Alva era nervoso. Scese le scale a tre gradini alla volta
allo stesso modo di come lo faceva da bambino, in quel vecchio casermone al 42
di via A. De Gasperi, con il palmo della mano destra che scivolava sul
mancorrente, pantaloncini corti, canottiera un po’ sbrindellata e il pensiero
che era già su quella collina sulla quale, da lì a non molto, avrebbe scaricato
tutta la sua energia repressa rincorrendo un pallone e sudando come un vitello.
Ma non era più un bambino. Aveva 50 anni, i capelli grigi, una montagna di
vita fangosa e puzzolente alle spalle e due figli sparsi chissà dove. Due
parti della sua esistenza che non sapevano nemmeno se era vivo o morto. Alva
quel pomeriggio stava pensando a cose importanti. Erano anni che studiava la
Bibbia e proprio quel mattino aveva letto la seconda lettera di Giovanni. I
versetti dal 9 al 11 recitavano così: “ 9 Chiunque va
avanti e non rimane nell’insegnamento del Cristo non ha Dio. Chi rimane in
questo insegnamento è colui che ha il Padre e il Figlio. 10 Se
qualcuno viene da voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e
non rivolgetegli un saluto. 11 Poiché chi gli rivolge un
saluto partecipa alle sue opere malvage.”
Alva sapeva molto sull’apostolo. Innanzitutto
doveva essere originario della Palestina e abitarvi, come si desume dalla
profonda conoscenza del paese. I particolari relativi ai luoghi menzionati
dimostrano che li conosceva personalmente. Parla di “Betania al di là del
Giordano” e di ‘Betania vicino a
Gerusalemme, inoltre scrive che presso
il luogo dove Gesù fu messo al palo c’era un orto con una tomba commemorativa
nuova e che Gesù parlava “nel luogo del tesoro mentre insegnava nel tempio” e
che “era inverno, e Gesù camminava nel tempio sotto il colonnato di Salomone”.
Inoltre non c’era nessuna ragione per dubitare che Giovanni abbia scritto
questa lettera. Lo scrittore si definisce “l’anziano”. Questo si addice certamente
a Giovanni non solo a motivo della sua età avanzata, ma anche perché, essendo
una delle “colonne” e l’ultimo apostolo
ancora in vita, era davvero un “anziano” della congregazione cristiana. Egli
era ben noto, e non occorreva nessuna ulteriore identificazione per i suoi
lettori. Che lo scrittore sia lui è evidente anche dalla somiglianza di stile
con la prima lettera e con il Vangelo di Giovanni. Come la prima lettera,
sembra che anche questa sia stata scritta a Efeso, o nei pressi, verso il 98 E.V.
Riguardo a 2 e 3 Giovanni, un’enciclopedia osserva: “Dalla loro
generale somiglianza, possiamo supporre che le due epistole siano state scritte
poco dopo la prima Epistola da Efeso. Tutt’e due applicano a singoli casi di
condotta i princìpi che erano stati estesamente trattati nella prima Epistola”.
A sostegno dell’autenticità di questa lettera c’è il fatto che essa è citata da
Ireneo, del II secolo, e che fu accettata da Clemente Alessandrino, dello
stesso periodo. Le lettere di Giovanni sono inoltre elencate nel Frammento
Muratoriano.
C’era però un’incertezza sulla traduzione
resa della parola “saluto” nel versetto 11. Gli scrittori delle ispirate Scritture
Greche Cristiane si preoccupavano di trasmettere il loro messaggio in modo
comprensibile a tutti, perciò non ricorsero alla lingua greca classica, ma alla
koinè. Quegli scrittori erano tutti ebrei. Pur essendo semiti, non
intendevano divulgare il semitismo, ma la verità del puro cristianesimo e per
mezzo della lingua greca potevano raggiungere più persone; potevano meglio
assolvere l’incarico di fare “discepoli di persone di tutte le nazioni”. Inoltre
la koinè era un ottimo strumento con cui potevano esprimere bene i
difficili concetti che volevano spiegare. Con il loro messaggio gli scrittori
cristiani ispirati conferirono alla koinè forza, dignità e calore. Nel
contesto delle Scritture ispirate i termini greci assunsero un significato più
ricco, più pieno e più spirituale.
Per farla breve la parola “saluto”, tradotta dalla
Khoinè significava rallegrarsi ed era resa KHAIRO’ mentre l’ideologia comune
voleva che fosse tradotta come un ciao o un buongiorno e quindi KHAIRE’. Ad uno sterminato
numero di persone la questione non sfiorerebbe nemmeno un ‘infinitesimale parte
dell’ultimo neurone preposto per il ragionamento ma, per Alva, si ergeva ad
un’importanza storica, uno di quei quesiti da dipanare molto velocemente a
dispetto dei secoli trascorsi nell’assenza della conoscenza soggettiva di cosa
avrebbe cambiato una diversa traduzione.
Una volta arrivato sulla strada, Alva si immerse per
un attimo in tutti quei libri di Diritto Canonico e le reminiscenze di Liceo
Classico che avevano suggellato , anni prima, una laurea “cum laude” all’ateneo
dell’Aquila. Le sue sinapsi iniziarono a considerare centinaia di testi sacri e
scritti e lettere e traduzioni e gli sovvenne che l'attico era parlato ad Atene e in Attica; tuttavia Omero viene studiato in dialetto dorico, poi ci sono
autori che usavano il dialetto
ionico-vedi quello molto usato in Magna Grecia,e poi l'eolico,parlato da Saffo,
la poetessa di Lesbo e Alcèo. Comunque l'attico è quello che si studia
solitamente. La koinè è appunto una miscela dei principali dialetti greci
antichi fu usata soprattutto ad Alessandria d'Egitto,nel periodo ellenistico
quindi, per estensione, :
χαιρε(chàire) = salve! Che Dio ti aiuti! / Buona fortuna (usato
all'arrivo ed alla partenza),
χαιρω (chàiro)= mi rallegro,gioisco,esulto.
Alva aveva ripreso il bandolo della matassa.
Ora i suoi pensieri erano più fluidi, trasparenti, assolutamente chiari. Per un
attimo aveva compreso quell’ uomo che ormai era senz’altro
“anziano”, poiché in quel tempo poteva avere circa 90-100 anni. Era anziano
anche in quanto a maturità cristiana, ed era una ‘colonna’ della congregazione.
Non ebbe mai figli. Sapeva che non avrebbero seguito le orme del padre. E mai
lo avrebbero compreso. Dai vocaboli
ebraici e greci usati in riferimento alla prole umana si desumono vari utili
particolari. Il comune termine ebraico per bambino o fanciullo è yèledh.
Il termine affine yaldàh può
indicare una “fanciulla” o una “ragazza”. Entrambi derivano dal verbo yalàdh,
che significa “generare; partorire”. Altri due termini ebraici resi fanciullo (ʽohlèl
e ʽohlàl) derivano dal verbo ʽul, che significa “allattare”. L’abituale termine ebraico per ragazzo o
giovane è nàʽar , che viene però usato anche in riferimento a bambini
piccoli come Mosè quando aveva tre mesi. L’ebraico taf (fanciulletti;
piccoli) rende fondamentalmente l’idea di camminare “con agili passetti”.
Alcuni vocaboli greci sono tèknon (figlio), teknìon
(figlioletto), paidìon (bambino) e àrsen (figlio maschio). Il
termine greco nèpios indica un “bambino” piccolo e brèfos un
“bambino” anche prima della nascita.
I figli di Alva, nella sua personale traduzione, erano
resi con un unico aggettivo: estranei.
Durante il viaggio nei suoi pensieri, Alva si era
ritrovato davanti ad uomo di colore che suonava la chitarra. Aveva uno strano
tic all’occhio destro e la custodia aperta con qualche moneta dentro. Si frugò
nelle tasche e trovò una moneta da 50 cents. La mise sull’unghia del pollice e
con l’indice fece leva scagliandola in
aria dentro un moto vorticoso. Il sole la fece luccicare prima di cadere nella
custodia. Satchmo aprì la bocca e un
piccolo, fulgido sole accecò gli occhi
di Alva. Era il sole della riconoscenza. Lui la conosceva.
Alva.