VOTAMI!

web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

venerdì 10 dicembre 2010

                             Sulla strada.
                            

E' mattina e sta suonando la sveglia. E come quasi tutte le mattine sono già dentro il lavoro. Questo lavoro mi ha in pugno. E' intorno a me. E' sufficiente che io scenda dalla brandina per vedere il volante e il cambio e la consolle dei comandi pronti a illuminarsi per l’ennesima volta e informarmi circa lo stato di salute del motore e di un sacco di altre cose che gli stanno intorno. Mi sento come immerso dentro una gelatina permanente. Quando guardo la strada attraverso il parabrezza, è come se la guardassi da una lente deformante. Il nastro d'asfalto mi scorre sotto come un fiume in piena ed io mi sento come sospeso su un ponte in attesa del crollo. La strada è un delicato equilibrio che tutte le mattine qualcuno o qualcosa è pronto a cambiare. A volte, per non pensare, mi prendo i miei angoli mentali di assoluta libertà all'interno della quale posso ritirarmi, leggero ed evanescente come la nebbia al mattino. Sono angoli che possono diventare all'improvviso rotondi e piccoli. Dove tutti i tuoi pensieri e le tue risorse devono mettersi a far qualcosa per rimediare a un errore. Il più delle volte è l’errore di qualcun altro. E tu pensi: perché è successo? Perché non me ne sono reso conto? Poi passano gli anni: due, cinque, sette, dieci, tredici. E la sveglia suona ancora. La strada che è sotto di me non ha quasi più nulla di nuovo da raccontarmi. Resta solo il residuo. Le frammentazioni. Le scorie.

                                      Martedì, ore 06.15
                  

Ho atteso quest'ora nella speranza di non trovare traffico per l'entrata in Germania. Purtroppo la colonna è molto lunga e lenta. Devi avere mille occhi e stare attento che nessuno ti venga addosso. Il piazzale, dopo la notte, puzza di orina accentuata dal fatto che fa caldo e non piove da settimane. I doganieri svizzeri ridono. Nelle loro divise perfette e pulite ridono. Ci guardano come fossimo bestie.  Eppure è l'Italia che negli ultimi 500 anni di storia, nonostante tutte le guerre e le devastazioni che si sono succedute, è riuscita a produrre grandi letterati, musicisti, scienziati, politici, poeti, navigatori e altro ancora. E la Svizzera? L'orologio a cucù! Lentamente oltrepasso il confine. Inizia la Germania con le sue lunghe e tristi autostrade. Quattro ore mi separano da Francoforte. Il navigatore mi dice che arriverò verso le undici. Il motore è al massimo regime. La giornata è bella. Canticchio la solita canzone di cui mi sfugge il titolo.Davanti a me camion e macchine con luci di emergenza accese. Segno che oltre è accaduto qualcosa. Magari il solito incidente del solito idiota in macchina che ha deciso di consultare la cartina mentre sta andando a 200 all'ora. Oppure i soliti lavori in corso che in Germania assumono dimensioni bibliche in tutti i sensi. Niente di tutto questo: c'è un copertone in mezzo alla strada, staccatosi probabilmente da un camion, che ha deciso di piazzarsi proprio nella corsia centrale quindi, per venti minuti.
l'attrazione principale della mattinata per tutti quelli davanti a me sarà: passa accanto al copertone del camion MOOOLTO lentamente e fissati per sempre nella memoria quel momento d’indicibile adrenalina. Vorrei suonare il mio potente clacson per riportare alla realtà tutta quella massa di ebeti ma soprassiedo. Non vorrei incorrere nel sillogismo un po’ stereotipato secondo cui i camionisti sono prepotenti perché guidano un mezzo così grosso. Ricordo che anni fa qualcuno ebbe a dire che certi uomini decidono di pilotare grosse macchine e camion per compensare la pochezza dei propri genitali. Mah!

                                      Martedì, ore 07.40

Posto di blocco! Noooooooooooo! Questa non ci voleva! Li conosco i posti di blocco in Germania: con estrema cortesia e professionalità ti rivoltano come un guanto e  TRANQUILLO che qualcosa trovano! Inizio a rallentare. Vedo, 300 metri più avanti, uno della Polizei che, fermo proprio davanti all'entrata di un'area di parcheggio, con una paletta luminosa, fa entrare i camion per il controllo. Ora sto pregando. Prego ma non perché io abbia qualcosa che non va (a parte il rimorchio che pare essere stato per un anno il gioco preferito di Godzilla) giacché in un controllo di polizia si possono perdere anche quarantacinque minuti. Ciò significa che stasera mi mancheranno quarantacinque minuti da dedicare a me. Certo! Io dedico sempre del tempo a me stesso! Sono una persona interessante. Anche se un po' timido. E' per questo che, a volte, ho un approccio complicato con la mia persona. A volte oso. Mi faccio coraggio e m’invito a pranzo. A volte accetto, ma il più delle volte no. E non lo faccio perché mi credo chissà chi: lo faccio perché devo capire che non ci sono solo io al mondo. Sai quanti come me esistono? Un'infinità. Così, quando mi rifiuto l'invito, mi ridimensiono. Comprendo meglio le cose intorno a me. Poi, mi prende una cosa allo stomaco, inizio a soffrire, prendo il cellulare e mi scrivo. Mi posso perdonare? Mi do' un'altra possibilità? In seguito cado in un errore madornale: cerco di invitarmi a cena per il giorno dopo. Stesso posto. Stessa ora. Per un po' gioco con me stesso poi accetto. E' troppa la voglia di vedermi. Di toccarmi.
A proposito: è un po' che non mi tocco! E questo non è bello. Penso che sia l'età o, forse........AVRO' UN ALTRO?
Mi risveglio da questi pensieri e noto con stupore che la polizia mi ha graziato. Al posto mio hanno beccato uno di Napoli. Si! Si! Si! Si! Si! Si! Si! Si! Si! Si!
Oh, ben inteso: mi spiace per quell’autista ma come dicevano i romani: MORS TUA VITA MEA!


                                              
Martedì, 08.55

Tutto scorre liscio. Il motore cinguetta come un canarino di 10 quintali. La giornata è perfetta. Le casse della radio diffondono un idioma a me incomprensibile. Viro il tuner su Virgin Radio. A un tratto la mia quiete interiore è disturbata da un improvviso quanto impellente bisogno fisiologico. Il cartello che arriva ora mi segnala che il primo parcheggio con wc disponibile è a 5 km. Non ci penso nemmeno di fermarmi in quei posti orrendi dove, a causa di certi cartelli con scritto: VI PREGHIAMO DI NON SPRECARE LA NOSTRA PREZIOSA ACQUA, aleggia un impressionante tanfo di piscio misto a miasmi fognari di antica memoria olfattiva.  Decido di fermarmi al Tank stelle di Bruchsal, delizioso paesino alle porte di Karlsruhe. Quest’area di servizio consta di circa 300 posti camion, tranquillamente accessibili di giorno ma DEVI ASSOLUTAMENTE RICORDARTI DI NON ENTRARCI DOPO LE 22! Perché? Perché durante la notte decine di camionisti morti di sonno s’infilano in quell’area di servizio, ormai priva di posti camion delimitati, parcheggiandosi DOVE CAPITA! E non dico dove capita tanto per esagerare. Ti può accadere (com’è capitato a me) di entrare per fare rifornimento alle 2 del mattino e riuscire a uscire alle 3.35 dopo aver fatto spostare, previo intervento della Polizia, almeno dieci camion compresi due trasporti eccezionali. In Italia, la Polizia, per telefono, mi avrebbe consigliato di farmi una dormitina, vista l'ora. In Germania no. Avrai sicuramente un buon motivo per creare tutto quel disordine. Avrai della merce che dovrà arrivare assolutamente a destinazione in qualche luogo remoto del paese. Magari un aereo ti sta aspettando sulla pista di decollo per caricare un delicato meccanismo che servirà a ripristinare la corrente elettrica in un ospedale del centro America dove quindici emodializzati sono in pericolo di vita. Nulla di tutto questo. Hai solo voglia di andartene da quella bolgia di zingari dell’est Europa. Fortunatamente la polizia non ti chiede nulla. Ti guarda solo dal finestrino e tu sfoderi l’espressione più preoccupata di questo mondo e sbatti le mani sul volante come se nello stesso tempo in quell’ospedale del centro america fossero già morte tre persone a causa di quegli imbecilli che non si tolgono e fai finta di telefonare a qualcuno dal tuo cellulare ormai spento da sei ore e prendi le tue bolle di scarico all’ interno delle quali sono descritte le varie tipologie di accendisigari per auto e le leggi e ti disperi e parli al cellulare spento con il comandante dell’ aereo che sta aspettando la merce e lo metti di fronte alle sue responsabilità in caso decidesse di partire senza il tuo prezioso carico mentre il poliziotto che ti sta guardando chiama il suo collega per farsi aiutare a spostare ancor più velocemente quei disgraziati che hanno osato parcheggiarsi in siffatta maniera per dormire e lo fa perché ha capito la situazione perché ha capito che tutto dipende dalla velocità con cui opereranno lo sgombero e poi l'ultimo...accelero...via libera...una, due, tre, quattro marce. Sono uscito. Il film è finito. Applausi. Titoli di coda. Darei una nomination per l'Oscar a quel gran attore che sono io.

                                      Martedì, ore 09.30

Ho appena oltrepassato Karlsruhe. Manca ancora un’ora e mezza all'arrivo. Tutto mi è familiare intorno. Sono quasi cinque anni che faccio questo viaggio. Mi pare di esserci nato in queste zone. Quando mi fermo in certe aree di servizio gli inservienti si rivolgono a me in tedesco, convinti che io li capisca per il solo fatto che da anni quando essi parlano io annuisco con uno JA o manifesto un diniego con un NEIN.
Chissà cosa mi sono perso. Chissà quante barzellette in cui avrei potuto ridere. E invece cosa dicevo anziché imparare la lingua? JA o NEIN. Vabbè, ormai è andata. Non posso mica dire a quella gente la famosa frase che tutti gli italiani usano e cioè: NICS SPRICHEIN DOICH che è la translitterazione italiana della frase in tedesco che significa NON PARLO TEDESCO. L'ho translitterata anche perché non saprei come scriverla correttamente (non ho un dizionario multilingue tra le mani). Mi ricordo che quando iniziai a fare la Germania, molti anni fa, avevo un’altissima considerazione del popolo tedesco. Lo consideravo esente dalla maggior parte delle piaghe sociali che normalmente affliggono il nostro paese fino al giorno in cui, durante una sosta tecnica per svuotare la vescica (per pisciare, per chi ha poca dimestichezza con i tecnicismi medici della lingua italiana) un allegro e senile signore sbucò da dietro l'alberello, che avevo deciso di usare per il già citato stimolo, con il suo pisellino in mano e un bellissimo sorriso stampato in faccia.
Ricordo di essermi scandalizzato moltissimo e che, nella fretta, di aver svuotato una considerevole parte del contenuto vescicale sulle mie Adidas nuove di trinca. Era crollato un mito. La Germania pullulava di finocchi (come avrei potuto constatare negli anni successivi). Quando risalii sul camion mi presi la briga di osservare il nonnetto gaudente. E a tragedia si aggiunse tragedia: quel vecchio uomo salì su un camion! Stava crollando il mito del machismo riservato alla nostra categoria? Dove era finito il camionista che avrebbe fatto la corte a qualunque donna compresa tua moglie? E se ancora c'era, dov'era? Sicuramente non in Germania, pensai. Mi resi conto solo mesi dopo che anche in Italia, all'interno di certi piazzali, dove una volta spopolavano
le morigerate donne bolognesi e le casalinghe inquiete di Rovigo ora facevano la loro porca figura (di merda) trans sudamericani e tranquilli manager insoddisfatti desiderosi di nuove esperienze.  Qual era il nesso tra questi soggetti e luoghi come quelli che per loro definizione servivano alla sosta notturna di veri uomini come i camionisti?
“ Sei d'accordo con me se dico che se sono li è perché qualcuno apre loro la portiera per farli salire a bordo?” - mi disse, con una punta di disgusto, un ex camionista.
La sua osservazione non faceva una piega. Il male era tra noi. Non misi mai più piede in quelle aree di servizio. Non esisteva più il camionista. Ora c'era solo l’autista di mezzi pesanti con le proprie inclinazioni sessuali. Non posso dare un giudizio obiettivo su questa faccenda. Ho visto troppe volte Convoy, trincea d'asfalto.


                                      Martedì, ore 11.30

E’ quasi ora di pranzo e il mio stomaco emette rumori gravi, molto simili al suono prodotto da una mucca imbavagliata e con le narici tappate la cui unica via di fuga, per l’aria, sia quella usata dal cibo nella fase finale della sua permanenza all’interno del suo organismo. Alzo la leva dell’indicatore di direzione destro ed entro nel parcheggio di un Autohof che, tradotto, significa Autoporto, luogo nel cui interno vi sono, in pratica, solo mezzi pesanti. Le vetture entrano a loro rischio e pericolo. Rischio perché le probabilità di trovare un posto adatto, nelle dimensioni a loro concesse, sono altissime. Pericolo perché se per caso dovessero posteggiare la loro vettura all’interno dei 17 metri riservati a un camion precludendogli quindi il parcheggio, l’incolumità di quella macchina sarebbe seriamente messa in discussione. Anche quella del guidatore. E non è per niente piacevole intraprendere una discussione con un camionista tedesco magari alto poco meno di una cabina telefonica, in pantaloncini corti perfino a venti sotto zero, con gli zoccoli ai piedi senza calze e che ha deciso di fermarsi PROPRIO LI’. Soprattutto quando quel camionista ha una cicatrice che gli attraversa il volto in perfetta diagonale dal quadrante sopraccigliare superiore sinistro allo zigomo destro, quasi coincidente con l’attaccatura del labbro inferiore. Dopo aver fermato il camion, scendo e mi dirigo all’interno dell’autohof per cercare di placare la fame. Dovete sapere che, a differenza dell’Italia, entrando in questi “autogrill” non assaporerete mai il delizioso effluvio del caffè che galleggia perennemente sulle molecole dell’aria; né tantomeno il fragrante profumo delle brioche appena sfornate. No. DIMENTICATEVELO! Qui, a qualunque ora del giorno e della notte, si sfornano patate lesse con intingoli alla senape ed estratti di radice, salsicce di tutte le dimensioni e forme, bistecche, zuppe, cacciagione varie con nomi talmente complicati da pronunciare a tal punto che, dopo esserteli ripetuti mentalmente almeno venti volte, per cercare di far bella figura ma soprattutto per ottenere il piatto desiderato, desisti. Usi il metodo napoletano: di brutto impatto visivo ma efficace. Attiri l’attenzione dell’addetto con una serie di “uè” oppure “oh” oppure “ehi capo” e poi con l’indice indichi con mestizia e indifferenza pilotata ciò che desideri. Ovvio che ciò che desidereresti sarebbe una bella pastasciutta al pesto, un’insalata di verdure, cipollotti e pomodori e una bella tagliata con rucola il tutto innaffiato da un Nero d’Avola a sedici gradi di temperatura in calice largo. Purtroppo sono in Germania. Paese che vai, cibo che trovi. Pazienza! Per oggi wurstel caldo con un po’ di senape e pane nero che sa di plastica.

                                      Martedì, ore 12.30

Dopo aver fatto scendere nello stomaco quella cosa che loro chiamano, con un eufemismo, cibo riprendo il mio viaggio. Sono quasi alle porte di Francoforte. Esattamente a Darmstadt, sede di una delle più grandi basi militari degli Stati Uniti.
Qui, come in Italia, gli americani sono di casa. Hanno portato di tutto: dai Mc Donald’s ai Drive In, dal cibo in eccesso all’eccesso di cibo, dall’alcol in eccesso all’eccesso di alcol, insomma ci hanno rotto le palle ma non lo sanno, anche se credo che sia più logico dire che lo sanno ma se ne sbattono le palle. Crediti di guerra. Loro ci hanno liberati e ora siamo loro prigionieri. Buon viso a cattiva sorte. Non che ce l’abbia con gli americani ma non credete anche voi che se l’America è così distante da noi sarà per un motivo oggettivamente sensato? Quale sia questo motivo non lo conosco ma io mi sento molto stanziale, geograficamente parlando, quindi reputo che non ci sia bisogno di una comunità americana in ogni nazione del mondo. Capisco gli interessi economici di un paese così vasto alla continua ricerca di petrolio per soddisfare il suo bisogno assurdo di energia atto a creare agio a tutti i costi diffondendo obesità, malattie cardio vascolari, malattie mentali e depressione tra i suoi abitanti. Ma con noi “che c’azzecca?”direbbe un noto ex magistrato ora leader politico. Non abbiamo scontato abbastanza la nostra voglia di grandezza, sfociata in una seconda guerra mondiale e costata milioni di vite umane? Quanto durerà ancora la presenza degli yankes e delle loro basi militari in Italia? E il Vaticano? Quando sarà fatto un referendum popolare nel quale si chieda espressamente se si voglia ancora o no il Papa in Italia? Perché non se ne torna ad Avignone in Francia? O magari in Svizzera a confabulare con il governo per un maggior rispetto delle quote di appartenenza dei capitali provenienti dai tiranni di tutto il globo. Eviterebbero un sacco di viaggi aerei essendo in loco. Dopo tutte queste elucubrazioni mentali, come d’incanto, mi trovo quasi a tangere l’aeroporto di Francoforte. C’è un aereo dell’Air India che sta atterrando. Mi passa sulla testa. Benvenuti in Germania, penso.


                                     Fine del viaggio, ore 12.45

Ho appena preso la B43 in direzione Kelsterback. Ormai conosco la strada a memoria: un rettilineo, un mezzo tornante, la deviazione per gli infiniti lavori di ammodernamento del terminal 2 dell’aeroporto, giri a destra, prendi lo svincolo che  “senonstaiattentotiribalti,” cambi tre marce, una leggera salita che ti costringe a scalare mezza marcia, subito un rettilineo che se fossi con la mia moto sarei a 200 all’ora in mezzo secondo e poi l’incrocio con l’unico semaforo. Giro a sinistra, 500 metri poi a destra “affronto” l’ultima rotonda e poi dritto fino alla dogana. Scendo dal mezzo e consegno i documenti. La bella Dominique sorride e mi annuncia che ci vorrà mezz’ora per sdoganare la merce. Infatti, mezz’ora dopo mi porta i documenti. Avvio il motore e mi dirigo verso la periferia di Francoforte. Il cartellone dell’IKEA mi ricorda che devo svoltare a destra e subito a sinistra. L’entrata dell’azienda è un varco un po’ angusto, dove devi stare attento a come entri a causa di un grosso sasso piantato nel terreno che potrebbe strusciare su tutte e tre le gomme destre del rimorchio. Consegno i documenti e lo posiziono con una manovra piuttosto difficile, ma che ormai è diventata semplice da tante volte che l’ho fatta. Sgancio, posteggio il trattore accanto ad un fabbricato proprio davanti all’azienda e vado a prendermi un caffè. Poi torno al trattore. Mi cambio e indosso le cose da jogging. Prendo un’aspirina, attendo gli effetti e inizio a correre. Il perimetro del parco del quartiere di Nieder - Esback è esattamente di 1500 metri. Lo farò 6 volte. Come tutte le settimane. E mentre correrò, penserò a tante cose. E tra le tante cose cui penserò, ci sarà sicuramente posto per qualche considerazione sulla mia vita. Su qualche cosa che avrei dovuto fare o che avrei dovuto dire. Quasi certamente qualche mio pensiero, seppur in maniera laterale, cadrà inevitabilmente su quello che avrei potuto scrivere. Peccato che quando corri tutte le tue energie, soprattutto quelle mentali, sono rivolte al mantenimento del ritmo che deve cercare di stabilizzarsi su quello del cuore. Il cuore.  Con il suo battito scandisce la tua vita ma non può far nulla affinché tu la possa vivere con dignità e senso del dovere. E’solo un muscolo che pompa migliaia di litri di sangue al giorno. A volte, prima di addormentarmi, mi domando spesso che senso abbia nascere, crescere, lottare per conquistare qualcosa e poi morire. Subito dopo mi viene in mente una vecchia battuta: vuoi far ridere Dio? Confidagli i tuoi progetti per domani! E’ così che mi addormento. Con un sorriso sulle labbra e la certezza di aver fatto quasi tutto quello che potevo fare. Socrate, nel suo Libro Quarto, scrisse: “ La vita è stata data con la riserva della morte”. C'è qualcuno che può dire di aver fatto tutto nella brevità di una vita? Sicuramente si, ma questa, per fortuna, è un’altra storia.
                                                                                                       Hal
                                                                          

domenica 5 dicembre 2010

                                             EMIKALIMA.

Per adesso sto incolpando il mio stato selvatico nei cieli di questa settimana. Il mio io galleggiante verso ovest giù intorno a Chiavari ha fatto il suo lavoro alle mie orecchie. Non avevo altra scelta che stare fuori a fare da baby sitter ai gatti lampeggianti e gonfi di cibo annacquato. Certo! Non potrà funzionare! E ho pensato che forse sono fatto per faticare. Per alimentare legna da ardere. Potrei aggiungere che ho sentito dire che i sentieri di Mezzanego hanno iniziato di nuovo i loro giochi di fango. Ma il mio dolore all’orecchio sinistro è molto distinto, è molto vibrante. L’ho tracciato con una linea. In un paio d’ore. Anche se centinaia di volte nelle notti di luna vuota ero abbastanza stanco per dormire qualche minuto. E’ un’energia che mi colpisce. Si chiama Emikalima. Si auto sostiene. Io posso discernere da lei o anche intuirla ma in questo momento, oh yeah, ho solo voglia di imbrogliare la mia tazza di caffè. Hal

venerdì 3 dicembre 2010

                            La decisione.


Dopo quell’ennesimo e furioso litigio, decisi che non avrei mai più partecipato ad un altro. Quindi mi alzai e andai in camera a vestirmi.

“ E ora cosa fai? Torni a dormire? Ma certo, dimenticavo, è l’unica cosa che ti riesce meglio: DORMIRE!” - urlò lei.

Mi sedetti sul letto e infilai le calze; erano belle, forse le cose più belle che avessi mai posseduto.

“ Guarda che pancia hai! Fai schifo! Ti credi di piacere a una donna? Credi veramente che, in tutti questi anni, io sia rimasta con te perché mi piacevi? Ti sbagli se la pensi così; sono rimasta perché mi facevi pena, perché nessun’altra avrebbe osato starti accanto!”.

Cercai i pantaloni e scelsi quelli blu a righe chiare. Mi erano sempre piaciuti perché non cadevano eccessivamente sulle scarpe.

“ Guardatelo il culone! Ma come ti vesti bene! Vai dalla tua amante? Oppure vai dalla tua mammuccia a piangere e a dirle di quanto sei infelice?”

Si! Erano proprio belli, ma stringevano un po’. Avrei dovuto perdere qualche chilo. Infilai la cintura nei passanti e la serrai.

“ Non vali nulla, non sei nessuno! Sei solo capace di mangiare, bere e leggere quegli stupidi fumetti!”.

Presi un maglione e ci saltai dentro.

“ Sei un pazzo! Dovresti farti curare. Lo dico per te, per il tuo bene. Nessuno dorme con la luce accesa e la radio pure per tutta la notte! Nessuna donna potrà mai sopportarti; a meno che tu faccia come fai ora che dormi in una stanza per conto tuo.”

Aprii un paio di cassetti e cercai la mia sciarpa di lana. Ci ero affezionato. Aveva più di vent’anni ma avvolgermela al collo era come indossare un amuleto. Lo feci con un gesto liturgico.

“ Ti credi che non sento, la notte, quando ti alzi e ti siedi in cucina per delle ore? Ti ho anche visto una volta con una coperta sulle spalle che scrivevi. Ma a chi scrivi se non hai amici? Il bello è che non ti frega neanche di averli! Sei un malato di mente.”

Tirai giù dall’armadio il mio giaccone imbottito e lo indossai.
“ Dammi retta, Hal…fatti vedere da uno specialista. Tu hai dei problemi, dei grossi problemi!”.

Uscii dalla camera e attraversai il corridoio lentamente. Aprii la scarpiera che stava nell’entrata ed estrassi le mie scarpe da ginnastica: erano vecchie e logore ma quando le avevo ai piedi mi sembrava di camminare su una nuvola. Me le infilai delicatamente, ma ben deciso a spingere con forza nel caso avessi trovato resistenza. Pensai che quella procedura aveva un nonsoché di erotico e che mi aveva sempre procurato brividi di eccitazione.

“ Non sei nemmeno in grado di vestirti! Hai visto come ti sei conciato? Devi ancora uscire e sembri appena tornato da una corsa di 100 km!”.

Allungai il braccio destro e impugnai la maniglia della porta. Premetti il pulsante e tirai. La porta si aprì cigolando.

“ Ma si…vattene, vattene. Non hai nessuno a cui chiedere aiuto! Tu lo sai bene. Nessuno ti sopporta! Sei  un essere a parte…sei come una bottiglia vuota!”.

Scesi le scale e nell’aria avvertii ancora l’odore di fritto della cena di qualcuno. Aprii il portone e fui fuori. Iniziai a camminare. Non guardai indietro.

“ Dove dormirai?  - urlò dalla finestra - Non senti che freddo fa? Finirai come un barbone. Morirai da qualche parte, in qualche brutto posto, solo e abbandonato…come piace a te!”.

La strada era leggermente in discesa. Dovetti fare attenzione a non scivolare. Non guardai indietro.

“ Sei solo un maledetto figlio di puttana!! - urlò con tutto il fiato che poté.

Poi sentii la finestra sbattere e subito dopo il silenzio. Lo assaporai. Non guardai indietro.
La luna, terrea, era nel cielo. Le stelle intorno a lei. Mi fermai ad osservarle: era strano…non le avevo mai viste brillare in quel modo. Poi, mi ricordai che erano più di 15 anni che non le guardavo. Decisi di rimanere ancora un po’ a testa all’insù.

Doveva essere passato parecchio tempo poiché il collo mi doleva. Abbassai lo sguardo.
Lassù l’infinito, quaggiù i muri imbrattati della città. Lassù poesia, quaggiù desolazione e miseria umana.
Faceva freddo. Molto freddo. Misi le mani in tasca, cercai di far rientrare, per quanto possibile, il mio viso sotto la sciarpa. Più o meno come fanno le tartarughe quando sono in pericolo. Continuai a camminare. Non guardai indietro. Entrai nel buio di un vicolo che mi inghiottì.


                                                                                              Hal
                                      Discorso.

Dimmi una cosa:
perché continui a restare con me?
Non sono nessuno,
anche se ho studiato tanto per esserlo,

il bello è che non mi interessa nessuno
e
a parte questo
non ho quasi interesse per nulla
se non per ciò che scrivo;

inoltre sono molto soprappeso
e ho tagliato i capelli quasi a zero

( ti ricordi come li avevo lunghi?)

e il pretesto quale è stato?

Che avevo paura di diventare il loro schiavo.

Invece Tu sai che non è così.

L’ho fatto per sembrare un altro,
per dare un calcio al passato.

Cosa c’è?
Non mi credi?
E’ inutile che mi guardi con gli occhi sbarrati
e la bocca aperta!
Non fare la finta tonta!

E come se non bastasse
ho i peggiori difetti di questo mondo
e di qualche altro ancora…

Per esempio: russo!

Chissà quante volte ti ho svegliata
senza che mai tu mi disturbassi
anche solo una volta!

Me lo chiedo sempre più spesso: come fai a reggermi?
Devi essere una specie di santa
o giù di lì!

Sopporti anche la mia ossessione per la pulizia
e non ti arrabbi mai quando,
entrando in casa,
mi senti urlare di non sporcare il tappeto rosso…

è che ci tengo tanto…

mi ricorda del mio ultimo viaggio in India.

Mi chiedo
come puoi tollerare il fatto
che mai una volta sei riuscita a mangiare
in un orario decente:

sempre in ritardo ( la cena di notte)
o sempre in anticipo ( la colazione di notte).

Tutto questo a causa del mio lavoro.

E che dire
di tutte le notti
che dopo un incubo
corro davanti alla tastiera del mio PC
per tentare di trascriverlo;

mentre tu
ogni volta
ti alzi e ti siedi accanto a me,
osservandomi in silenzio,

che picchio su quei tasti
come un pazzo!

Sei veramente unica!

Mi viene da ridere al pensiero
della mia ex moglie che diceva
che non poteva esistere qualcuna in grado di sopportarmi!

E invece…eccoti qua,
scesa dal cielo,
tutta per me!

Cosa vuoi ora?

Vuoi uscire?

Lo sai che è molto tardi?

E’ quasi mezzanotte!

O.K., O.K., andiamo…

Questo discorso possiamo continuarlo anche fuori.

Però,

TI PREGO,

mentre scendiamo le scale,


NON ABBAIARE!!!


                                                                                     Hal
                            Dimentica.

Ora ti insegno:
fai così:
raccogli e conserva le immagini del mondo.

E' un vergognoso spreco
lasciare che svaniscano
ogni giorno
davanti a noi.

Si chiamano ricordi.
Tutti li hanno.
Tranne i morti.

Anch'io faccio lo stesso:
prelevo dal mondo

                                                                  i suoi colori
                                                                  i suoi suoni
                                                                  e gli odori

li sottraggo al genere umano
che non mi interessa,
che mi rattrista,
che mi disgusta

e li fisso nella mente.

Dopo quest'operazione
a volte piango
e

...ripenso a Garueb,
il mio amico immaginario
che rimase con me per tanti anni,
e al nostro correre scalzi sulla ghiaia
con il sangue che usciva sotto i piedi solo a me.

“ E' rosso, vedi? - diceva – Ricordalo!”
...ripenso alla mia povera nonna
che piangeva seduta al tavolo,
la sera
con le bollette da pagare in mano.

“ Come faremo a tirare avanti? Come faremo?” - diceva.

Io la guardavo e me ne andavo a letto.
E sotto le coperte tremavo.
Avevo capito di essere povero.
Avevo capito che la mia vita sarebbe stata dura.

...ripenso a Matteo
che, credendo di poter volare,
si lanciò dal 4° piano
e si sfracellò al suolo

con il suo sangue
che rimase per molto tempo
sul cemento del cortile dove giocavamo.

...ripenso
a quella volta che in Francia
durante una giornata di pioggia
una macchina uscì di strada e si capovolse
e io corsi verso quella macchina
e dentro c'erano 2 bambini che urlavano
terrorizzati
e al volante la loro madre con il collo spezzato.

Ricordo i loro volti.
Ricordo la pioggia sul mio viso.
Ricordo il gelo che scese nel mio cuore.

Ora ti insegno:
fai così:

cerca di ricordare solo le cose belle
anche se è impossibile.

Tutti ricordano.
Tranne i morti.

Silenziosi protagonisti
dei ricordi di qualcun altro.

Anche loro avevano il dolore dei ricordi.
Ma nella morte l'hanno dimenticato.

I morti.


Loro si che la sanno lunga.




                                                                  Hal
                            Dedicato al Milite ignoto.

Nessuno saprà mai quando nacque.
Né come trascorse quel poco che visse.
Ma tutti sanno come morì.

Fu durante una guerra,
sanguinosa e cruenta,
fatta per difendere i sacri confini di una patria,
che nulla gli aveva dato,
se non sogni di vittoria
e incerte certezze.

Era
quasi sicuramente
poco più di un bambino
e la paura lo faceva tremare
anche sotto il sole cocente.

Aveva tra le mani un fucile,
che spesso si inceppava e vestiti inadatti per affrontare l’inverno della montagna.

Ma gli ordini che riceveva erano sempre precisi e chiari:

- AVANZARE E RESISTERE! A COSTO DELLA VITA! -

La Sua vita.

E lui camminava con il fango alle ginocchia
e il morale nella scarpe.

Probabilmente non sapeva nemmeno
a chi doveva sparare.

Com’era il nemico?
Molto diverso da lui?

Aveva capito, però,
che per non morire
bastava stare in trincea,

seduto,
tremante.

I giorni passavano.

Bisognava resistere.

Anche senza cibo.
Anche senza acqua.

Ma tu eri forte,
avevi la gioventù dalla tua parte.
La patria si era affidata a te.
Non potevi deluderla.
Bastava non fare come i tuoi compagni che,
distrutti dalla febbre,
dalla fame
e dalla paura

si alzavano
e camminavano verso il nemico.

Ogni volta che uno lo faceva,
aspettavi i colpi del fucile
che avrebbero messo fine
a quella misera esistenza.

Era semplice smettere di soffrire: dovevi alzarti e camminare.

Ma tu hai resistito.
E quando intorno a te
c’erano solo cadaveri
hai pensato
che veramente saresti riuscito a tornare a casa.

Se solo avessi finto di esser morto.

Ma
quando hai sentito
qualcuno avvicinarsi a te,
hai creduto che la tua patria
ti avesse mandato l’aiuto
di cui tu avevi bisogno…

e hai urlato la tua disperazione,
con quanto più fiato avevi in corpo.

Invece
hai incontrato altri ragazzi.
Proprio come te.
E per loro TU eri il nemico.
Un nemico stanco,
assetato,
affamato,
senza munizioni e terrorizzato.

Quando i vostri sguardi si sono incrociati,
abbozzasti perfino un sorriso.

Ma non per renderti simpatico,
perché finalmente
potevi vedere chi
da mesi
avevi odiato
anzi,
chi ti avevano detto di odiare.

Era colpa sua se ti trovavi lì.
Lontano da casa e nel fango.
Senza tener conto che anche per lui era la stessa cosa.

Solo che lui aveva avuto un po’ più di fortuna.

Mentre ascoltavi la sua incomprensibile lingua, sembravi felice.
Non tremavi più.
La fatica era svanita.
Sapevi che in un modo o nell’altro te ne saresti andato da lì.

I tuoi pensieri si interruppero
quando sentisti un rumore metallico.

Lo conoscevi bene.

Era lo stesso rumore
che faceva il tuo fucile
quando finalmente riuscivi
a mettergli un colpo in canna
dopo svariati tentativi.

Ma mai col primo, come aveva fatto lui.

Lo guardasti negli occhi, quando prese la mira.
Poi, chiudendo i tuoi, cercasti quelli di tua madre.

Per l’ultima volta.



Ora sei un eroe.

Da decenni, due soldati, con una bellissima divisa, stanno a fianco a te.

Ogni ora del giorno e della notte.

Sia che piova.
Sia che nevichi.

E la tua patria, ogni anno, celebra una sontuosa festa in tuo onore.

Ora sei il simbolo
di tutti quelli che morirono
senza che qualcuno
sia riuscito mai a dar loro un nome.

A Voi. Ragazzi della nostra terra.
A Voi. Eroi di una patria che vi abbandonò al Vostro destino.

Lassù.
Sulle montagne.

Nel più profondo inferno.

A due passi da Dio.



                                                                                     Hal
                                Vanità.

Ti stai truccando,madre mia
e intanto tossisci
e mi dici che hai sempre la febbre alta.

Ti stai truccando
e lo specchio ti rimanda
un'immagine a cui non eri più abituata
e continui a tossire
mentre ti osservo dalla cucina
dietro a un tavolo
con sopra farmaci di ogni genere.

Ti trucchi
per cercare di lenire
quelle rughe che scavano il tuo volto
per cercare di mascherare la tua sofferenza.

Mi ricordo di com'eri bella
e tu, come se avessi percepito il mio pensiero,
mi domandi: “ ti ricordi com'ero bella?”.

Annuisco e sorrido.

Un vento freddo
si infiltra dalla porta del salotto
e fa sbattere una finestra.
“ Chiudi, che c'è corrente - urli – mi manca ancora una polmonite!”.

Attraverso il corridoio e chiudo la porta.
E' ottobre.
Due giorni fa mi hanno detto che non vivrai ancora per molto.
E l'hanno detto anche a te.

Ma tu
con incredibile attenzione
ti stai truccando                                                                                                                 

                                                                                                     Alva.

giovedì 2 dicembre 2010

                            Malinowski (il poeta).


...ti ho incontrato
una sera d’estate
a San Sebastian

nel nord della Spagna;

stavi seduto su  una piccola sedia di tela sporca,

e al tuo fianco avevi una specie di bancarella
su cui campeggiavano i tuoi libri e le tue fotografie...

mi ha affascinato la tua lunga barba ben curata,
il modo in cui stavi seduto, con la gamba sinistra sopra il ginocchio destro;

avevi delle scarpe molto vecchie, ma pulite e lucide...

 leggevi  un libro (non tuo) sulla rivoluzione spagnola...

davi l’impressione di essere molto assorto
e la gente che passava si chiedeva (compreso me)
come facevi ad essere così impassibile
di fronte al caos che regnava tutt’intorno...


...e ho pensato: - vecchio lottatore, è un privilegio guardarti, per me,
a quest’ora della sera,

che scorre come acqua,

mentre gli alberi, illuminati dalla luna, si rifrangono nei miei occhi spenti
come vecchi fari
incagliati tra scogli secolari...

ah, se solo Dio fosse qui,
ad assaporare
il mio sublime stato di contemplazione
tra acqua, cielo, sabbia e chi mi sta di fronte...

creature instabili
si aggirano nervosamente
come sciami di vespe
intorno a me

Ma tu no, Malinowsky, tu sei nel tuo personale nirvana...

e io ti guardo
mentre con fare saccente
ti sfogli, con cura, un libro
di cui,probabilmente, non ti interessa nulla.

Dove sono i tuoi pensieri?

Dov’è l’uomo che sà quel che vorrebbe avere?

Dov’è il profeta di se stesso?

I poeti muoiono bambini o troppo vecchi;

e in entrambi i casi
il tempo a loro disposizione
è sempre poco
per quello che vorrebbero dire.

Ma Tu no!

Tu, Malinowsky, di cose ne hai dette
anzi ne hai scritte...

ma soprattutto ne hanno scritte su di te,
il poeta girovago
che viaggia in solitudine
che scrive villanie sui potenti
che stringe la mano a Picasso
che espone decine di fotografie
che lo ritraggono sempre a fianco di qualcuno che conta...

Malinowsky...il poeta di strada
che legge assorto l’ultimo capitolo di un libro
da quattro giorni
sempre a pagina 345...

e la gente che passa
ti ammira come un quadro di Dalì,
incapace di frenare la loro ammirazione
per cotanta plasticità...-
E’ questo ciò che ho pensato
davanti a Malinowsky.

Davanti al suo libro “ VIENTO”
e al suo ultimo “VIENTO 2”.

Davanti a tutto ciò che aveva.

Davanti a una bancarella,
dodici fotografie,
otto libri stampati male,
un sacco di fogli scritti a mano,
tre lampadine da 80 watt che illuminano il tutto,
una sedia di tela sporca

e un anziano poeta;
seduto con la gamba sinistra sopra il ginocchio destro,
con una barba ben curata,
due scarpe vecchie ma pulite e lucide,

che legge un libro (non suo),
con aria assorta,
da quattro giorni,

sempre a pagina 345.                                        

                                                                


                                                                                     Hal