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web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

giovedì 15 settembre 2016

Le sue parole.


                                     

 




La notte si era appena dileguata intorno a lui, senza avergli permesso di dormire, inchiodandolo ad uno stato di veglia talmente brutale da stordirlo. Stava sdraiato a terra, di fianco al suo letto, a causa della sbronza della sera prima.

Tutto intorno, sparsi sul pavimento. centinaia di fogli, con su scritti milioni di parole; tutte nate dalla sua rabbia, dal suo dolore, dalla sua disperazione.

In mezzo a tutta quella carta c’era ancora la busta strappata che conteneva l’ennesima lettera di rifiuto, l’ennesimo editore che aveva distrutto il suo sogno di vedere pubblicate le sue poesie, i suoi racconti, i suoi pensieri stupidi.

Erano le sue parole. Ed erano li per terra. Sarebbe bastato spazzarle via o bruciarle per non vederle mai più. Tutto a un tratto iniziò ad odiarle. Aveva speso un bel pezzo della sua vita per scriverle, rinunciando ad amicizie, perdendo donne meravigliose e trattando se stesso come l’ultimo degli ultimi.

Evidentemente a nessuno interessavano. Non c’era una sola anima illuminata in tutto quel buio di incertezza. Era un fallito, anche se nessuno glielo aveva mai detto esplicitamente. Avrebbe potuto scrivere romanzi d’amore, fiabe o addirittura fantascienza...e invece NO!!

Tutte quelle cose sulle brutture della vita lo avevano annientato in tutti i sensi...e ora erano li sul pavimento che attendevano di essere calpestate o riposte con cura in qualche angolo di un solaio dove il tempo, i topi e l’umidità si sarebbero divertiti a farne scempio.

Si issò faticosamente sulle ginocchia ed iniziò a raccogliere tutti quei fogli.

Impiegò parecchio tempo per sistemarli sul tavolo e quando ebbe finito, davanti a se, si formò un’alta colonna di un bianco opaco e con i lati irregolari.

Pareva il lungo collo di una mostruosa creatura. Lo guardò a lungo, barcollando leggermente in avanti, poi con passo insicuro si diresse verso il ripostiglio. Dal suo interno tirò fuori un enorme zaino di un blu ormai scolorito che gli proiettò nella mente tutti i bellissimi viaggi fatti in sua compagnia. Se lo avvicinò al naso e con dei profondi respiri lo annusò; puzzava di muffa e polvere di decenni ma con un incredibile sforzo sensoriale riuscì ancora a percepire il profumo di nuovo che aveva quando lo acquistò da ragazzo. Lo aprì e lo sistemò sul tavolo. Senza indugiare lo riempì con tutta quella carta. Poi lo richiuse e se lo mise in spalla, accusandone il forte peso. Uscì dalla sua vecchia abitazione e si diresse verso quell’alta collina sulla quale, da giovincello, amava recarsi alla sera per guardare la città dall’alto, seduto sopra uno sperone roccioso che fuoriusciva così tanto da una sua parete da dare l’impressione, a chiunque lo guardasse dal basso, di vedere un trampolino per i tuffi, anche se sotto non c’era la piscina con l’acqua ma 50 metri di vuoto e i binari della ferrovia sui quali, ogni tanto, scorrevano pesantemente lunghissimi treni merci diretti verso gli appennini e poi oltre fino al mare.

Il suo cammino fu lento e faticoso.

Ci fu un attimo in cui gli parve di realizzare l’esatto stato d’animo di Gesù Cristo mentre, con la croce sulle spalle, scalava il Golgota.

Ma fu solo un attimo. Il tempo scorreva. La luce diminuì e la notte scese, ammorbando ogni cosa di buio. Egli arrivò ansimante su quella protuberanza rocciosa; posò lo zaino e si sedette con le gambe a penzoloni nel vuoto.



SI!

La sua città c’era ancora! Solo che ora splendevano molte più luci e si potevano vedere sfrecciare molte più macchine sulle strade. Rimase in quella posizione ad osservare quel turbinio di luci per oltre un’ora.

Poi gli parve che la città si fosse addormentata; le luci nelle case si erano spente una dietro l’altra e anche il fiume, che si srotolava pigramente giù nella vallata, sembrava essersi assopito.

Si ridestò dalle sue visioni ad occhi aperti e si alzò in piedi. Sporse cautamente il corpo in avanti, osservò il vuoto e sputò. Indietreggiò di qualche passo e afferrò lo zaino. Lo riaprì facendolo strisciare fino al bordo dello sperone di roccia. Alzando lo sguardo si accorse di un meraviglioso cielo stellato; quante volte lo aveva guardato cercando ispirazione.

Ed ora era lì, davanti a lui, sopra di lui, ovunque.

La serata sembrava giusta per pareggiare i conti con l’universo.

Estrasse i fogli di carta zeppi di parole.


Erano le sue parole.


Le aveva scritte lui dopo aver bevuto, dopo aver pianto e urlato la sua pazzia al mondo intero. Con un lento gesto le alzò verso il cielo, come in un propiziatorio dono al nulla...e le scagliò nel vuoto.

Dapprima quel mucchio di fogli parve precipitare poi, come in un improvviso battito d’ali, esplose e ognuno di quei fogli prese una direzione diversa dall’altro.


Erano le sue parole.
Lui le aveva scritte.


Continuò a lanciare quella carta nell’infinito fino a che lo zaino fu vuoto.

Subito dopo gli assestò un calcio, abbandonandolo a se stesso quindi prese la strada del ritorno velocemente, senza voltarsi.



MA COSA AVEVA FATTO?



Si era separato dall’unica cosa in grado di tenerlo in vita...forse ancora per qualche anno!



Continuò a camminare.



Cosa avrebbe letto d’ora in poi? Il giornale con le notizie sportive? Un libro di cucina? L’oroscopo della settimana? I necrologi?



I suoi piedi divennero pesanti a tal punto che si dovette fermare. Rimase come pietrificato per qualche secondo poi, con un gesto leggiadro, si voltò e quello che vide lo stupì più di ogni altra cosa al mondo: tutti i suoi fogli, le sue parole, i suoi pezzi di vita ERANO DAVANTI A LUI! Come un’immensa nuvola bianca che si stagliava nel cielo stellato. Probabilmente una corrente ascensionale li aveva sollevati verso l’alto. Ma lui non volle interpretare la cosa scientificamente.

Ci voleva poco a capire che si trattava di un segno del destino.

Erano le sue parole. Lui le aveva scritte. Ne era certo.

Guardò quella nuvola come un bambino guarda i fuochi d’artificio quindi iniziò a correre.

Dapprima lentamente, poi sempre più velocemente verso di essa.

Gli vennero in mente molte cose in quegli attimi: la sua vecchia madre, il padre che non aveva mai avuto, la sua infanzia, i suoi figli che lo avevano abbandonato, la casa dove aveva vissuto, le donne che aveva amato....DIO.



La nuvola era sempre li, davanti a lui, ogni attimo più vicina.



Mentre correva iniziò a piangere con un misto di tristezza, dolore e felicità.



Il trampolino di roccia stava per finire ma la sua corsa era costante, sinuosa, elegante.



I suoi fogli galleggiavano nel vuoto, come in attesa di qualcosa...o di qualcuno.



Percorse gli ultimi metri e con un balzo si staccò dal suolo...a braccia aperte...con un sorriso...verso le sue parole.


Le aveva scritte lui.



                                                         





                                     

                                                                                                                                                                                                                                                                            








martedì 13 settembre 2016

Amarcord.


Era un bellissimo pomeriggio di fine giugno quando gli sposi entrarono nella piccola chiesetta di Coronata, attraversando una discreta folla di curiosi, qualche tossico appoggiato al muretto della salita e i parenti in lacrime, alcuni vestiti all’antica con giacche e cravatte altri decisamente più sobri, forse un po’ troppo ma con i volti abbronzati ma tutti, dico tutti, erano sudati marci e anche i bambini che vociavano e correvano allegri, tirandosi addosso una varietà di riso scadente, sudavano copiosamente e il sole scintillava con i suoi raggi sulle goccioline che scendevano dalle loro fronti e i cani avevano la bocca spalancata con la lingua a penzoloni e ansimavano e abbaiavano per poi lasciarsi cadere in qualche anfratto lurido alla ricerca di ombra e quando gli sposi varcarono la soglia del portone in legno della chiesa ci furono degli OOOOHHHH da parte dei bambini, come in quella canzone di Povia e una folata di vento improvvisa scompigliò i capelli di tutte le adolescenti brufolose che erano sedute all’interno per godersi il fresco insieme ai più anziani mentre gli sposi avanzavano lentamente uno accanto all’anziana madre, infilata a fatica dentro un vestito giallo e rosso e l’altro accanto al padre che dritto come un pilastro dell’autostrada pareva avere la testa come un soprammobile appoggiata al colletto di una camicia bianca lavata troppe volte e la sposa aveva un bellissimo vestito bianco di organza con lo strascico che veniva calpestato da decine di marmocchi irritati dal caldo e lo sposo indossava un completo alla coreana nero opaco con cuciture ai polsi che formavano disegni orientaleggianti e quando si trovarono di fronte al sacerdote si guardarono negli occhi e pareva che in quegli occhi ci fosse tutta la felicità di questo mondo ma io sapevo che di felicità non poteva essercene abbastanza per tutti e l’anziano prete officiò la cerimonia in maniera davvero impeccabile riuscendo anche a fare delle battute in dialetto genovese che quasi nessuno capiva perché l’unico ligure era lui ma il tutto sortì l’effetto desiderato e poi disse la frase di rito e gli sposi si dissero si reciprocamente decretando la fine dei loro sogni da bambini e si baciarono furiosamente, lungamente al punto che un anziana donna si sentì in imbarazzo e volse lo sguardo altrove e i genitori degli sposi iniziarono a modo loro a piangere e qualcuno iniziò a urlare ai bimbi di stare zitti e non fare chiasso ma quando gli sposi uscirono sul sagrato della chiesa iniziarono ululati e urla e cori e fischi e applausi e lanci di riso e latrati di cani e clacson di macchine e clangore di campane a festa poi arrivarono un bambino che sembrava un piccolo mafioso e una bambina che sembrava una piccola baldracca e ognuno di loro aveva in mano una colomba e ogni colomba aveva un nastrino legato alla zampetta, azzurro per il piccolo padrino e rosa per la sua degna compare poi porsero le colombe agli sposi che delicatamente le afferrarono e si guardarono negli occhi e con un piccolo gridolino di gioia le lanciarono verso il cielo e ci fu gente che fece foto, filmati e quant’altro e le colombe sbattevano le ali e parevano disorientate come se si inseguissero una coll’altra e tutti le guardarono per un po’ ma il sole picchiava così duro che gli sguardi si abbassarono e arrivò una macchina di quelle americane, lunga un chilometro, bianca, con un ‘autista vecchio e mezzo gobbo che scese e aprì la porta posteriore con estrema fatica e io pensai che forse quella sarebbe stata la fatica che lo avrebbe stroncato proprio in quel frangente e pregai che non accadesse e per fortuna non accadde così gli sposi salirono e i genitori applaudirono sicuramente pensando a quanto gli era costato l’affitto di quella macchina che quasi non riusciva a far manovra nella piazzetta e quando la prua della Lincoln si diresse verso la discesa  allora tutti corsero verso le rispettive vetture per seguire gli sposi e c’erano fiori e riso ovunque e le colombe ormai dimenticate iniziarono a puntare verso sud in direzione di Ponte Assereto e l’allegra comitiva festante discese la strada di Coronata quando ancora gli anziani del rione si scambiavano antichi rituali da compiere sempre dopo un matrimonio con la regia di arcane liturgie tramandate di padre in figlio sia che si trattasse di un matrimonio o di un funerale e quando gli invitati si trovarono in piazza Massena dopo aver atteso il verde del semaforo svoltarono tutti verso levante diretti ai giardini di Nervi e le colombe che veleggiavano perfettamente in coppia fecero una sorta di leggera cabrata per poi picchiare verso la Lanterna con i loro nastrini ancora attaccati alla zampette uno azzurro e uno rosa e quando la bianca macchina americana guidata dal vecchio gobbo imboccò la sopraelevata tra schiamazzi e clacson e felicità nessuno si accorse che le colombe stavano perdendo quota e quando la lunga fila di macchine arrivò ai giardini di Nervi per le foto le colombe erano ancora una a fianco all’altra che volavano quasi al livello del mare con un orizzonte basso e lontano e terso e affilato come una lama di rasoio ed era certo che avrebbero volato ancora accanto con i loro nastrini, uno rosa e l’altro azzurro e quando il fotografo chiese agli sposi di baciarsi per la foto di rito davanti alle famose rose dei giardini di Nervi la colomba col nastrino rosa cadde in acqua ma l’altra continuò ancora per una decina di metri poi atterrò su una boa di segnalazione e beccò ripetutamente il nastrino azzurro che si sfilò.
Poco dopo riprese il volo.  Quando arrivò sul Porto Antico atterrò delicatamente vicino ad una panchina dove un signore in abito bianco e cravatta gli lanciò del pane secco. Era domenica. Il sole stava tramontando e da lì a non molto, Genova, pigramente , si sarebbe addormentata.       
                                                                                                                                                                                                       


Cronaca di una calda giornata in un condominio di Cornigliano.


Mi alzai

in quella mattina

calda e umida



nella stanza

aleggiava ancora

l’odore della cena



mi sforzai di guardare

attraverso le tapparelle



il sole

più dinamico che mai



spandeva ovunque

i suoi raggi bollenti



qualche zanzara rintronata

svolacchiava senza meta apparente



arrotolai un giornale

e con un paio di colpi



ne proiettai una

in un’altra dimensione



poi mi diressi

come un non morto

verso il bagno



mi sedetti sulla tazza

e cagai

e pisciai

quasi all’unisono ( un gran bel colpo!)



finito tirai l’acqua

cinque volte



poichè la merda

che tanto era stata in me

non ne voleva sapere di abbandonarmi



si era aggrappata sul fondo



con lo scopino la grattai via

vigorosamente



e vederla scivolare nel nulla

un po’ mi dispiacque



ma poi pensai



che al termine del viaggio

avrebbe trovato un sacco di compagnia



mi distolsi da quei pensieri

e mi guardai allo specchio...



chi era quello?



non lo conoscevo!!



mi somigliava un po’



ma niente più



aprii la bocca

tirai fuori la lingua



dio che orrore!!



la feci rientrare



mi lavai i denti

e mi sciacquai la faccia



mi asciugai con una tenda

perché l’asciugamano era sporco

(mi ci ero pulito il culo)



uscii dal bagno

e guardai il letto



pareva avvitato su se stesso



diedi un’occhiata

alla foto di mia madre



era lì appesa

e sembrava dicesse:

“Ma guarda come ti sei conciato...VERGOGNA!”



abbassai lo sguardo

mi infilai i vestiti

prendendoli un po’ ovunque...



in effetti ero un attimino trasandato



la pancia mi precedeva di una lunghezza

tranne quando ero a letto



allora mi sovrastava come una collinetta tondeggiante



ma...mi piaceva!

mi teneva compagnia



se mi dimenticavo l’orologio

all’ora di pranzo

lei faceva: “Gruumble...gruumble!”



in fondo era utile



uscii



chiamai l’ascensore



quand’ecco che si aprì la porta

dell’appartamento accanto al mio


e fece capolino la deliziosa vecchietta

che da molti anni era mia vicina





“...ma quando cazzo la finirai di chiamare l’ascensore per fare 18 gradini? - esordì urlando -Ti farebbe anche bene muovere un po’ il culo!!”





la gentile signora

pareva fosse sempre esistita



quando ero ragazzo era così



e ora

dopo 40 anni



era ancora con le stesse orribili fattezze di allora





lunghi capelli canuti abbandonati al caso

naso bitorzoluto con goccia perenne

e una gobba da farla sembrare un cammello (o un dromedario? boh...)



la fissai per qualche interminabile secondo

per capire cosa stesse dicendo



ma non feci in tempo a replicare

che lei aggiunse:

“...cosa guardi, idiota, guardati tu piuttosto che sembri la morte in vacanza!!”



aveva una fottuta ragione



“ La ringrazio, gentile signora, per la istruttiva conversazione!!” riuscii a rispondere



“VAI A FARTI INCULARE DA UN TORO!!” urlò nuovamente



l’ascensore stava scendendo

e lei era aggrappata alla ringhiera che ringhiava

dietro al mio dito medio che svettava come un monolito nello spazio





arrivato al piano terra mi sistemai i pantaloni

ripulii le punte delle scarpe con gli stessi



ed imboccai il portone di uscita appena in tempo

per assistere ad un tamponamento tra due macchine





...i guidatori schizzarono fuori

ed iniziarono un elegante battibecco





“...ehi. testa di cazzo, cosa stavi guardando invece di guidare?”

                                                                                     disse il tamponato



“...stavo guardando dov’era il numero di casa tua perché tua moglie mi ha appena telefonato dicendo di far presto dato che tu eri appena uscito!”

                                                                                     rispose l’altro



“...ho capito...vuoi che ti ficchi la testa su per il culo?”



“...cazzo, ma se vuoi vedere un po’ di merda non è più semplice metterti davanti allo specchio?”



“...amico...sei in cerca di rogne, vero? allora vuol dire che le hai trovate!”



“...no...trovo strano che tu sia qui. Gli stronzi non dovrebbero viaggiare nelle fogne?”







Era quasi divertente starli ad ascoltare

ma me ne andai e li lasciai a loro







“...devi solo succhiarmi l’uccello, amico!”



“...quale? non vedo la gabbia!”



“...tra un po’ vedrai le stelle!”



“...cristo santo, ti porti dietro il telescopio tutti i giorni?!”





era iniziata un’altra gran bella giornata

e ce ne sarebbero state ancora



il traffico impazziva

in un mondo pieno di pazzi



il sole vomitava calore

sul genere umano



facendo sudare tutti di brutto

ed anche me



i gatti dormivano all’ombra

mentre un cane attraversava la strada

con la lingua a penzoloni



guardai prima a sinistra e poi a destra

e la attraversai anch’io.                              



                                                                               Alvaro.

giovedì 8 settembre 2016

Matrimonio a Coronata




Era un bellissimo pomeriggio di fine giugno quando gli sposi entrarono nella piccola chiesetta di Coronata, attraversando una discreta folla di curiosi, qualche tossico appoggiato al muretto della salita e i parenti in lacrime, alcuni vestiti all’antica con giacche e cravatte altri decisamente più sobri, forse un po’ troppo ma con i volti abbronzati ma tutti, dico tutti, erano sudati marci e anche i bambini che vociavano e correvano allegri, tirandosi addosso una varietà di riso scadente, sudavano copiosamente e il sole scintillava con i suoi raggi sulle goccioline che scendevano dalle loro fronti e i cani avevano la bocca spalancata con la lingua a penzoloni e ansimavano e abbaiavano per poi lasciarsi cadere in qualche anfratto lurido alla ricerca di ombra e quando gli sposi varcarono la soglia del portone in legno della chiesa ci furono degli OOOOHHHH da parte dei bambini, come in quella canzone di Povia e una folata di vento improvvisa scompigliò i capelli di tutte le adolescenti brufolose che erano sedute all’interno per godersi il fresco insieme ai più anziani mentre gli sposi avanzavano lentamente uno accanto all’anziana madre, infilata a fatica dentro un vestito giallo e rosso e l’altro accanto al padre che dritto come un pilastro dell’autostrada pareva avere la testa come un soprammobile appoggiata al colletto di una camicia bianca lavata troppe volte e la sposa aveva un bellissimo vestito bianco di organza con lo strascico che veniva calpestato da decine di marmocchi irritati dal caldo e lo sposo indossava un completo alla coreana nero opaco con cuciture ai polsi che formavano disegni orientaleggianti e quando si trovarono di fronte al sacerdote si guardarono negli occhi e pareva che in quegli occhi ci fosse tutta la felicità di questo mondo ma io sapevo che di felicità non poteva essercene abbastanza per tutti e l’anziano prete officiò la cerimonia in maniera davvero impeccabile riuscendo anche a fare delle battute in dialetto genovese che quasi nessuno capiva perché l’unico ligure era lui ma il tutto sortì l’effetto desiderato e poi disse la frase di rito e gli sposi si dissero si reciprocamente decretando la fine dei loro sogni da bambini e si baciarono furiosamente, lungamente al punto che un anziana donna si sentì in imbarazzo e volse lo sguardo altrove e i genitori degli sposi iniziarono a modo loro a piangere e qualcuno iniziò a urlare ai bimbi di stare zitti e non fare chiasso ma quando gli sposi uscirono sul sagrato della chiesa iniziarono ululati e urla e cori e fischi e applausi e lanci di riso e latrati di cani e clacson di macchine e clangore di campane a festa poi arrivarono un bambino che sembrava un piccolo mafioso e una bambina che sembrava una piccola baldracca e ognuno di loro aveva in mano una colomba e ogni colomba aveva un nastrino legato alla zampetta, azzurro per il piccolo padrino e rosa per la sua degna compare poi porsero le colombe agli sposi che delicatamente le afferrarono e si guardarono negli occhi e con un piccolo gridolino di gioia le lanciarono verso il cielo e ci fu gente che fece foto, filmati e quant’altro e le colombe sbattevano le ali e parevano disorientate come se si inseguissero una coll’altra e tutti le guardarono per un po’ ma il sole picchiava così duro che gli sguardi si abbassarono e arrivò una macchina di quelle americane, lunga un chilometro, bianca, con un ‘autista vecchio e mezzo gobbo che scese e aprì la porta posteriore con estrema fatica e io pensai che forse quella sarebbe stata la fatica che lo avrebbe stroncato proprio in quel frangente e pregai che non accadesse e per fortuna non accadde così gli sposi salirono e i genitori applaudirono sicuramente pensando a quanto gli era costato l’affitto di quella macchina che quasi non riusciva a far manovra nella piazzetta e quando la prua della Lincoln si diresse verso la discesa  allora tutti corsero verso le rispettive vetture per seguire gli sposi e c’erano fiori e riso ovunque e le colombe ormai dimenticate iniziarono a puntare verso sud in direzione di Ponte Assereto e l’allegra comitiva festante discese la strada di Coronata quando ancora gli anziani del rione si scambiavano antichi rituali da compiere sempre dopo un matrimonio con la regia di arcane liturgie tramandate di padre in figlio sia che si trattasse di un matrimonio o di un funerale e quando gli invitati si trovarono in piazza Massena dopo aver atteso il verde del semaforo svoltarono tutti verso levante diretti ai giardini di Nervi e le colombe che veleggiavano perfettamente in coppia fecero una sorta di leggera cabrata per poi picchiare verso la Lanterna con i loro nastrini ancora attaccati alla zampette uno azzurro e uno rosa e quando la bianca macchina americana guidata dal vecchio gobbo imboccò la sopraelevata tra schiamazzi e clacson e felicità nessuno si accorse che le colombe stavano perdendo quota e quando la lunga fila di macchine arrivò ai giardini di Nervi per le foto le colombe erano ancora una a fianco all’altra che volavano quasi al livello del mare con un orizzonte basso e lontano e terso e affilato come una lama di rasoio ed era certo che avrebbero volato ancora accanto con i loro nastrini, uno rosa e l’altro azzurro e quando il fotografo chiese agli sposi di baciarsi per la foto di rito davanti alle famose rose dei giardini di Nervi la colomba col nastrino rosa cadde in acqua ma l’altra continuò ancora per una decina di metri poi atterrò su una boa di segnalazione e beccò ripetutamente il nastrino azzurro che si sfilò.
Poco dopo riprese il volo.  Quando arrivò sul Porto Antico atterrò delicatamente vicino ad una panchina dove un signore in abito bianco e cravatta gli lanciò del pane secco. Era domenica. Il sole stava tramontando e da lì a non molto, Genova, pigramente , si sarebbe addormentata.       

martedì 6 settembre 2016

Ale, il miracolato!

Ale aveva la fissa di nuotare fino al largo, troppo al largo nel suo amato Mar Ligure savonese.
Quella volta, però, qualcosa di tremendo lo attendeva al varco. Erano i primi di settembre,il
mare era ancora tiepido e invitava al consueto cimento natatorio. Lui non ci pensa neppure 
un po'. Si tuffa, indossa le sue amate pinne sgangherate, ultratrentennali; in qualche minuto è
al largo ,felice di solcare come un siluro quell'acqua tanto adorata. Si ferma alla seconda boa,
quella molto distante dalla riva. Vede qualcosa, a venti-venticinque metri sulla sinistra mentre
ballonzola pigramente tendendosi alla boa stessa, cullato dalle onde. Non ci sono dubbi,
è una pinna verticale anzi, a ben guardare, sono due e poi tre. Il poveraccio è raggelato:
sono tre verdesche,squali dei nostri mari non eccessivamente grossi di taglia ma sufficienti,
uno solo di loro, a infliggere ferite anche mortali; per non parlare poi di quando sono in
gruppo. Le tre sagome ormai sono nitide. Si avvicinano decise, puntano alla sagoma
semi-sommersa di Ale, forse interpretandolo come un mammifero insolito ma sicuramente
interessante dal punto di vista del nutrimento che le  proteine del suo corpo nudo rappresentano.
Fu in quei secondi che come una folgorante ispirazione, la memoria gli ripropose una vecchia
Preghiera che insieme a sua zia e a suo padre, in un secondo tempo, soleva recitare tutte le
sere da bambino e da ragazzo prima di addormentarsi: eccolo in preda alla disperazione più
nera, le silhouette agili e verdeggianti dei tre squali sono a 5-6 metri da lui mentre un fiotto
di calda urina scivola in mare,oltrepassando il suo costume-boxer,egli ora sta recitando
il Padre Nostro. Lo fa a occhi chiusi rimettendo tutta,ma proprio tutta,la sua anima a
Dio. Dio,questo strano Personaggio,questo Padre per troppo tempo considerato lavativo ed
assente da un figlio tendenzialmente degenere e prodigo quale Ale ha provato di essere,per
decenni.E QUALCOSA ACCADE: ...e liberaci dal male...la pronuncia piangendo come un
bambino,la frase,rassegnato a ricevere la giusta punizione per le malefatte della sua vita,eppure
conservando un pizzico di speranza nella Misericordia del Padre,come la definivano
i religiosi della sua infanzia.Riapre gli occhi,le pinne sono scomparse,così come le sagome
sinistre dei tre pescecani. Lentamente,di dorso,piano piano,spinnando all'andatura di un
vecchio ottantenne,Ale riapproda alla riva,e il suo mondo,la sua vita,la sua testa,il suo
cuore, non sono più gli stessi,nè mai torneranno ad esserlo,fortunatamente,o sarebbe
il caso di dire,per Grazia ricevuta.



venerdì 2 settembre 2016

WHAT ELSE?


DA CHI SIAMO COMANDATI?

Vi siete mai chiesti quali siano  gli effetti paradossali dei meccanismi che governano la carriera aziendale dei vari Direttori Sanitari, Direttori di Struttura e, in generale, tutti quelli a voi gerarchicamente superiori e che hanno fatto carriera?

Vi siete mai domandati almeno una volta, a livello di pensiero, perché quando questi personaggi parlano in pubblico oppure scrivono proclami destinati ai sottoposti,  vi si insinua prepotentemente nella testa l’idea che possano essere idioti? Beh,tranquillizzatevi; non si tratta di invidia o di stress né tanto meno di burn-out  condito da populismo di  basso livello ma solo che potreste avere scientificamente ragione a motivo del Teorema di Peter, noto anche come principio di incompetenza, 

Esso fu formulato nel 1969 dallo psicologo canadese Laurence J. Peterin un libro dal titolo The Peter Principle, pubblicato nel 1969 in collaborazione con l'umorista Raymond Hull. Il saggio ebbe una notevole fortuna letteraria e ha conosciuto numerose edizioni e traduzioni.

« In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza »

Il Teorema di Peter va inteso nel senso che, in una gerarchia, i membri che dimostrano doti e capacità nella posizione in cui sono collocati vengono promossi ad altre posizioni. Questa dinamica, di volta in volta, li porta a raggiungere nuove posizioni, in un processo che si arresta solo quando accedono a una posizione poco congeniale, per la quale non dimostrano di possedere le necessarie capacità: tale posizione è ciò che gli autori intendono per «livello di incompetenza», raggiunto il quale la carriera del soggetto si ferma definitivamente, dal momento che viene a mancare ogni ulteriore spinta per una nuova promozione.
Dal principio di Peter discende il seguente corollario:

« Con il tempo, ogni posizione lavorativa tende a essere occupata da un impiegato che non ha la competenza adatta ai compiti che deve svolgere. »

Ne consegue anche che risulta cruciale, per l'organizzazione, il lavoro svolto da quei lavoratori che mostrano di essere capaci nella loro posizione, non avendo ancora raggiunto il livello di incompetenza. Ne consegue che, in un'organizzazione:

« Tutto il lavoro viene svolto da quegli impiegati che non hanno ancora raggiunto il proprio livello di incompetenza. »

Il principio di Peter, applicato alle organizzazioni umane, può essere considerato un caso speciale di una formulazione più generale:

« Ogni cosa che funziona per un particolare compito verrà utilizzata per compiti sempre più difficili, fino a che si romperà. »

La paternità di tale enunciato è dell'accademico William R. Corcoran, che lo formulò a seguito delle sue ricerche per sviluppare azioni correttive da adottare nella gestione degli impianti nucleari. Corcoran rilevò, infatti, la tendenza a utilizzare apparati, dimostratisi efficaci per un determinato lavoro, per compiti per i quali detti apparati non erano stati concepiti; a titolo di esempio, l'uso di aspirapolvere per aspirare fumi e sostanze tossiche in luogo degli appositi sistemi di aspirazione, oppure l'affidamento a impiegati amministrativi della redazione dei piani di emergenza invece di incaricare di tale compito gruppi di lavoro con competenze specifiche sul tema.
Peter applicò il medesimo principio alle strutture umane valutandone gli effetti complessivi sul funzionamento delle organizzazioni partendo dalla considerazione che, in un'azienda gerarchica, le promozioni degli impiegati sono funzione diretta delle capacità dimostrate nello svolgimento dei compiti loro assegnati. In altri termini, finché costoro si dimostrano in grado di assolvere ai compiti assegnati, essi vengono promossi al livello immediatamente superiore, nel quale devono assolvere compiti differenti. Alla fine del processo gli impiegati hanno raggiunto il proprio «livello di incompetenza», ovvero la condizione in cui non sono più in grado di svolgere i compiti assegnati e pertanto non hanno più alcuna possibilità di avanzamento, ponendo così fine alla propria carriera nell'organizzazione.
L'incompetenza non dipende dal fatto che la posizione gerarchica elevata preveda compiti più difficili di quelli che l'impiegato è in grado di svolgere bensì, più semplicemente, di natura diversa da quelli svolti in precedenza e che richiedono quindi esperienze lavorative che l'impiegato solitamente non possiede. Per esempio, un operaio tornitore che svolgesse il suo lavoro in modo eccellente potrebbe essere promosso caporeparto, posizione in cui, tuttavia, potrebbe non essere più essenziale di per sé l'abilità a manovrare il tornio quanto l'imprescindibile capacità di trattare con il personale sottoposto.
Il funzionamento del principio fu oggetto di modellizzazione matematica  attraverso la quale fu dimostrata la sua validità teorica per le simulazioni. La simulazione matematica ha mostrato come un'organizzazione può aggirare gli effetti negativi del principio di Peter e guadagnare in efficacia adottando principi casuali per l'attribuzione delle promozioni.
A tutti noi è capitato di dire almeno una volta che i ruoli più blasonati o quantomeno importanti, sono spesso ricoperti da incompetenti o da raccomandati: a tutti è passato per la testa di essere comandati da degli emeriti imbecilli ma anche a tutti, almeno qualche volta, è passata per la testa questa frase “Beh, se è li un motivo ci sarà”.
In effetti c’è, e pare che dia ragione al fatto che chi comanda, ad ogni livello, sia un testone o quantomeno un incompetente:


“Un individuo inserito in una scala gerarchica inizia l’attività con un ruolo preciso, svolgendo compiti precisi.
Se svolge bene i suoi compiti viene 'promosso', passando a compiti diversi. Dopo un certo tempo, se anche questi nuovi compiti vengono svolti bene, scatta una nuova promozione. Tali promozioni portano a posizioni dette apicali che, per definizione, devono essere occupate da persone con una spiccata attitudine a risolvere problemi.
Il gioco delle promozioni continuerà così fino al momento in cui l’individuo non sarà più in grado di svolgere i compiti assegnatigli. Da quel punto in avanti non avrà più promozioni. Ha raggiunto il massimo della sua carriera. Per cui ecco il principio: In ogni gerarchia, un dipendente tende a salire fino al proprio livello di incompetenza. Da questo principio discende che ogni posto chiave tende potenzialmente ad essere occupato da un incompetente, un soggetto cioè in grado di creare più problemi di quanti possa risolverne. Il che spiega molte cose sul funzionamento di parecchie istituzioni.”