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web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

lunedì 17 novembre 2014

Luci blu.


Non riesco a capire.  

Devo avere una sorta di sottrazione neurale che mi assale perchè ora certe storie che ho vissuto, proprio non me le ricordo quindi penso a ogni situazione come se non l'avessi mai provata prima.
Magari nemmeno sbaglio.
Sento la parte razionale del mio cervello che si agita e pretende spiegazioni.
Di solito mi aggiro per la casa e lascio che il mio sguardo si poggi ovunque.
Ma ora sono immobile davanti alla grande vetrata del salone e ho solo voglia di guardare fuori.
Abito al quarto piano di un palazzo signorile, in una zona bene della città di Genova.
Il citofono d’ottone riporta il nome delle ventuno famiglie che vi abitano, tre per piano, tutti proprietari eccetto due coppie che vivono al piano terra.
Il mio cognome e quello di mia moglie, stampati in un corsivo elegante, figurano in quinta fila: Cerqueti - Solari.  
Dal mio piano posso vedere la strada: stanno calando le prime ombre della sera e i lampioni iniziano ad accendersi riflettendo la loro luce triste sul selciato bagnato.

Scorgo anche il palazzo di fronte e spesso, ultimamente, mi sono ritrovato al buio a spiare i frammenti di vita altrui, che si svolgono all’interno di quelle stanze: conosco ormai tutte le abitudini di coloro che vivono nell’edificio. L’inquilino del secondo piano, per esempio, è un uomo che vive solo, col suo gatto grigio: esce la mattina, dopo aver messo in una ciotola il cibo per l’animale e alle quattro del pomeriggio è già di ritorno. Passa il resto della giornata a parlare con la bestiola, che ricambia il suo affetto strusciandosi continuamente tra le sue gambe, o acciambellandosi sulle sue ginocchia quando egli guarda la televisione

Poi c’è la tipa del quarto piano, una donna sulla quarantina, stile punk, con ciocche di capelli tinte nei colori più strampalati, rosse, viola, arancio. Incredibilmente è un architetto. Si muove sempre a scatti , spesso strilla e sovente cambia compagno. Vive con la figlia, un’adolescente dal viso angelico, il corpo magro, quasi etereo, i gesti sempre calmi e misurati : tra le due è lei a sembrare la più adulta.

Ho molto tempo da spendere durante la giornata: la mia ditta di stampi pressofusi in plastica è stata spazzata via dal vortice della crisi sedici mesi fa, vanificando i sacrifici di una vita.  Ho quarantotto anni e nemmeno più la forza di ricominciare; guardare la vita che si svolge nelle case altrui, mi fa sentire ancora vivo, nonostante tutto. Mia moglie è avvocato e lavora in uno studio prestigioso in via XXSettembre.

Da quando è accaduta questa sciagura anche le cose tra noi hanno iniziato ad andare male o, forse, non sono mai andate troppo bene ma non avevamo il tempo di accorgercene presi come eravamo dalla frenesia del lavoro; sull’altare della carriera abbiamo sacrificato tutto, anche i sentimenti che pure una volta nutrivamo l’uno per l’altra.

Erano sopraggiunti i primi litigi: lei mi reputava colpevole delle mutate condizioni economiche e come ripeteva spesso, ero divenuto un peso, una zavorra da mantenere, dimentica dei quattordici anni vissuti a parti invertite, quando io le facevo fare la bella vita e le pagavo gli studi all’università.

Ogni giorno diventava sempre più arrogante e stabiliva una nuova soglia di non ritorno nel calpestare la mia dignità. Dovessi dire ora un motivo per cui l’ho sposata non saprei se non che a quell’età il cervello è posizionato sotto la cintola: ora è una donna avida, priva di una qualsivoglia intelligenza emotiva, non ha empatia ed è spietata.  La fortuna è che rimane fuori al lavoro per tutto il giorno e in genere torna molto tardi la sera. Eccetto oggi che è rientrata alle cinque del pomeriggio per comunicarmi che si è innamorata di un’altro e vuole il divorzio. Poi si è chiusa in camera da letto a fare le valige.

Oggi è una giornata d’inferno. Troppe cose sono accadute o stanno accadendo: al quarto piano del mio edificio è stata assassinata una donna a coltellate  e questo fatto ha gettato tutto il palazzo nell’ angoscia.

Era una quarantenne che conoscevo poco.

Come si può pensare che in un palazzo borghese come il nostro possano accadere simili atrocità?

Ho sempre creduto che certi episodi potessero accadere solo nei palazzi popolari, nelle zone del sud, malavitose e retrograde, magari nelle periferie nei quartieri sovraffollati, o dove permea la malavita organizzata. Ma qui, in una zona signorile, abitata da gente colta ed elegante, gente che non si affida al bieco istinto, capace di risolvere le sue controversie con civiltà e decoro, ebbene qui, in questo caseggiato, la cosa ha dell’inverosimile.

Dalla mia postazione, davanti alla vetrata, vedo i lampeggianti blu delle auto della polizia che a sirene spiegate posteggiano davanti al mio portone: l’uomo è ancora asserragliato in casa.

Alcuni agenti scendono e danno un’occhiata ai nomi sul citofono, anche al mio : Cerqueti – Solari.
Anzi da oggi solo Cerqueti.
Li sento salire le scale in fretta e furia.
Potranno entrare nell’appartamento senza suonare : ho lasciato la porta d’ingresso aperta.
Mi giro per un istante per accertarmene.
A sinistra anche la porta della camera da letto è aperta.
Sul letto, il corpo senza vita della sconosciuta che è stata mia moglie.
C’è sangue ovunque.
E’ sempre stata una donna che non stava mai ferma.
Doveva sempre fare qualcosa.
Ricordo che era capace di camminare avanti e indietro per la casa continuando ad insultarmi per ore.

Pensavo di farla tacere con una coltellata e invece ho dovuto dargliene sei perché solo con l’ultima ha smesso di urlare e di muoversi.

Guardo fuori dalla vetrata e ora le luci blu sono aumentate.

Sento che all’ingresso sono entrati i poliziotti e mi stanno cercando.

 

“SONO QUI!” – urlo.

 

Uno di loro ha una pistola in mano.

Si avvicina.

Gli tendo la mano destra.

 

“ Piacere, Cristian Cerqueti – dico – ho ucciso mia moglie!”.  

 

 

 ​ ​

 

 

 

lunedì 27 ottobre 2014

Al cospetto del Presidente del Centro di Riabilitazione.

Era un periodo nero. Il mio lavoro nell’istituto psichiatrico stava lentamente svuotandosi da quelle motivazioni con cui all’inizio mi facevo forza. I turni si susseguivano senza che io riuscissi a cavare fuori il benché minimo interesse per quello che facevo. Le giornate erano quasi sempre uguali: aprivo e chiudevo centinaia di volte le stesse porte, prendevo schiaffi e pugni sempre dagli stessi pazienti, li guardavo mentre saltavano , correvano , mangiavano, vomitavano, urlavano , scoreggiavano, si masturbavano, si menavano, bevevano il proprio piscio , mangiavano la propria merda ( e anche quella di altri). Mi stavo stancando di raccogliere le loro deiezioni lungo i corridoi e asciugare le loro pozze di urina nei posti più impensabili. Ogni tanto mi facevo anche qualche risata nell’osservare i rituali liturgici con i quali certi ragazzi autistici si approcciavano alla doccia del mattino o alla ritirata serale ma erano momenti sporadici. autentiche perle solitarie in lunghe giornate di lotte e contenzioni. A volte, quando proprio non ce la facevi più, la direzione organizzava la cosiddetta Supervisione a cui partecipavano sempre un paio di oss o infermieri o educatori. La presenziava uno psicologo la cui partecipazione doveva servire come valvola di sfogo per noi operatori in quanto, durante la riunione, si poteva “ vuotare il sacco” cioè spiegare allo psicologo a quale livello di burn out eri arrivato. Ovviamente nessuno osava fare sapere al collega che sedeva accanto a te quante volte avresti voluto scaraventare dal secondo piano almeno il 90% degli ospiti della struttura in cui lavoravi e quindi ci si trovava a discutere di problematiche su cui il professionista mai avrebbe potuto dare una soluzione. C’erano anche le riunioni di equipe ma ti rendevi conto che qualunque fosse stato l’esito della riunione nulla sarebbe cambiato. Era un senso di impotenza che mi pervadeva a 360 gradi. Mi ci sentivo immerso. Era come se fossi in una gelatina permanente. Ogni cosa che osservavo era come se la filtrassi attraverso una lente deformante. Sentivo che la priorità assoluta era mantenere quel delicato equilibrio in cui cercavo di non pensare eccessivamente e mi imponevo di dedicarmi alcuni angoli mentali di assoluta libertà all’interno dei quali potevo ritirarmi, leggero ed evanescente come una nebbia al mattino. Ma gli angoli, in certi luoghi orrendi, possono diventare all’improvviso rotondi, piccoli e bui e tutti i tuoi pensieri e le tue risorse devono mettersi a lavorare di fino per rimediare ad un errore che inevitabilmente arriverà.
Così, stanco ed amareggiato, chiesi udienza al direttore della struttura il quale mi consigliò di parlarne con il Presidente. Obiettai che, forse, il Presidente sapeva ben poco sull’andazzo del Centro Psichiatrico. Questa fu la sua risposta:

“…vedi Alvaro, Egli, cioè il Presidente, il Dott. Ignazio Grassi, è la cuspide piramidale di questa nostra cooperativa che dà lavoro a migliaia di persone. Egli trasforma il presente in un ennesimo culto dopo essersi sbarazzato dell’ossequio al passato. Ha fondato la Sua azienda sulle orme del padre attraverso un rito palingenetico di mutazione aziendale sdoganandola da un cliché che la fossilizzava anni prima ad una semplice agenzia interinale. Per Lui la sua cooperativa è una tendenza, uno slancio in avanti. E’ l’amore per il nuovo. Il Suo tono di voce è sempre vibrante, le Sue affermazioni apodittiche. Egli può essere paragonato ad un re forte e fascinoso. Meccanicamente immortale. Un eroe senza sonno come GAZURMAH, l’interprete principale del romanzo mito poetico di Marinetti “ MAFARKA LE FUTURISTE DEL 1909”.. Lo sai chi è Marinetti, Alvaro?”

“…beh, ….ecco…mi pare fosse uno scrittore futurista che…”

“Appunto, il futuro, lo sguardo oltre l’orizzonte, Egli come un falco domina dall’alto la percezione multipla e sinestetica delle cose di Sua competenza. Supervisiona, da ottimo intenditore, alle assunzioni del personale femminile secondo un prototipo dannunziano che miscela, nelle giuste dosi, i fondamenti dell’estetica, l’egemonia del bello e il sacerdozio dell’arte. La sua forza comunicativa è completamente nuova senza tentativi di sperimentazione. Ha un solo Horror Vacui che lo irrita piacevolmente: il pensiero di essere frainteso. Quindi, Alvaro, ti prego, non aver timore di incontrarlo. Esponi a Lui i tuoi problemi e vedrai che dopo ti sentirai un uomo nuovo, ripulito dalle scorie che ti affliggono ora. “

“ D’accordo…quando possiamo fissare l’appuntamento?”

“ Domani mattina verso le 10 va bene?”

“ Va bene”.

Uscii dall’ufficio del direttore proprio mentre il solito psicopatico lanciava un estintore da 10 chili addosso alla donna delle pulizie che stava scappando in preda ad una crisi isterica di pianto.
Quella notte dormii poco poiché pensai all’incontro con il Presidente. Cosa gli avrei detto? Come avrei esposto i miei problemi pseudo esistenziali ad un uomo così fulgido? Ma soprattutto: avrebbe compreso?
Mi addormentai su queste domande e quando mi svegliai erano ancora tutte lì che mi aspettavano.
Alle 09.45 ero già davanti alla porta verde pastello del suo ufficio. Dentro la mia testa ripetevo come un mantra tutto quello che dovevo dire cercando, per quanto possibile, di indovinare il contraddittorio.
Dopo 14 minuti e 58 secondi la porta si aprì e apparve una donna sui quarant’anni : senza arte né parte, anonima, leggermente androgina e con un nome così stupido che me lo dimenticai all’istante. Fece un cenno con la mano nella mia direzione e io mi incamminai verso di lei. Aveva un profumo dolciastro che mi provocò una frustata olfattiva. La oltrepassai e fui nell’ufficio. Era un bell’ufficio: spazioso, areato e scevro da qualsiasi traccia di frenesia e caos rispetto ai locali attigui. Egli, il Presidente , era seduto come un monarca desideroso di venire a conoscenza dell’altrui pensiero. Sulla sua scrivania poche cose: un computer, qualche agenda, due penne allineate lungo il bordo destro e un libro. Aguzzai la vista e lessi il titolo: PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA. Il vecchio Freud era dappertutto. Anche lì sopra. Mi vennero in mente le sue paranoie sul sesso e sui simboli fallici. Ho sognato una torre da cui sta cadendo un uomo? E’ il mio desiderio sfrenato di sesso. Ho sognato che mangio un gelato? Probabilmente sono omosessuale ma ancora non lo so.
Un colpo di tosse del Presidente mi fece tornare alla realtà. Egli mi sorrise e, quasi telepaticamente, mi invitò a parlare. Gli esposi tutte le mie perplessità e le mie paure nel giro di 8 minuti dopodiché attesi la sua risposta immerso in un silenzio siderale. Con un gesto ieratico del braccio destro fece cenno alla segretaria di uscire. Si sprofondò nella sua sedia con un sospiro. Iniziò a fissare il libro di Freud. Pareva immerso in profondi pensieri. Poi ,d’un tratto, con un formidabile colpo di reni si alzò in piedi. Era un bell’uomo, sui quarant’anni, vestito di tutto punto e cromaticamente perfetto. Fece qualche passo mentre io tentavo di ingoiare un tot di saliva che mi ingombrava la bocca. Si diresse verso una nicchia scavata nel muro nel cui interno vi erano incastonate due borracce. Mi chiese cosa vedessi. Gli risposi che vedevo due borracce. Poi mi domandò se sapevo cosa potessero contenere. Ovviamente la mia risposta fu negativa. Dopo un lungo silenzio all’interno del quale, a volte, sono contenute delle verità, mi rivelò che in una c’era un liquido che poteva aiutare un uomo ad affrontare la paura e a risolvere i problemi che lo affliggono. Allungò un braccio, afferrò la seconda borraccia e, ad alta voce, mi chiese:
“ SAI, INVECE, COSA C’E’ QUI DENTRO?”
Aveva l’aria di chi conosce la risposta e non vede l’ora di dirtela.
Feci finta di pensare. Abbassai il capo in una sorta di penitenza mistica. Mi arrovellai su cosa potessi dirGli per stupirlo ma i minuti passavano e a me non veniva in mente nulla.
Fu così che per la seconda volta Egli parlò:
“ QUI DENTRO C’E’ LO STESSO LIQUIDO CHE SERVE PER ANDARE AVANTI ED AFFRONTARE NUOVAMENTE LE PROPRIE PAURE CHE GENERANO A LORO VOLTA I PROBLEMI!”

Rimasi in silenzio. Osservai attentamente il libro di Freud come se potesse, in qualche modo, aiutarmi. Diedi un’occhiata al retro dello schermo del suo computer. Vagai con gli occhi su alcuni particolari delle sue scarpe poi mi ritirai sconfitto in me stesso. Il Presidente rimase fermo con la borraccia in mano mentre mi congedai da lui. Uscii dall’ufficio, aprii e chiusi sette porte che mi scaraventarono nella triste realtà del Centro di Riabilitazione Psichiatrica. Mentre camminavo nel corridoio che dava verso l’uscita, ripensando a ciò che mi aveva detto il Presidente, vidi un operatore che stava facendo l’ennesima doccia alla coprofaga muta a cui piaceva tanto disegnare sui muri con le proprie feci. Notai che il bastardo aveva posizionato il miscelatore sull’acqua fredda ma ero troppo avvilito per dire qualcosa quindi mi allontanai con i muggiti della poveretta nelle orecchie sovrapposti agli urli dell’operatore che, con un ghigno, ben sapendo perché volesse scappare dal bagno tutta sporca di merda, tentava in tutte le maniere di ricacciarla sotto l’acqua.

giovedì 16 ottobre 2014

Domani?



 Ho deciso che domani prendo il treno e me ne vado a Sestri Levante a mangiarmi un gelato. Massì, dai, voglio togliermi da questa città sempre immersa nell’acqua solo quando la pioggia è  più forte del normale. Sono stanco di assistere all’ennesima lotta del fiume Bisagno che tenta di riprendersi il suo antico alveo. Alla mia età ho già visto troppe alluvioni e troppe persone soffrire proprio per questa causa. Se cerco nei ricordi di quando lavoravo al S. Martino, le facce di quelli che arrivavano al Pronto per le ferite più strane durante un alluvione erano incredibilmente nitide. Non sapevi mai se le sofferenze più grandi le davano quelle gambe o braccia spezzate, quelle ferite su tutto il corpo, causate dal trascinamento della forza dell acqua esondata da uno dei  tanti fiumi ‘blindati’di Genova oppure lo strazio interno per la perdita di tutto, ma proprio tutto, di quello che avevano. Le facce dei morti, invece, era facile scordarle anche perché morire affogati nel fango ti cambia completamente la fisionomia. Passi un bel po’ di tempo a pulire i loro corpi e i loro visi per renderli presentabili e quando pensi di aver fatto un buon lavoro eccolo lì di nuovo, il fango, che esce dal naso, dalla bocca per continuare a sporcare quella povera gente. Quante volte ho pensato: domani mi licenzio e me ne vado in un altro posto, in un'altra città, magari nel nord est dove le cose funzionano un po’ meglio. Ma poi pensavo anche che dovevo resistere, che mi mancava poco alla pensione e che una volta pensionato avrei fatto quello che volevo. Infatti, stasera, ho deciso che domani farò quello che voglio e cioè mi andrò a prendere un gelato a Sestri Levante. Ho già visto gli orari: partenza 11.20, arrivo 12.17. Una bella passeggiata sul lungomare e poi via nel carruggio, in quella gelateria dove lo fanno così buono. Al ritorno ci penserò, tanto a casa, non ho nessuno che mi aspetta. Mia moglie è morta da molti anni e non ho figli. Ho solo qualche amico. A proposito di amici: quasi quasi vado al bar di Brignole a bere qualcosa e a fare due chiacchiere. Sono stanco di guardare il Bisagno attraverso i vetri della mia finestra di casa.  Che ora sono? Quasi mezzanotte! Dai Aldo! Mettiti una cerata e vai a fare due passi. Tranquillo,non ci sono problemi! Ricordati che adesso il comune di Genova usa i modelli matematici per avvisare la popolazione in casi di vero pericolo. Mentre scendo le scale per uscire rido al pensiero dei modelli matematici che prevedono il prevedibile ma non possono nulla contro l’imprevedibile. Esco dal portone del palazzo, costeggio il marciapiede sotto una pioggia fortissima e vedo che il bar del mio amico Marco è ancora aperto. Entro per salutarlo.

" Dove vai Aldo con questo tempo? Non sarebbe meglio starsene a casa?"

" Va là Marco, quanta pioggia abbiamo visto io e te? E poi ho deciso di tornare a casa domani!"

" Domani?"

" E’ quasi mezzanotte e quando tornerò a casa sarà gia domani" – gli dico con un sorriso.

" Stai attento Aldo!"

" Vado e torno, ciao Marco!"

Esco ma prima di andare decido di controllare a che livello è il Bisagno.
Non credo ai miei occhi: è diventato un mostro impetuoso.
Sarà meglio rimandare l’uscita a domani.
Dopo la mia gita fuori porta a Sestri Levante e il gelato nel carruggio.
Massì, dai, domani il Bisagno sarà certamente più bass…………………..

L'ONDATA DI PIENA MI HA TRAVOLTO!
RESPIRO ACQUA E FANGO.
FANGO.
IN BOCCA, NEL NASO, NEGLI OCCHI.
CHI ME LO TOGLIERA' DALLA FACCIA,DOMANI?
  

( In memoria di Antonio Campanella, morto annegato il 9 Ottobre 2014 durante l'alluvione di Genova .)
                                                                                                                                           
                                                                                                                           

giovedì 14 agosto 2014

Un’operazione quasi perfetta.

Ciò che ho scritto non vuol essere una cronaca. Tanto meno un racconto. E’ solo la storia di quello che accadde 20 anni fa ad Alessandria una cittadina dell’Italia  settentrionale. Troppo piccola per essere considerata città. Troppo grande per essere un paese.  E' a due passi dal mare e  a tre dalla montagna. La gente si conosce tutta e, almeno una volta alla settimana, ci si ritrova tutti in casa dell’uno o dell’altro. E', paradossalmente, il posto ideale per trascorrere la propria esistenza con la meravigliosa e sacrilega sensazione di averla già vissuta.
Me la raccontò un anziano signore, un giorno, mentre stavo rincasando nella mia abitazione, al quinto piano di un vecchio condominio ad Acqui Terme. Era teso e con gli occhi spiritati. Ora non ricordo se fu tutto un sogno o un'allucinazione dovuta al caldo torrido di quel periodo, ma è certo che mi disse che voleva dirla a me perché le ero simpatico, buttando lì il fatto che quello avrebbe potuto essere il suo ultimo giorno di vita.
Purtroppo aveva ragione.



                                          



Erano da poco passate le due del mattino e Ale si apprestava ad affrontare il suo 46° minuto di sonno, quando il telefono squillò in maniera cinica e brutale.
Gli ci vollero almeno tre minuti per trovare la cornetta. Quando la individuò la alzò.

“Chi diavolo è a quest’ora?”  ringhiò come un cane inferocito.
“Ale...sono io ...Enrico; scusa per l’ora ma...”.

Enrico era il capitano della centrale di polizia criminale. Un bravo ufficiale. Piuttosto in gamba. Tutta tecnica e  niente pratica. Aveva la divisa sempre impeccabile quindi la persona giusta per stare in un ufficio e far bella mostra di se. Faceva sempre sfoggio della sua cultura, infarcendo tutti i suoi discorsi con paroloni di nessun’utilità. Insomma, il tipo d’ufficiale che sarebbe morto in combattimento ancor prima di riuscire a mettere un colpo in canna.

“ Enrico, lo sai che ora sono? “  lo interruppe Ale.
“Chiedo venia per averti disturbato ma ho...”
“Cosa chiedi?”
“Chiedo venia, chiedo scusa...”
“Ah...”
“Comunque sia, ho bisogno che torni in ufficio; è accaduto un pasticcio di portata internazionale.”
“Cosa?” chiese Ale
“Non posso spiegare al telefono; te lo paleserò quando sarai qui!”
“SANTODDIO ENRY, non potresti parlare come mangi?” urlò Ale.
“Scusa, mi viene spontaneo!”
“Anche a me verrebbe spontaneo mandarti al diavolo, ma mi trattengo!”
“ O.K! O.K! Non ti arrabbiare! Ce la fai ad essere qui tra mezz’ora?”
“Dammi almeno un’ora!”
“O. K.! A proposito: stavi mica dormendo?”.
“Enry?”
“Si?”
“ Vai al diavolo!!”.

Ale era sott’ufficiale della squadra speciale antiterrorismo. Il migliore. Un pò volgare e rozzo ma efficiente. Prima di assumerne il comando aveva girato il mondo ed “operato” in missioni ad altissimo rischio. Era specializzato nel “blitz”; toccata e fuga, come lo chiamava lui.
Ne portava le conseguenze su tutto il corpo, sottoforma di cicatrici e altro. Incerti del mestiere, diceva lui.
Un tipo tosto insomma;bastava stare al suo fianco per essere certi di uscire vivi da qualunque brutta situazione.

Si rivestì, prese la sua 38 parabellum e la caricò. Mise un colpo in canna e se la infilò sotto la cintura dei pantaloni. Da dietro.
Non usava la fondina ascellare: troppi movimenti allo scoperto!
Uscì dal suo appartamento e scese le scale. Prima di oltrepassare il portone dello stabile, controllò accuratamente la situazione all’esterno. Uno come lui si era fatto un sacco di nemici. Poi, lentamente, aprì, e con un passo fu in strada. Si diresse verso il Centro Operativo. La mattina era calda e umida e lui odiava l’umidità. Gli ricordava l’Africa, il fango, i parassiti e la puzza di morte; una volta che l’avevi odorata ti restava nel cervello per sempre. Poco dopo saliva già le scale del C.O. Due guardie lo salutarono sull’attenti. Non ci badò neanche. Odiava le formalità, soprattutto quando erano rivolte alla sua persona. Una vetrata automatica si aprì. Qualcuno, dentro ad una garitta antiproiettile, lo salutò. Come risposta gli strizzò l’occhio sinistro e attese l’apertura della seconda vetrata. Si aprì. Entrò, quando un giovane ufficiale gli si parò davanti.

“ Mi spiace sergente, ma devo perquisirla!!”  disse sommessamente.
“ Che cosa?!”  disse Ale.
“ Beh...ecco...sono...sono LE NUOVE DISPOSIZIONI!!”
“Chi le ha pensate?”  domandò.
“Il capitano Dez!!”
“Il solito idiota!” esclamò ad alta voce. E tirò avanti.

Sentì il giovane, da dietro, snocciolare il regolamento, ma sapeva che non avrebbe mai osato fermarlo.
Percorse un lungo corridoio ed entrò nella sala delle “grandi decisioni”.
Intorno ad un tavolo quadrato c’erano due tizi infilati dentro uno splendido vestito ed avevano un largo sorriso. Troppo largo per quell’ora. Nella penombra, appoggiati al muro, i loro guardiaspalla. A capotavola c’era Dez che appena lo vide disse: “ Oh, ciao Ale, hai fatto prestissimo...scusa ancora per...”.

Non lo fece terminare.

“Cos’è ‘sta storia della perquisizione?”
“Ecco…ho pensato di aumentare un pò la sicurezza qui all’interno e.....”
“Dez, PERLAMADOSCA, fare perquisizioni in questo posto è una gigantesca stronzata!” e si sedette.
Tutti gli altri intorno lo guardarono sbigottiti. Poi guardarono Dez, come se si aspettassero una reazione da lui.
“E’ il nostro uomo migliore!” biascicò invece.
“SANTO CIELO! - continuò Ale - controllare un poliziotto in un posto di polizia è come fare una multa per eccesso di velocità in un gran premio di formula 1!” e rise.

Risero anche tutti gli altri. Non si ricordava dove l’aveva sentita quella battuta, ma aveva sortito l’effetto desiderato.
Dez era in evidente imbarazzo, ma ci pensò subito Ale a mettere tutti a proprio agio.

“Allora? Di che si tratta? Il gatto della moglie di qualche generale in pensione è scomparso?” chiese con sarcasmo.

Ci fu un’altra risata, ma più breve. Tutti capirono che sarebbe anche stata l’ultima.

“C’è stato un sequestro di persona all’ambasciata del Ghana!” esordì l’uomo in cravatta alla sua sinistra.
Enry guardò Dez.
“Ale...ti presento il signor Kumanga, il segretario particolare dell’ambasciatore”.

Lo squadrò dalla testa ai piedi.

“Quanto particolare?” chiese allusivamente, con un mezzo ghigno sul lato destro della bocca.
“Abbastanza da farla degradare se qualcosa andrà storto!!” rispose.
“Ehi Dez, CHE VUOLE QUESTO QUA? Glielo hai detto chi sono?”  domandò infuriato.
“Sappiamo chi è Lei; ed è per questo che si trova qua!” si introdusse determinato Kumanga.
“Anch’io so chi sei tu! Tu sei una grossa merda con un bel vestito addosso!!”  ringhiò Ale.

I guardiaspalla, che fino a quel momento erano rimasti appoggiati al muro come due armadi solitari, si smossero leggermente e fecero un passo in avanti, come se qualcuno avesse osato dire che la loro mamma era stata una escort tanto tempo prima; ma poi occhieggiarono verso Kumanga il quale, con un gesto della mano destra, fece cenno che era tutto ok,così i due colossi si riappoggiarono al muro come chi ha appena deciso che il passato è  passato!

“ADESSO BASTA!!” intervenne Dez urlando.

Stranamente ci fu silenzio.

“Abbiamo perso fin troppo tempo!  In casi come questi può essere prezioso!!”.
L’ufficiale si schiarì la voce con un colpo di tosse.

“Allora...la situazione è questa: un fottuto pazzo si è introdotto, dio sa come, nell’ambasciata del Ghana, ha preso in ostaggio l’ambasciatore e poi si è chiuso all’interno della saletta antistante a quella delle riunioni. Ora minaccia di ucciderlo se non saranno liberati tre detenuti politici. Ci ha già consegnato i nomi!”
“Un classico!” disse Ale
“Sarà anche un classico - s’introdusse nuovamente Kumanga - ma dato i delicati equilibri politici che intercorrono tra i nostri paesi, non vorremmo che venissero a crearsi...”
Ale l’interruppe.

“Senti amico, mi devi solo dire che cosa devo fare: lo volete morto o lo volete vivo ma sulla sedia a rotelle? Il resto delle tue cazzate tientele per quando sarai in vacanza!!” rispose.

Non si poteva dire che corresse buon sangue tra loro due.
Ci furono molti secondi di silenzio.
“Uccidetelo!!” - disse Kumanga a denti stretti - “Morto non parla!!”
“O. K.!!” sibilò Ale alzandosi e dirigendosi verso l’uscita.

Dez si congedò dai convenuti bofonchiando qualche scusa. Subito dopo corse dietro a Ale mettendoglisi a fianco.
“Potevi evitare di essere così scurrile!!” lo redarguì.
“Politici merdosi e leccaculi...non li sopporto!!” rispose.


Poi si diressero nell’ufficio di Dez e si sedettero. Ale prese un bicchiere che stava sul tavolo e si versò dell’acqua da una bottiglia che si trovava sul tavolo. La bevve avidamente.
“Cos’hai bisogno?” chiese Dez.

Chinò la testa come per pensare, lasciando che i muscoli del collo ne traessero sollievo.
“Una planimetria dell’ambasciata, qualche ragazzo con le palle e Alva!”
“Alva?” domandò stupefatto Dez.
“Si! Proprio lui!!”
“Dove lo trovo Alva? Sono anni che non lo vedo! Per quel che ne sappiamo potrebbe anche esser morto!!”  disse Dez.
“Non è morto!”
“Tu come fai a saperlo?”
“Lo so e basta! TROVALO!” fu l’imperativo di Ale. Poi si alzò e se n’andò.
S’erano fatte le cinque e trenta e le prime luci della città iniziavano a sdraiarsi sulla città. Stava tornando al suo appartamento. Si sarebbe fatto una doccia, per riprendersi, e solo dopo avrebbe considerato l’ipotesi di tornare in quell’ambasciata.



Ci arrivò verso le sette e quindici e dovette faticare non poco per attraversare tutte le misure di sicurezza. L’edificio era circondato ai suoi quattro lati e parecchie macchine della polizia sbarravano le principali vie d’accesso. C’erano anche svariate emittenti televisive, pronte a cogliere il primo rivolo di sangue.
Entrò all’interno. Un sacco di gente sciamava ovunque: giornalisti, diplomatici, portaborse. I camerieri, come se nulla fosse, servivano i drink!!

“Incredibile!!” disse a bassa voce.

Era in atto un sequestro di persona e tutto lì intorno dava l’impressione di un party!!Poco dopo arrivò Dez di corsa.
“Ale...ti aspettavo fuori!”
“Invece sono qui! Hai fatto quello che ti ho chiesto?” domandò.
“Si! Questa è la planimetria; fuori ci sono due ragazzi dell’antiterrorismo e Alva. E’ stato difficilissimo scovarlo in meno di due ore, pensa che...”.

Ale non lo ascoltava più. Stava già uscendo.
“Dove sei, maledetto caprone?” urlò all’esterno, tra gli sguardi allibiti della piccola folla. Un giornalista gli si avvicinò e chiese: “ Lei può dirci qualcosa?”
“Certo: QUAL-CO-SA!!!” e continuò a scrutare nella calca carniforme.

Ad un tratto si levò un vocione imperioso che sovrastò ogni rumore.

“ALE, VECCHIO CIALTRONE!”

Alva era un uomo gigantesco. Alto quasi due metri, 100 chili di peso e con una lunga capigliatura intorno a una barba foltissima. Lui e Ale erano sempre stati insieme in tutte le missioni più cazzute e tra loro esisteva un “feeling” che li accomunava. Inoltre era il tiratore scelto più in gamba che avesse mai conosciuto. Divenne celebre durante una missione riguardante un dirottamento aereo, in cui il dirottatore era da due giorni fermo con l’aereo sulla pista dell’aeroporto.
Aveva già ucciso uno dei passeggeri e l’avrebbe rifatto. Così Alva si posizionò sulla torre di controllo e da quasi 300 metri, con un proiettile speciale, finì il terrorista. Un vero cecchino!

“Alva, ragazzaccio! Dov’eri rintanato?” I due si abbracciarono con forza.

“Santo cielo! Stavo tranquillo in un pub a Liverpool a scolarmi una birra quando sono venuti due vostri sgherri, mi hanno caricato su un aereo e mi hanno portato qua! Sono salito solo quando ho sentito il tuo nome! Deve essere accaduto qualcosa di terribile per giustificare questo spiegamento di forze!!” terminò Alva.
“Più o meno Al...più o meno; adesso seguimi che ti spiego tutto!”

Rientrarono nella sala dell’ambasciata e si sedettero. Nel mentre si avvicinò Dez con una discreta quantità di materiale cartaceo tra le mani. Lo appoggiò sul tavolo davanti a loro e si sedette anch’egli.
“Al, lui è Dez, l’ufficiale delle operazioni. Dirigerà la logistica e le trasmissioni via radio.”.
Si strinsero la mano.
“Piacere Al - sorrise Dez - ho sentito molto parlare di te!”.
“Peccato che io non possa dire altrettanto!” rispose l’altro sghignazzando.
“Che cosa intende dire?” chiese Dez guardando Ale.
“Nulla, non farci caso...Al è un po’ pazzo, ma lo saresti anche tu se fossi rimasto ventuno giorni in una boscaglia, braccato dal nemico, a mangiare serpenti e radici con contorno di fango e a bere il tuo piscio!” rispose Ale

Dez deglutì lentamente. Era troppo per lui.

“Allora Al, là dentro c’è un merdoso fuori di testa, con un merdoso ambasciatore, di un merdoso paese; è armato, incazzato e non sa che tra poco morirà!!” e rise.

Rise anche Al.

Afferrò un largo foglio. Era la planimetria dell’ambasciata. La aprì sul tavolo sotto gli occhi di tutti.

“Questa è la stanza in cui si trovano i due piccioncini! L’unica entrata è quella porta. L’unica uscita pure!” disse Ale.
“Beh, mi pare che se lo sia messo nel culo da solo!!”
“Sì, lo so, ma è che l’ambasciatore DEVE uscire da lì senza il minimo graffio. Un operazione chirurgica. Come ai vecchi tempi!”
“O. K.!Cosa debbo fare?” chiese.
“All’interno della stanza c’è una finestrella, sul lato est, ed è alta da terra 170 cm. Sappiamo chi è il terrorista e lui è alto 173 cm. Il diplomatico misura a malapena 160 cm, perciò non c’è possibilità d’errore. Credi di farcela da 150 metri?”.
“Beh, Ale, da quella distanza riuscirei a fargli la riga in mezzo ai capelli!” e iniziò a ridere convulsamente.
“Bene, bene...hai il tuo ‘strumento’?”
“Certo! E’ il mio migliore amico...dopo di te, naturalmente!!”
“O. K. Dez,  fagli vedere la postazione e dagli una radio a bassa frequenza.
“Sarà fatto! Vieni Al, seguimi.” Lo condusse sul tetto di una casa poco distante.

“Ecco...vedi quella finestrella sotto quel cornicione rosso?” chiese Dez, indicando un punto tra i tetti.
“Certo! E anche bene!” rispose.

Era diventato serio e i suoi occhi guizzavano. Stava valutando tutte le variabili: vento, distanza, inclinazione. Estrasse dalla custodia il suo Remington 7.65. Lo accarezzò. Innestò, su di esso, il cannocchiale di precisione con lenti Bausch&Lomb e lo armò.
 Si sdraiò a terra, puntando il fucile con cura, fece qualche profondo respiro e disse: “Sono pronto!!”.
“Bene; la radio è già sul canale; se ci fosse qualche problema ti avvertiremo”.

Alva non rispose. Era già tutt’uno con il suo “strumento”. Da lì a non molto ci sarebbe stato un piccolo concerto e lui si stava preparando.
Dez ritornò all’ambasciata e vide Ale, pensieroso, chino sulla planimetria.

“C’è qualcosa che non mi quadra in questo disegno!”
“Cosa?"  chiese Dez.
“Vedi il tratteggio della finestrella? E’ come se fosse stato,per così dire...corretto!”
“C’è un solo modo per saperlo - replicò - ed è quello di chiederlo a Kumanga!”
“E’ da tanto tempo che lavora qui?”
“C’è praticamente nato!”rispose Dez.

Diedero disposizioni per rintracciarlo. Intanto Alva, sul tetto della casa, aveva quella finestrella nel mirino e qualunque cosa fosse transitata nel suo campo l’avrebbe intercettata.
Intanto il terrorista, all’interno della stanza, dava segni di nervosismo. La situazione poteva precipitare da un momento all’altro. Due incursori stavano all’esterno della porta pronti ad intervenire.
Poco dopo arrivò Kumanga, dritto, con passo lento e gli occhi come il ghiaccio.
“Mi avete fatto chiamare?” disse con un tono di voce sarcastico.
“Si sieda - rispose Ale - devo farle vedere una cosa; su questa planimetria c’è un particolare che non mi convince: vede il riquadro della finestra? E’ come se fosse stato corretto, o sbaglio?”
“Assolutamente no, mio caro...quella finestra, tre anni fa, fu alzata di 18 cm per evitare che i raggi del sole cadessero direttamente sui quadri appesi nella parete opposta!” fu la risposta.
“MERDA! - imprecò Ale - allora Alva non può far nulla perché là dentro nessuno è alto 1.88 cm!”

Dez prese la radio.

“Lo chiamo e gli dico che la missione è annullata?” chiese.

Pensò a lungo su cosa rispondere.

“No, no...lasciamolo lì! Può venirci bene!”

All’esterno, un violento temporale frustava la città, e l’acqua veniva giù come dio la mandava.
Alva, su quel tetto, era fradicio, ma non si muoveva di un millimetro.

Il poliziotto che conduceva le trattative con il sequestratore si avvicinò a Ale.
“Sergente, sarà meglio sbrigarsi perchè quel pazzo sta dando il peggio di se !”
“Va bene, grazie!”  rispose.

Si avvicinò ai suoi due uomini e con il linguaggio dei segni, impartì loro dei precisi ordini. Si stava giungendo all’epilogo. Un’azione così diretta poteva costar cara; ma non c’era altra scelta. Tutti si posizionarono. Poi attivarono il puntamento laser sopra le pistole. Erano pronti.

Ale alzò la mano sinistra e iniziò il countdown. Allo scadere ci fu l’irruzione. Precisa. Fulminea. Durò in totale 40 secondi durante i quali furono esplosi solamente tre colpi. Tutti a segno.
Il corpo senza vita del terrorista fu trascinato fuori della stanza. L’ambasciatore, invece, vi rimase. La forte emozione lo aveva provato. Per dirla in parole povere: si era quasi cagato addosso!!

“Ottimo lavoro Ale - disse Dez raggiante - ottimo lavoro!!”
“Come al solito.” - fu la sua risposta.

Si diresse verso i suoi uomini, si congratulò con loro e li mise in libertà. Poi si sedette e chiese del whisky. Arrivò quasi subito. Ne ingollò un bicchiere d’un fiato.
Mentre la tensione stava allentando la sua presa, sentì del trambusto provenire dall’entrata.

“Che sta succedendo?” chiese ad alta voce
“Pare che il Presidente stia venendo proprio qua, per far visita all’ambasciatore.”. rispose con zelo un addetto.
“Dannazione! Sarà meglio che me ne vada!” disse tra sé e sé.

Si alzò, salutò tutti con un ampio gesto e si diresse verso l’uscita. Proprio mentre stava scendendo le scale, incrociò il Presidente della Repubblica Italiana e la Sua scorta che salivano. Lo salutò ma Lui non rispose.
Era la prima volta che lo vedeva di persona. Pensò che in televisione pareva più piccolo. Scese  in strada e chiamò un taxi. Non se la sentiva di tornare a piedi. Aveva bevuto a stomaco vuoto. Non riusciva a togliersi dalla mente l’incontro con il Presidente. Il taxi arrivò e lui salì. Diede l’indirizzo e si stravaccò sul sedile. Pioveva ancora.  Qualcosa gli ronzava nella testa. Aveva la stessa sensazione che prende quando si esce di casa troppo in fretta e si è certi di aver dimenticato non si sa cosa. Gli veniva in mente solo l’immagine del Presidente. Era molto più alto di tutti i suoi predecessori.
Quando pensò quell’ultima frase, sentì come un CRACH dentro la testa.


“ALVA!”   urlò.
Scese dal taxi e iniziò a correre da dove era venuto. La pioggia lo faceva scivolare.  Correndo si ricordò finalmente che il Presidente, da ragazzo, era stato per tanti anni nella nazionale di pallacanestro...dall’alto dei suoi 192 cm d’altezza.

Era spacciato se non si sbrigava.
Intanto Lui si era intrattenuto con la polizia nel salone antistante alla camera con la finestrella; si stava celebrando l’antica liturgia dei convenevoli e delle presentazioni.
Ale, invece, stava correndo a più non posso per fermare Alva.

LA TRASMITTENTE!!
L’aveva Dez. Imboccò il viale dell’ambasciata. Lì, come per miracolo, lo incontrò.
“Ehi Ale, che succede?” domandò stupito.
“La trasmittente...DAMMELA!!” ordinò Ale trafelato.

Gliela diede. La attivò.

“Alva, missione annullata, mi hai sentito? MISSIONE ANNULLATA!”  urlò.
Purtroppo il destino, quella mattina, si volle beffare di loro. La trasmittente di Al era andata in corto a causa dell’acqua. Materiale di stato. Il peggiore.
Ale la scagliò a terra e riprese la sua corsa. Arrivò alle scale e le salì più in fretta che poteva.

Il Presidente ora stava proprio all’ingresso della stanza, e dalla parte opposta l’ambasciatore era seduto con accanto un medico che gli misurava la pressione.

“Caro ambasciatore! Come sono felice di vederla!!”  disse sorridendo mentre si dirigeva verso di lui.
Ale entrò nel salone, si voltò verso la stanza ma non poté far altro che assistere.

“SI FERMI PRESIDENTE!” urlò con tutto il fiato che gli rimaneva.

Alva, sul tetto, era ancora incollato al mirino nonostante l’acqua a barili. Un vero professionista.
Ad un tratto, nel campo visivo del suo occhio destro, apparve qualcosa. Al fece una leggera smorfia di compiacimento con la bocca e disse: “ VAI ALL’INFERNO!!”. Poi premette il grilletto.
Il proiettile partì velocissimo per il suo viaggio di morte, scaraventando Alva, Ale e il Presidente su tutti i libri di storia.

                                                                                        
                                                                                                            Alvaro.


giovedì 7 agosto 2014

All’uomo sconosciuto che l’11 Settembre si lanciò dalla Torre Nord.

Volo ormai libero
in quest’aria newyorchese
e solo la mia cravatta frivola
che svolazza
sembra legarmi ancora
a quel mondo di prima.
Chissà perche penso a Max
che faceva i panini al bar dell’angolo
e all’ascensorista della Torre Nord che mi sorrideva sempre;
mi viene in mente anche Mary del piano di sotto
con quei corti capelli scolpiti col gel;
e poi Malcom e Alex che avevano voglia di successo.
Erano tutti giovani. Non più di vent’anni.
Da oggi,
le loro madri
non metteranno  più il solito piatto sulla tavola.
Per ciascuna di loro ci sarà un vuoto terribile ed incolmabile.
E per me?
Beh, io so di morire innocente,
so che qualcuno mi ha fatto del male,
e mentre attendo ormai solo l’impatto
mi sento un uomo con il cuore nuovo
perché per quattrocento metri

o mio Signore


ti ho supplicato di perdonarli.

                                                                                                        

martedì 5 agosto 2014

Il pesce finto.

Anche quel martedì sera,come da tradizione ormai consolidata,squilla il campanello alla porta.
Sono le 19 circa. Francesca va ad aprire,con la sua solita andatura calma e posata:lei odia correre o affrettarsi perchè ciò denoterebbe un atteggiamento ansioso,sanguigno,apprensivo,in una parola:mediocre e plebeo. Non che Francesca sia donna snob o altezzosa,ma è in lei presente il germe della autoreferenzialità perenne, caratteristica questa che la pone fra gli esseri umani incapaci di non sentirsi compiaciutamente aristocratici nell'anima.
" Ciao Francy,come stai oggi?Scommetto che sei già affamata,eppure ho potuto avere il tonno fresco soltanto mezz'ora fa,ce lo ha portato un collega,che ogni tanto si rifornisce da un pescatore che rientra spesso nel pomeriggio. Almeno ‘sta volta usiamo un ingrediente all'altezza!"
Chi ha appena parlato è Marina,la grande amica di Francesca. Marina è esuberante,sportiva,guida una Ducati Monster depotenziata  e ogni tanto si concede il vezzo di perdere le staffe; insomma è una donna alla mano,schietta e diretta,ma anche molto dolce.
 "Ciao,carissima!"  Le due amiche si abbracciano,e in quel mentre le raggiunge Andrea, il compagno di Francesca,uomo solido,affidabile,ma col difetto di essere stringato nel parlare.
"Ciao,Marina,cos'è ‘sta novità del tonno fresco?" domanda,incuriosito e,per la verità,anche un po' preoccupato.  
"Niente, Andre,è un piccolo strappo alle regole,o meglio,alle nostre non-regole perchè solo gli stupidi non cambiano mai" 
Dimenticavo di dirvi che Marina ha un solo difetto clamoroso: è battutara di natura e  non aderisce per niente allo stile di vita sobrio e controllato di Andrea nè condivide la misura e l'attenzione controllata tipiche di Francesca.
I tre si portano in cucina dove un capace pentolone su fuoco lento sta lentamente  rosolando un pastone ,apparentemente indegno,composto di patate in quantità industriale,spiaccicate a caso e acciughe salatissime. E' la serata del "finto pesce",ovvero un preparato di dubbia finezza,basato su patate,acciughe e tonno. Il pastone immondo viene poi smistato su un recipiente artigianale a forma di pesce. Non è niente male come gusto,a parte un po' il salato delle acciughe...
"Il tonno fresco potrebbe essere stato manipolato da persone poco attente alla pulizia!" E’ il commento di Andrea,asciutto e velatamente critico.  
" Tesoro,dai,Marina ci ha fatto un  bel regalo,vuoi mettere le solite lattine all'olio di oliva? Così dozzinali,scontate,mediocri"
"Cara,lo so,hai ragione,ma io amo la tradizione,specie quella del mio credo religioso,sai bene che il Talmud ebraico prevede un certo rigore igienico e diverse norme per preparare il pesce e il cibo in generale"
"Andre,che noia,ma devi sempre essere così pignolo?" - azzarda Marina,conscia della serietà perfino un po' smaccata con cui Andrea cita le norme culinarie del cibo koscher, ovvero cibo cucinato secondo i migliori crismi della tradizione gastronomica ebraica.
"Voi due non la smetterete mai di punzecchiarvi"
E' il commento signorilmente intimidatorio di Francesca.

"Ora vi mostro come si ripulisce affinchè apprendiate"-  prosegue Andrea,mentre inizia la sbudellatura accurata del pesce fresco.  
"Franci,non è questione di punzecchiare,è che io adoro tutte le cucine del mondo,e poi lo sai che sono una apolide,mi piace variare,piluccare un po' qui e un po' là,non escludo nessuna cucina straniera,ma di certo preferisco la sostanza alla forma: il cibo dev'essere gustoso,e non mi tange più di tanto che sia preparato secondo schemi precisi o inesorabilmente prefissati!" E' la replica energica di Marina,la quale da anni impegna singolar tenzoni con Andrea, sia riguardo al cibo sia riguardo a tematiche più profonde,come le religioni.
Alla fine i tre si siedono a tavola. Francesca ha gli occhi lucidi e, con un affascinantissimo strabismo di Venere, osserva il finto pesce sul tavolo a destra e qualche grado a sinistra che le fa controllare la disposizione delle posate accanto al suo amato Andrea.
“ Hai messo la forchetta dopo il coltello!”  - proferisce stizzita Francesca.
“ E allora?” – risponde Andrea.
“ Ti prego, dolce amore mio, scala di un posto le posate…non fare il cafone!”
Andrea, con un gesto lento e misurato scambia di ordine le posate e intanto intona una vecchia canzone ebraica.
“ Gam gam gam ki elekh…la,la,la,la,lalalala…”
Francesca si alza di scatto.
“ ORA BASTA ANDREA, SONO STANCA DELLE TUE ILLAZIONI PSEUDO NAZISTE CIRCA I MIEI MANIERISMI DA BON TON! BASTAAAAA! E’ INUTILE CHE TU CANTI LA VECCHIA CANZONE CHE I TUOI PREDECESSORI INTONAVANO POCO PRIMA DI ESSERE GIUSTIZIATI AD AUSCHWITZ! IO SONO UNA DONNA GIOVANE E HO DIRITTO A VIVERE COME TALE. TU MI DENIGRI. TU INFANGHI IL MIO DESIDERIO EDONISTICO! TU…TU…INSOMMA…TU NON SEI ALLA MIA ALTEZZA!”
Queste ultime parole si inseriscono nello spazio come cunei dilatatori che spingono ai loro antipodi per allontarli sempre più.
Marina continua a mangiare e ridacchia al pensiero di come la scena andrà a finire. Nella sua rubrica, il giorno dopo, ha in programma la visione di un film al multisala della Fiumara di Genova ma, visto come stanno andando le cose, un film migliore e gratuito sta deliziando i suoi occhi e le sue orecchie .
Andrea si alza di scatto e proclama:
DONNA, TU NON COMPRENDI! NESSUNA DONNA, A MOTIVO DELLO STESSO ESSERE DONNA, POTRA’ MAI CAPIRE! TU LO SAPEVI CHE L’EBRAISMO 

GRAZIE AL PRIMO EBREO DELLA STORIA, ABRAMO, IL PRIMO DEI PATRIARCHI EBREI, SI AFFERMÒ COME RELIGIONE RIGOROSAMENTE MONOTEISTICA? LA PRIMA DI QUESTO TIPO AD ESSERE DOCUMENTATA NEL TERRITORIO DELLE POPOLAZIONI CANENEE
PER CASO, MIA DOLCE FRANCESCA, SAPEVI ANCHE CHE L'EBRAISMO INCLUDE UN VASTO CORPO TESTUALE, LE PRATICHE, LE POSIZIONI TEOLOGICHE E LE FORME ORGANIZZATIVE DI VITA? HAI MAI SAPUTO CHE NELL'AMBITO DELL'EBRAISMO ESISTONO VARIE CORRENTI E MOVIMENTI, LA MAGGIORANZA DEI QUALI È EMERSA DALL'EBRAISMO RABBINICO, CHE AFFERMA CHE DIO HA RIVELATO LE SUE LEGGI E COMANDAMENTI A MOSE'SUL MONTE SINAI NELLA FORMA SIA DI TORAH SCRITTA SIA DI TORAH ORALE?

Francesca era provata. Deglutì di colpo preoccupando immediatamente Marina, logopedista di fama nazionale, circa un suo imminente ab injestis che non avvenne.

“ Andrea, by jove, contieniti!” – fu la reazione verbale dell’apodittica Francesca.

Marina sghignazzava tra una porzione e l’altra di pesce finto.

“ Sai cosa è il matrimonio per noi maledetti ebrei, mia meravigliosa Francesca? E’, da una parte, un accordo privato tra marito e moglie codificato da un contratto nuziale, e dall'altro un impegno che la coppia assume nei confronti della Comunità, in ottemperanza a quanto scritto nella Genesi e cioè: "Crescete, moltiplicatevi e popolate la terra". Per l'ebraismo la vita solitaria è una sventura, il matrimonio senza figli un disastro e una buona moglie il maggior bene che si possa augurare ad un uomo!”

Francesca aveva probabilmente la pressione tra una massima di 180 ad una minima di 65. Il suo cuore pompava sangue che il sistema nervoso gli imponeva di pompare ma a tutto c’era un limite. Diede un’occhiata al suo ultimo acquisto: una borsa  Louis Vitton color arancio e beige con fronzoli pistacchio. Un sorriso di compiacimento gli tagliò il viso. Poi , vincendo una sottrazione neuronale apoplettica, tentò una replica.

“ ANDREA,IO PENSO CHE…”

“BEH, MIA CARA FRANCESCA, LASCIA CHE IO TI DICA COSA PENSO CON UNA BARZELLETTA EBRAICA:

Tre figli ebrei lasciarono la loro casa, si resero indipendenti e prosperarono. Quando si riunirono di nuovo parlarono dei regali che avevano potuto fare alla loro madre.
Il primo disse: Io ho costruito una casa enorme per nostra madre.
Il secondo disse: Io le ho mandato una Mercedes con l'autista!
Il terzo disse: - Vi ho battuti entrambi: voi sapete quanto piaccia alla mamma leggere la Torah e sapete che non ci vede molto bene. Io le ho mandato un gran pappagallo marrone che sa recitare la Torah nella sua interezza. Ci sono voluti 20 anni a 12 rabbini per insegnarglielo. Io ho contribuito con 1 milione di dollari all'anno, per vent'anni, ma ne è valsa la pena. Mamma deve solo nominare il capitolo e lui lo recita!
Poco dopo Mamà inviò le sue lettere di ringraziamento.
Scrisse al primo figlio: Maurizio, la casa che hai costruito è così grande. Io vivo in una stanza sola, ma devo pulire tutta la casa.
Scrisse al secondo figlio: Mosè, sono troppo vecchia per viaggiare. Resto tutto il tempo in casa, quindi non ho mai usato la Mercedes.
Scrisse al terzo figlio: Carissimo Manuel, sei stato l'unico figlio che ha avuto il buon senso di sapere cosa piace a sua madre. Il pollo era buonissimo!”

Cadde il silenzio nella stanza.
Francesca iniziò a ridere. La seguì Marina che, con un mezzo rutto, contribuì ad esacerbare la situazione. Andrea, con una manovra leggiadra, si sedette e attese che finissero di ridere.
Poi prese a ridere anche lui.
Erano tre amici.
Tre anime proiettate in questo mondo assurdo.
In quel martedì il loro obiettivo era stato quello di mangiare un pesce finto.
Da lì a non molto lo avrebbero finito tutto.
Insieme.

                                                                                                                A&A


sabato 21 giugno 2014

Funeral Party

Ho due ricordi distinti
del funerale di mio padre:
le scarpe di vernice che dovetti mettere
e il caldo.

Odiavo quelle scarpe di vernice.
Erano belle ma cigolavano.
Facevano un rumore insopportabile
ed avevano le stringhe sottilissime
e le mie mani erano troppo grandi.

Era una mattina d’estate
e faceva caldo
molto caldo.
Mentre mi piegavo per allacciarle
gocce di sudore cadevano dalla mia fronte
sopra quelle fottute scarpe.

Le maledicevo.
Ma erano belle.
Per le grandi occasioni.

E l’occasione era arrivata
piombata su di me
come un falco sulla preda.

L’uomo che aveva contribuito
a silurarmi in questo mondo schifoso
se ne era andato all’inferno.

E all’inferno
doveva far molto più caldo che qui.

I miei piedi erano gonfi
e le scarpe strette.

Ma tutto ad un tratto
il piede sinistro scivolò dentro alla scarpa
e il destro lo seguì a ruota.

Non avevo più scuse. Dovevo andare.

Vedevo mia madre indaffarata
invecchiata di 20 anni
19 dei quali per colpa sua.

L’aveva abbandonata
quando io avevo 2 anni e mezzo.

Non mi sopportava
perché piangevo,
perché mi cagavo addosso,
perché mangiavo prima di lui.

Gli rompevo i coglioni
e non faceva niente per nasconderlo.

Mia madre era succube.
Troppo stupida per lui.

E la picchiava.Senza ragione.
E lei piangeva.Con ragione.

Un giorno a pranzo
mi tirò una bottiglia di vino
e mi mancò
e la macchia rimase per anni su quel muro.

Io crescevo.

Lui ci aveva lasciato.
Ma quella macchia no.
Rimaneva a ricordarci di lui.

Ero pronto.
Vestito giusto,
scarpe giuste,
umore sbagliato.

Camminai.
Le scarpe iniziarono a protestare.

Sudavo. Ma m’incamminai.

Arrivammo all’ospedale.

Tanta gente. Troppa gente.

Nessuno piangeva.

I soliti discorsi si intrecciarono.
Le solite strette di mano.

Dovevo avere una faccia terribile
perché nessuno mi parlò.

Meglio così.

In fondo a uno stanzone, una bara aperta.
Era sorretta da due piedistalli.

Poco più in là una suora.
Stava seduta e anche lei sudava.
Ma pregava.
- tempo sprecato, sorella! - pensai

Il mio naso
con la sua infinita onestà
mi scaraventò nel cervello i primi odori:

sudore, fiori marci e formaldeide.

Ogni tanto qualcuno estraeva un fazzoletto
e si asciugava la mani e la fronte.

L’atmosfera diventò pesante.

Arrivò un addetto
e disse di stringere i convenevoli
e chiudere la cassa
dato il caldo...

Tutti annuirono.

Uno dopo l’altro gli passarono accanto. Per l’ultimo saluto.

Arrivò anche il mio turno.
Mi avvicinai
ed eccolo lì
quel figlio di puttana.
Avrei voluto sputargli in faccia. Ma non lo feci.
Non avevo più nemmeno un goccio di saliva.

Mi vennero in mente tante cose.

La sua mania per l’igiene,
il suo modo di voler vincere sempre e a qualunque costo.

E c’era riuscito.
S’era fatto i soldi.
E li aveva anche spesi.
Con migliaia di baldracche.

Mi diceva:
“ricordati che ciò che è importante nella vita è vincere, non partecipare, perchè qualunque stronzo può partecipare, ma a vincere è sempre e solo uno!”

Mentre finivo di pensare a quello
il coperchio fu messo
e iniziarono a chiuderlo.

Il caldo era insopportabile.
La suora grondava sudore ovunque.

Cercavo di immaginarla sotto la doccia.
Con il rosario appeso al rubinetto.

Quando la bara fu chiusa
chiesero chi volesse sostenerla.

Mi girai dall’altra parte.

Quattro uomini lo issarono sulle spalle.
Avevano la giacca e la cravatta.

E il caldo mi tirava calci nel culo.

Uscirono molto in fretta.
Lo deposero in una vettura apposita.
Il tragitto da lì al cimitero fu breve.

Lo seguimmo a piedi.

Il piccolo corteo varcò l’ingresso.
Attraversammo due campi uguali.
Tante croci, marmi, parole scritte.
Parole di lodi a chi non era più.
Quel cimitero,come tutti, era zeppo di persone insostituibili.

Le lucertole parevano le uniche
ad apprezzare il caldo.

Intanto i raggi del sole
usavano la mia testa
come un tamburo.

Arrivammo a destinazione.
Vidi un grosso buco con tanta terra ai lati.

Era profondo
buio
fresco.

Mi ci sarei buttato dentro
e avrei schiacciato un pisolino all’ombra.

Invece calarono lui. Con delle corde.

Quando arrivò in fondo
le sfilarono.

Qualcuno biascicò qualcosa. Forse una preghiera.

Una signora si chinò
raccolse una manciata di terra
e la lasciò cadere sulla cassa.

Avrei voluto fare anch’io lo stesso.
Ma non con la terra.
Mi sarebbe piaciuto riempire quel fosso
con la merda che mi aveva buttato addosso
in tutti quegli anni.

Ma non sarebbe bastato quel buco.
Neanche due.
Forse neanche cento.

La prima badilata di terra
fece un colpo sordo
insignificante
quasi in punta di piedi.

Poi seguirono gli altri.
E furono più allegri
secchi
decisi
costanti.

Un’ora dopo tutto finì.
Quintali di terra erano ormai su di lui.
- un ottimo concime per tutta quella roba - pensai.

Ineluttabilmente i vermi avrebbero presto banchettato di lui.

Ero felice di non essere un verme.
Ero felice di non essere uno di quei vermi.

Il caldo mi stava sciogliendo.

Decisi di andarmene.
Diedi un’altra occhiata
e conclusi che tutto si era compiuto.

Mio padre era al sicuro.
I suoi ricordi di me erano seppelliti con lui.

Le mie scarpe cigolavano.

Ero sudato,
stanco
ed incazzato.

Oltrepassai il cancello,
mi voltai,
gettai uno sguardo distratto
e lasciai gli ospiti di quel luogo
ad attendere l'ennesima sera.
Per mio padre sarebbe stata la prima.
Fosse stato vivo avrebbe detto: “ …un gran brutto posto per trascorrerla!”

Ma era morto.
Non sparava più cazzate.

Un sole arancione
stava tramontando
dietro le colline.
Lo osservai fino a che scomparve.
Poi,
faticosamente,
trascinai me stesso
dentro il mondo
che mi accolse.

                                                                                                    Alvaro.

martedì 17 giugno 2014

Al tempo in cui...


...una dopo l'altra
tutte le mie cose erano finite:

la famiglia,
la casa,
il denaro,
il senso della vita,
il rispetto verso me stesso.

Ero diventato nervoso e insofferente.

Vivevo in un monolocale
davanti al porto di Genova.
Costantemente in ritardo con l'affitto.

Il proprietario
che abitava qualche piano sopra me
non dimenticava mai di ricordarmi che ero un fallito.

Era lui che ritirava la posta
che arrivava dalle case editrici
per comunicarmi il loro rispettoso rifiuto.

“C'è posta per il grande scrittore!” - mi scherniva.
Io mi chiudevo dentro quella stanza
e aprivo le buste:

<...e dopo un attenta rilettura dei Suoi testi siamo lieti di informarLa che nel caso Lei desiderasse riunirli in un volume
al modico costo di...>

<...siamo spiacenti informarLa che, a causa del contenuto eccessivamente scurrile dei Suoi “testi”, non potremo...>


<...desideriamo inoltre informarla che anche scrittori di fama internazionale, dovettero autofinanziare i propri lavori per...>

<...e così questa è la nostra proposta: suddividere in due (2)
volumi i Suoi racconti e le Sue poesie dal costo complessivo di...>

finiva tutto nello scarico del cesso.
Era quello il mio posto: il cesso.

Ogni tanto entrava qualche donna in quella stanza.

“ questo posto fa schifo!” - dicevano.
“ se non ti piace puoi andartene” - era la mia risposta.

E se ne andavano.
Ma solo dopo aver preso una buona dose di cazzo.

Era così che funzionava.

Donne vestite bene e profumate
che provavano il brivido della povertà
accanto ad uno pseudo scrittore
che le avrebbe trattate
come a loro piaceva
e cioè come puttane.

Donne belle e brutte
donne giovani e vecchie
donne intelligenti e stupide

Donne che fingevano
di apprezzare ciò che scrivevo.
Donne con gli occhi languidi.
Donne silenziose.
Donne che puzzavano.
Donne a cui piaceva sentirsi dire: “ sei una troia!”

e tutte che rispondevano allo stesso modo: “ sono la Tua troia!”.

Per salvare le apparenze.

Ma sapevo che sarebbero state le troie
di chiunque fosse riuscito
ad entrare nelle loro mutande.

Una di loro mi disse:

“ Resta com me e la tua vita cambierà!”
“ La vita non può cambiare – risposi – puoi solo renderla più accettabile”.
“ Meglio una vita più accettabile che una vita di merda come la tua!” - gracchiò.
“ Meglio una vita di merda come la mia piuttosto che una vita
di merda 'accettabile' come la tua” - fu la mia risposta.

“ ADDIO!” - urlò mentre usciva dalla porta.
Nel richiuderla notai una busta infilata sulla maniglia esterna.
Non era quella di un editore.
“ ...e se non provvederà, entro due (2) giorni, al saldo dell'affitto da Lei dovuto, sarò costretto, mio malgrado, a chiederLe di abbandonare il locale di mia proprietà. In caso
ciò non dovesse avvenire La informo che provvederò allo sgombero coatto con le Forze dell'Ordine le quali...”.

Al tempo in cui

ricevetti questa lettera

ricordo che avrei voluto rincorrere
quella donna
che mi aveva promesso
una vita migliore

ma dopo tanti anni
sono certo che
sia io
che lei

facemmo la scelta giusta.


                                               Alvaro.