido bastardo di una volta?


quello sempre sicuro di se stesso,
quello a cui le donne non dicevano mai di no,

quello che mi diceva sempre
che non contavo un cazzo

& che non sarei mai stato nessuno?


“...a due metri da me devi stare!!questa è la giusta distanza!”

Questo è quel che dicevi
ogni qualvolta
esprimevo un concetto
diverso dal tuo.


Poi
quando mi vedevi abbassare lo sguardo
dalla vergogna,

dalla tristezza,
dalla rabbia,
dall’umiliazione

& dall’odio

allora correvi ai ripari & con la tua voce da coglione mi dicevi:

“…sono cose che si dicono nel nervoso!”

anche se sapevo
che eri sempre lo stesso vecchio stronzo
che galleggiava intorno a me.


Debbo dire
che non mi è dispiaciuto
quando ho saputo che stavi morendo di cancro

dopotutto
chi la fa, l’aspetti.

E sai una cosa?
Non mi mancherai!


D’altronde
tra non molto
tutti & due saremo felici

di essere due metri
uno distante dall’altro

con la sola differenza
che tu sarai sottoterra

chiuso in una bara

a marcire.


Da parte mia
è ora che ti dica questo:

fottiti e vai all’inferno
maledetto figlio di puttana.                


                                                                                                  Alva.