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web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

sabato 24 settembre 2011

A Shakleton

Sei partito dall’Inghilterra nel ’14.
Volevi attraversare a piedi l’Antartide.
Sapevi di essere il primo a tentare di farlo.
Ma l’Endurance
la nave sulla quale viaggiavi
rimase intrappolata dai ghiacci e affondò.
Hai deciso di lasciare la maggior parte dei tuoi uomini
in una specie di campo sul ghiaccio
e sei  partito
alla ricerca di soccorsi
in direzione della Georgia Australe
con una scialuppa
e 5 marinai coraggiosi.
Hai lottato contro onde oceaniche
burrasche
e venti micidiali.
Alla fine sei approdato su un isola
con montagne alte e ghiacciai.
Hai lasciato ancora 3 uomini
in un altro campo
e scalato una montagna
con i restanti 2.
Dopo aver raggiunto una base baleniera
hai fatto partire i soccorsi
che per due volte sono falliti.
Solo al terzo tentativo
2 anni e 10 mesi dopo la partenza
sei riuscito a portare in salvo tutti i tuoi uomini.
Tornato in patria eri un eroe
e il tuo buon amico Raymond
il fondatore dello Scott Polar Institute  scrisse su un giornale:

“Mettete Scott a capo di una spedizione scientifica e  Amundsen per un raid rapido ed efficace. Ma quando siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita, inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton!”

Dopo aver letto
gettasti il giornale a terra
e lanciasti un’occhiata
oltre la finestra del tuo studio.
Pioveva forte
e l’acqua lavava le strade
con forza inaudita.

“ Sono ancora vivo” – pensasti
“Ancora vivo!”

Delle gocce caddero sul pavimento.
Non era pioggia.
I tuoi occhi
finalmente
nel silenzio della solitudine
non obbedirono ai tuoi ordini.
.

Alvaro.

martedì 20 settembre 2011

Considerazione 2

Procedo molto lentamente, perché la natura è per me estremamente complessa, e i progressi da fare sono infiniti. Non basta vedere bene il proprio modello, bisogna anche sentirlo con esattezza, e poi esprimersi con forza e chiarezza.

Considerazione 1

Ho una sensazione lieve, ma non riesco ad esprimerla. Sono come uno incapace di usare la moneta d'oro in suo possesso.

sabato 17 settembre 2011

A Livingstone.

Io che non sono
mi chiedo
se la tua lontananza mi lascia indifferente.
Quel che mi strugge
però
è il dolore che
acuto
dentro di me
riposa.

Si è consumata
l'ardente preghiera di pochi attimi
che il mio vecchio padre Neil
fece salire al cielo.

" Aiutalo, o mio Signore! E' così giovane!"

Camminai dritto e forte
per tutti gli anni che mi furono concessi
e in un piovoso giorno di maggio
vecchio e canuto
nell'Africa che avevo tanto amato
mi addormentai nella morte.

Io che ora
non sono più mi chiedo:
la mia lontananza
caro amico Stanley
ti lascia indifferente?

" No, i suppose!"

Hal

giovedì 15 settembre 2011

L'appuntamento.

Era una bella e fredda mattina d’inverno in mezzo a quelle montagne. Direi anzi gelida. La notte appena trascorsa aveva ghiacciato completamente il laghetto antistante alla loro capanna.
Gli alberi intorno erano carichi di neve che ne appesantiva i rami e li piegava fin quasi a spezzarli. L’uomo si alzò dal suo giaciglio di fieno ricoperto di stracci per primo. Aprì con fatica la pesante porta di legno e si diede da fare per rimuovere la neve che vi si era ammassata contro durante la notte. Quand’ebbe finito diede una lunga occhiata intorno e rientrò. La sua donna tossiva. L’aria era viziata e puzzava, ma non si poteva far entrare freddo perché il loro bambino stava ancora dormendo. Entrambi si diedero da fare per accendere il fuoco. Quando la fiamma iniziò a crepitare, intorno a loro si levò del fumo. L’uomo prese una grande pezza di pelle di capra ed iniziò a sventolarla affinché deviasse verso la piccola apertura a mo’ di camino posta più in alto. Il fuoco aveva preso bene ed il fumo si era dileguato.
Ora il calore stava accarezzando ogni cosa intorno.
L’uomo agguantò una specie di pentola ed uscì nuovamente. La riempì di neve comprimendola per bene con forti schiaffi. La donna mise sul fuoco la pentola e trasformò la neve in acqua e poco dopo in acqua calda. Quando iniziò a bollire versò all’interno delle frattaglie di pollo e capra mescolando con un corto pezzo di legno, aggiunse qualche manciata d’erba e pezzi di frutta ormai secca. Il bimbo si levò e corse prima dalla mamma che gli diede un bacio sulla fronte e poi dal padre che lo prese in braccio e lo strinse forte. Poco dopo tutti e tre consumarono la loro colazione. Era una grande fortuna, per quei tempi ed in quei luoghi, poter iniziare la giornata con lo stomaco così pieno, ma l’estate passata l’uomo l’aveva trascorsa a far scorte di cibo e pelli quindi, più che fortuna, direi la conseguenza logica di un duro lavoro. Quasi subito dopo la donna fasciò il bimbo di stracci e pelli e gli mise un copricapo che lo faceva assomigliare ad un piccolo bisonte.
L’uomo era già fuori che controllava il tetto della piccola casa. Uscì di corsa anche il bambino giocando allegramente sulla neve mentre il sole splendeva, riflettendo i suoi meravigliosi giochi di luce ovunque.
Il silenzio regnava e le montagne intorno a loro parevano proteggerli. Avevano tutto ma erano soli. Da troppo tempo. Così quel mattino la donna vide il suo uomo guardare insistentemente la montagna più bassa. Prese il piccolo in braccio e con il capo chino si sedette su una grossa pietra sotto ad un albero. Aveva capito. Poco dopo lui rientrò. Si legò delle pelli sul corpo; si avvolse i piedi con della paglia tenuta ferma da stracci ed assicurata alle caviglie da piccole funi.
Mangiò abbondantemente e si riempì una sacca di cibo.
Parlò con la donna e lei lo abbracciò. Poi prese in braccio il bambino e stette a spiegargli il perché questa volta non potevano uscire insieme. Poi lo appoggiò delicatamente a terra. Si inginocchiò. Infilò una mano nella sacca ed estrasse un frutto. Glielo porse con la promessa che sarebbe tornato presto. Poi si rialzò ed uscì.
La neve cedeva al suo peso ed il ghiaccio scricchiolava. Si voltò un paio di volte e salutò la sua famiglia. Poi, guardando la montagna, sorrise al pensiero di quando avrebbe trovato qualcuno oltre di essa. Il suo passo era deciso. Le sue gambe forti. Voleva far presto. Era certo di non essere solo. Sarebbe tornato dalla sua donna e da suo figlio. Nella sua casa. Avrebbe passato l’inverno a raccontar loro della gente che vive oltre la montagna.
Solamente si stupiva di aver preso quella decisione proprio ora, in pieno inverno e da solo. Era come se una misteriosa forza invisibile lo attirasse a sé. E qualcuno o qualcosa lo attendesse.
Non poteva sapere che quella montagna, testimone immobile di milioni di inverni, aveva deciso di scegliere proprio lui per regalargli l’eternità ed un posto nella storia.
In quella splendida mattina
su quella montagna
a Similaun.

Hal

Una strana favola.

Non c’era una volta
una principessa
che attendeva il suo principe azzurro.

Non c’era nemmeno
una bambina vestita di rosso
che attraversava un bosco
per andare dalla sua nonna
con la paura del lupo cattivo.

Né tantomeno c’era
un burattino che diventò bambino
per il volere di una fata.

O un drago sputafuoco
a difesa di un castello.

O un gatto che indossava stivali magici.

O una pianta di fagioli che cresceva a dismisura.

O sette nanetti che cercavano chissacosa in una miniera.

O un bambino che volava
alla ricerca di un’isola che non c’è.

Non c’era una volta.

Non c’è mai stata.

Se non nella furba fantasia
di qualche scrittore morto di fame.

C’era una volta,
quella sì,
la loro povertà:

misera,
terrena,
puerile.


E siamo qui riuniti
in questa poesia,

per seppellirla.

Per la seconda volta.

Tutti insieme.



Felici e contenti.

                                                                                         

                                                                                                  Alvaro.

mercoledì 14 settembre 2011

Clochard.

Era una mattina come tante a Cornigliano. I postumi della sbronza lo martellavano. La notte era stata orribile in quella stanza lurida. Gli incubi si erano alternati a risvegli da capogiro. Aveva vomitato sul pavimento e su se stesso. La puzza era nauseante. Indossava, come sempre, il suo impermeabile beige, ormai consunto dagli anni e dalla sporcizia. La barba, incolta e lunga, gli pendeva dal mento come una triste appendice. Il volto, scavato dall’alcol, aveva ancora discreti lineamenti che gli conferivano un’aria quasi nobile. Gli occhi, di un azzurro chiaro, contrastavano con tutto il resto, regalando un’impressione di pulizia e vivacità intellettuale a chi li incontrava. Il suo sguardo, profondo e sofferente, era di chi aveva tanto vissuto e molto sofferto.
Si alzò faticosamente da un materasso lercio, raccattato chissà dove, e si guardò intorno come non aveva mai fatto.
Accatastati lungo i muri di quella stamberga vi erano decine di copertoni d’auto che servivano ad isolarlo dal freddo esterno; cassette di legno per verdure, cartoni grandi e piccoli, bottiglie vuote e un carrello da supermercato erano sparsi ovunque. Un contenitore di plastica verde accoglieva i suoi escrementi, proiettando in quell’interno terribili segni della sua presenza.
Quando fu ritto in piedi barcollò scaricando il suo peso ad un grosso tubo arrugginito all’interno del quale, un tempo, quasi sicuramente, scorreva dell’acqua.
Girò lo sguardo a fatica in direzione di un frammento di specchio, incastrato tra le crepe del muro, squadrandosi per molto tempo.
Quel triangolo irregolare rifletteva un’immagine che non era esaltante.
Si chinò leggermente, afferrò una bottiglia appoggiata lì da chissà quanto tempo e, con un gesto lento ma deciso, la fracassò sullo specchio.
L’immagine scomparve. Una scheggia gli procurò un taglio sulla mano destra e il sangue iniziò a colare; prima piano poi sempre più copioso.
Stette ad osservare quella ferita. Prese un vecchio calzino sporco e semi rigido e se la fasciò. Si diresse verso la porta e le assestò un calcio. Fece un passo e fu fuori.
Il gelo esterno si aggrappò a lui facendolo rabbrividire. Tirò su il bavero del suo impermeabile e si soffiò fiato caldo all’interno delle mani messe a mò di coppa. Intorno a lui c'era una Cornigliano  gelata, piante spoglie e pozze d’acqua ghiacciate. Diede un’ultima occhiata a quella baracca che si era costruito tanti anni prima, si voltò e iniziò ad allontanarsi.
Aveva deciso: se ne sarebbe andato. Non sapeva dove ma camminando si sarebbe riscaldato. Il terreno brullo ed impervio metteva a dura prova le sue scarpe zeppe di buchi e strappi ma, in quella mattina, ricominciò a pensare.
Era tanto che non riusciva a farlo occupato com’era a bere, a subire umiliazioni dagli altri e a far sì che la vita continuasse a scorrere dietro a lui per affrontare un altro giorno, per interpretare un altro atto della sua personale commedia, nell’attesa che calasse il sipario. Gli venne in mente di quando era bambino. CERTO!! Lo era stato anche lui; anche se tantissimo tempo prima.
Ma cosa gli era successo? Inutile cercare di ricordare! Era tutto annebbiato nella sua mente…come quella mattina.
Aveva avuto una famiglia? Una casa? Dei figli?
Ma a chi sarebbe interessato questo? Avrebbe cambiato qualcosa nella sua vita?
Continuò a camminare fino a che arrivò accanto ad uno scambio ferroviario all'altezza di Sestri Ponente. Si sedette proprio davanti dove c’era un piccolo avvallamento fatto a culla, quindi si sdraiò. Il freddo pungente lo avvolse ma i suoi occhi azzurri splendevano. Come un piccolo squarcio di cielo in quel mattino grigio e ventoso.
Era intenzionato a riposarsi un po’, prima del passaggio del treno merci. Allora si sarebbe alzato e, mentre il treno rallentava, sarebbe salito. Se ne sarebbe andato via. Per l’ennesima volta. Come sempre.
L’aveva fatto centinaia di volte. Solo che ora si sentiva stanco. Voleva riposare solo un attimo.
L’avrebbe sentito il treno. Avrebbe sentito il suo lungo fischio.
Ce l’avrebbe fatta anche questa volta.
Così, lentamente, chiuse gli occhi lasciando che quell’azzurro scomparisse in lui.


Poco dopo il treno fece capolino all’orizzonte. Lentamente si avvicinò e con un lunghissimo fischio avvisò quel pezzo di mondo della sua presenza.
Quando passò accanto al vecchio sdraiato, fece vibrare il terreno sotto di lui e il vento, dovuto allo spostamento d’aria, gli scompigliò la lunga barba.


Ma l’anziano uomo aveva iniziato il suo più lungo viaggio con qualcosa di diverso sul viso. Qualcosa che sembrava un sorriso.

Chissà quale sarà stato il suo ultimo sogno.
O era appena iniziato?
Nessuno l’avrebbe mai saputo.
E a nessuno sarebbe mai interessato.


Il treno scivolò nuovamente a levante mentre tutt’intorno calò il silenzio.
Un silenzio così assordante che nemmeno l’urlo dell’intero genere umano sarebbe riuscito a sovrastare.



Alva.