VOTAMI!

web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

martedì 20 dicembre 2011

Alva & Ale.

           

Ed eccomi di nuovo nelle braccia di un altro giorno! Merda, c’ho mica il carro attrezzi per alzarmi! Sento che la capoccia sta per esplodermi. Mi giro e mi rigiro sul divano e ho le ossa a tocchi. Porco demonio, devo darci un taglio con certe nottate che ti lasciano come un rifiuto. Manco il letto sono riuscito a centrare. Eh no, capo, così non va bene! Non sei più un pivello, voglio dire, un attimino di logica ci vuole ! Devi capire che se vuoi campare ancora qualche mesetto e darci dentro
col flauto di pelle, è necessario ristabilire l’ordine fisico e mentale.
Penso che da oggi in poi la parola d’ordine sarà G.O.R. che sta per Gestione Ottimale delle Risorse, cioè che,si, se voglio tirarmi due piste ogni tanto non c’è un nulla di male, voglio dire, ma due devono essere, capito capo? Vuoi farti il pieno di birra fallo pure, ma vai di cervello e lascia lo stomaco due dita sotto il tappo, così se dai qualche frenata qua e là non cola a terra, capito la furbata? Eppoi, cosa non da poco, non corri il rischio di perdere la reputazione con qualche pollastrella. Non so se intendi: se il tiraggio viene a mancare son problemi, sono!
Vabbò, cerco di alzarmi e mi srotolo in bagno. Caccio via un po’ di porcheria interna e  la doccia mi ristabilisce un odore più umano.
Vado in cucina e,ancora tutto sgocciolante, apro il frigo: naturalmente il vuoto è l’interprete principale,  mentre 3 lattine di birra Peroni semivuote sono le tristi spettatrici di  tutto ciò.
Ok, capo, il mondo è tuo. Apro le finestre e occhieggio la giornata come butta: niente male, per essere domenica. Il sole è già alto in cielo e la gente tutta indaffarata per negozi. Il solito ingorgo di macchine in Corso Perrone mi dà l’esatta dimensione della zona in cui vivo. Il  semaforo di piazza Massena sembra,ogni giorno che passa, che allunghi di qualche secondo la durata del rosso a discapito del verde. Mi sa che prima o poi ci attacco una catena e lo ranco via, quell’ammasso di ruggine ! Mi sporgo quel tanto che basta per mollare uno sputo sostanzioso sul parabrezza della macchina che sta usando il clacson come valvola di sfogo. Beccati questo, capo! Oh,  l’ha smessa subito! Però adesso urla che se mi affaccio e lui mi riconosce,  mi denuncia e me la farà pagar cara e intanto le macchine dietro iniziano a suonare e scoppia un casino da film da non credere. Saltello da una stanza all’altra, col pisello in libertà, felice di non essere impegnato in qualche traversata di donna da una parte all’altra. E’ come se anche lui si godesse quel riposo, quel delicato e fuggevole momento in cui nulla ci sfiora, nulla accade, nulla potrebbe frapporsi tra noi e l’oblio della più obnubilante pigrizia.
Su un tavolo trovo un tocco di cioccolato. Lo ingoio. Poi leggo sulla confezione che è scaduto da un mese: merda, penso, devo ricordarmi della G.O.R. e non lasciare tutto al caso. Devo lavorare su di me. Lavorare: ecco il punto! Il lavoro distrugge l’anima e il fisico e…oh,  ‘spetta un attimo che suona il telefunken.

“ Pronto qui è la segreteria telefonica di Alva. Se volete un insulto premete 1; se volete due insulti premete 2; se invece volete solo rompere le pelotas premete il grilletto della Vs pistola, assicurandoVi che la canna sia perfettamente introdotta nella Vs bocca;  se non avete una pistola di Vs proprietà premete 3.Vi sarà inviata il più presto possibile alla ridicola cifra di….”.
“ OHI, TESTA DI GOMMA, HAI FINITO DI  DIRE STUPIDAGGINI!”
“ Ciao Ale - è Ale - ti piace la mia nuova segreteria?”
“ Ma smettila, idiota, piuttosto come stai a grana?”

Ahi, ahi, ahi, sentivo già i dolori di un’ imminente inchiappettata.   

“ Eh! Hai toccato un tasto che è meglio lasciar perdere. Sono nella bratta: frigo vuoto, birra zero!”.
“ Ok, ricevuto al cento. Tutte conseguenze della carestia di pecunia, però stai tranki perché c’ho avuto l’idea del secolo!”.
Le idee di Ale, chissà perché , erano tutte stranamente collegate ai terminali nervosi del mio buco di scarico. Cioè: lui aveva le idee ed io le evacuavo irregolarmente; come giganteschi malloppi di feci che faticano ad uscire perché sono cementificati dal troppo tempo passato nella parte finale dell’intestino.
“’Scolta…c’hai presente il supermercato, quello di corso Perrone…come si chiama…? “
Ingoiai un tot di saliva che ingombrava il portello superiore.
“ Il Di Meglio? “ Lo imbecco nella sua narcotica lacuna .
“ Esatto! Proprio quello, dicevo, quel posto alla sera ci trovi due,al massimo tre pollastrelle innocue. A volte c’è un tipo, un ebete tutto dritto ed ossequioso, non so se mi spiego…della serie SIGNORAVUOLECHE L’AIUTIHABISOGNODIUNAMANOSENONLEBASTANOI SOLDINONSI PREOCCUPIMELIDARAUNALTRAVOLTA…e altre cavolate del genere”.
Beh, non sono cavolate, brutto imbecille di un cervello spappolato, si chiamano buone maniere, educazione, civiltà dell’ostia; mica noccioline ,scimmione d’una bestia che non sei altro – penso.
“ E allora? - sbuffo da sentirmi a un km - Hai bisogno di far la spesa?”
Mi esce un ghigno al pensiero di Ale con le borse piene di verdura, prezzemolo, pomodori e altre faccende da massaia rinco.  
“ Ehi, Alva, hai capito alla grande di cosa si tratta. Devi dirmi solo se ci stai!”
Ale ha un pregio: il dono della sintesi. Quando parli con lui sei sempre certo di avere il passaporto per la comprensione universale.
“ Ehi Ale,cioè voglio dire, ma come stai? Sai come si chiama questa? Una fottuta rapina ! Capisci che, cioè, mica ciò voglia di passare altro tempo al Marassi Hotel!”.
“ Sei il solito cacasotto!
Quando Ale s’incazza, inizia a ragliare come un somaro su una salita eccessivamente ripida. 
“ Ehi, ehi, frena un pelino Ale, non ti sembra un posto rischioso? Voglio dire metti che mentre noi, cioè, facciamo il servizio e ti arriva un polìs  che non ha un belino da fare e noi ce lo troviamo lì come una maledetta muraglia cinese, e quello magari tira fuori il ferro e gli dà voce, cioè, non è che ti sto dicendo questo perché ciò paura però,capisci Ale, è da poco che sono uscito dal collegio e vorrei godermi un po’ la vita, compreso l’inghippo? “. Sento che dall’altra parte Ale si sta preparando a spararne una delle sue, lo percepisco chiaramente dal suo silenzio rotto solo da un leggero succhia succhia tra un dente e l’altro.
“ Chi accidenti vuoi che entri all’ora di chiusura se non qualche vecchia rimbambita che ha bisogno di un mazzo di prezzemolo? Fidati del vecchio Ale, è tutto calcolato: appena abbassano a metà la serranda noi entriamo e diamo la paga a tutti!”.
“ Ale, santo cielo, è proprio sotto casa mia, anzi, la casa di mia sorella e sai come sono ‘stè cose…”
“ Stai tremando dalla paura, vero?” mi sibila lo psicopatico.
“ Manco per idea, è che stasera, belan Ale, stasera c’ho un impegno e…”
“ Alva, passo a prenderti stasera verso le sette e trenta, non si discute!”
Ha chiuso il telefono. Sono di nuovo nei casini. Lo sento.

                                       Fine prima parte.                                          Alva.

23 giorni di vacanza gratis.

  

Tutto accadde una sera di molti anni fa. Ero giovane e scalpitante. Il periodo in cui lavoravo come un pazzo nei mesi estivi, per poi andare a far baldoria oltre confine. Di solito nella vecchia e cara Inghilterra. Precisamente a Liverpool. Quella città era come una baldracca di lusso: bella e volgare al tempo stesso; ma se avevi un bel gruzzoletto in tasca, ti avrebbe fatto godere in maniera perversa. Dicevo, andavo là perché c’era birra eccellente e la gente mi piaceva. Non so se io piacevo a loro, ma queste sono cose che non ti chiedi mai, soprattutto quando ci sei in mezzo.

Frequentavo locali terribili, bazzicati perlopiù da teppisti e padri di famiglia alcolizzati.
Stavo bene in quelle bolge. Nessuno faceva domande e, particolare non trascurabile, nessuno dava risposte in caso ce ne fossero state. Eravamo lì tutti per lo stesso motivo: bere.
Si sapeva che non avremmo dovuto romperci l'anima l’un l’altro, pena risse furibonde durante le quali chiunque poteva diventare una bestia assassina incontrollata. Per farla breve, quella sera entrai in un pub tra la Evelyn C.H.  street e la Harbor Columnis road. C’era poca gente e, come al solito, per farmi amico di tutti, offrii da bere ai presenti. Era una mossa astuta. Creavo intorno a me l’aura dell’idiota, di quello che avrebbe pagato di nuovo, di quello da tenere buono per il bicchiere successivo.
Il cameriere portò le birre e noi le assalimmo: erano pinte da un litro e quando ne finivi una, ti era a malapena passata la sete. Ne ordinai un altro giro. anche per tutti gli altri. Ci fu come una piccola ovazione.

“ LUNGA VITA!” - urlò qualcuno.

Mi tastai la saccoccia e valutai positivamente il mio stato economico. Era okay. Mi rilassai. La cosa peggiore che ti poteva capitare, in quel genere di posti, era di rimanere senza denaro.
Attaccai la seconda pinta e iniziai ad assaporarla. Questa volta da professionista: centellinandola con cura. Ero nel bel mezzo di un ragionamento in cui valutavo
quante possibilità potevano esserci, in una ipotetica scala da 1 a 2, che da un momento all’altro potesse entrare Alessandro Baricco, piegato in due dalla stanchezza per aver scaricato, da solo, un container di pellame proveniente dall’India,  quando entrò un ganzo vestito da straccione anzi, come la controfigura di un pezzente in un film di Tarantino sugli “homeless”. Lo guardai. Non era Baricco. Non ci somigliava nemmeno un po’. Peccato! - pensai . Gli avrei offerto una birra anche se lui, in seguito, da quel gesto, ci avrebbe scritto un romanzo. Il tipo ordinò una birra che arrivò quasi subito. Prese la pinta e si avvicinò a me. Lo guardai venirmi incontro e qualcosa dentro di me si attivò con la solita vocina che iniziò a sussurrarmi: “ Stai all’occhio, amico mio, quel fottuto figlio di N.N. ha tutta l’aria di uno che potrebbe, in un amen, scaraventarti nei casini!”.
Al diavolo! - risposi alla vocina - e mi rovesciai una mestolata di rossa giù per il gargarozzo. Il cencioso si piazzò, baldanzosamente, davanti a me e disse: “ Ehi capo, togliti di torno!”.

Abbassai lo sguardo, diedi un sorso alla mia birra e risposi: “ C’è qualcosa che non va, amico?”.
Ebbi come l’impressione che la mia domanda lo avesse fatto incazzare.
“ Questo tavolo è mio!” - urlò il demente.
“ Questo tavolo è di chi si siede!” - risposi, con la calma tipica di chi possiede una saggezza interiore indiscutibile, ma che poi è spesso incline a dimenticarsela quando gli eventi materiali prendono una brutta piega.

Lo straccione diede un colpo alla sua birra.
Io diedi un colpo alla mia.

“Ascolta - disse il rifiuto di fogna - ti do tre minuti per togliere le tue  chiappe dalla sedia del MIO tavolo!”.
“ E io te ne do altrettanti  per toglierti davanti a me!” - risposi.

Diede un altro colpo alla sua birra.
Diedi un altro colpo alla mia.

Ci stavamo studiando. Come fanno i pugili.
Pensai a cosa avrebbe fatto Baricco. Probabilmente avrebbe chiesto un “time out” per prendere appunti.

Ad un tratto si chinò e mi sputò nel bicchiere. Rimasi lì a guardare quella saliva bianca che galleggiava su quell’ottima rossa di Edimburgo poi, lentissimamente, mi alzai con in mano la pinta. Il barbone, ghignando a 16 denti marci, fece mezzo passo indietro. TROPPO POCO, BABY - pensai - e come un fulmine gli sparai il boccale sulla parete destra del suo stupido e vuoto cranio.
Sentii un CRASH. Poi ci fu un fuggi fuggi generale. Sicuramente qualcuno uscì senza pagare il conto. Mi sovvenne che l’avevo già pagato io. Pazienza! Forse avrei dovuto scappare  ma poi pensai che in ogni finale che si rispetti, il protagonista c’è sempre. Così rimasi e tornai a sedermi. Mi arrovellai il cervello per qualche istante nel pensiero di cosa avrebbe fatto Baricco in quel frangente, ma non mi venne in mente nulla. Dirottai i miei pensieri su Hemingway: nulla. Pound: nulla. Baudelaire: nulla. Azzardai Prevert: nulla. Poi mi venne in mente Bukowski e le sue risse da bar: in quel preciso momento mi venne da ruttare. Ruttai con il gorgoglio che solo la birra provoca. Stavo molto meglio! Ringraziai mentalmente il grande scrittore, poiché in quell’occasione non c’era null’altro da fare se non compensare la pressione interna del proprio organismo.

Guardai il pezzente: era a terra come morto, con la testa appoggiata al bancone e un occhio aperto a metà. Il bicchiere, che aveva provocato quell’improvviso stato di torpore al tipo, stranamente, era integro; ma la birra con sputo era schizzata così lontano, in un angolo nascosto del locale, che quasi certamente, il cameriere, il giorno dopo, si sarebbe chiesto come aveva fatto a non vederla il giorno prima, durante le pulizie.

Poco dopo arrivò la polis. Tirarono su l’idiota e qualcuno indicò me. Arrivò un armadio a quattro ante, alto circa due metri e con i capelli a spazzola.

“ Cosa diavolo è successo, amico?” - mi chiese.

Ero felice di essere suo amico.

“ Non so mica - risposi - ha detto che questo tavolo è suo e mi ha sputato nel bicchiere!”.
L’armadio capì immediatamente. Si allontanò un attimo e poi tornò.

“ Ci sei andato giù duro, eh capo ? Ti costerà caro!” - disse con uno sguardo che è tipico del pitbull quando hanno già pranzato.

“ Lo so - risposi facendo sissì con la testa - ma è stata una gran soddisfazione!”.

Sorridendo mi schiaffò un paio di braccialetti luccicanti.

Mi portarono nella prigione della contea. Un bel casermone pulito e ordinato.
Subii un processo in cui si concluse che avevo agito in stato di provocazione, ma con un eccesso di legittima difesa. Il giudice stabilì che se avessi pagato avrei ottenuto immediatamente la libertà. Quello che possedevo era di gran lunga inferiore alla somma richiesta  per la mia cauzione. Ero in “iunaited chingdom” per pagarmi la birra, mica per foraggiare lo stato, quindi per 23 giorni rimasi attaccato alle tette della giustizia inglese.
Un’esperienza indimenticabile!
La finestra della mia cella dava sul mare e in lontananza mi giungevano gli ululati delle navi in partenza.
Per tutto il tempo che vi rimasi, non feci altro che domandarmi quale sarebbe stata la loro destinazione.

                                                                                        

                                                                                         Hal

venerdì 16 dicembre 2011

Piazza Massena. Fermata del 60.


Hal Monleon era appena uscito dalla palestra. Si stava rimettendo a lustro, dopo anni passati a ubriacarsi e a mangiare come un lottatore di Sumo all’ingrasso. Stava facendo quella che in gergo si definisce “l’asciugatura" , e che in parole povere significa patire una fame dell'ostia e scontare in anticipo le pene dell’inferno tra saune, bagni turchi, pesi e corse sul tapis roulant. La cosa gli garbava. La pancia stava lentamente scomparendo e nelle sue braccia stavano iniziando ad affiorare i muscoli che per anni erano stati soffocati da grasso e tossine. La pappagorgia, abituale appendice del suo sottomento, era scomparsa. Perfino il suo pene aveva tratto beneficio da tutto quell’allenamento: il cuscino di ciccia che stava agli inguini, si era assottigliato, lasciandone scoperti altri 2 centimetri. Aveva calcolato che nei prossimi sei mesi, un altro centimetro avrebbe onorato della sua presenza il prezioso inquilino.
Era felice, anche se sapeva che un uomo non deve mai essere il piedistallo del suo pisello. Mentre attraversava la strada che dà alla Fiumara, si accorse di non avere nemmeno un biglietto per l’autobus, così entrò in un tabacchino.
L’uomo che sta dietro il banco è un vecchio. Ha la faccia corrugata dall’età e i suoi occhi paiono la vetrata della porta di un autogrill dopo il passaggio di mille turisti tedeschi che hanno spinto tutti nel medesimo punto, anziché tirare.
Hal deve scandire più di una volta ciò che vuole, poiché l’uomo dietro il banco
manifesta evidenti segni di sordità.
 Ecco: la cosa più odiosa che ti può accadere è il dover ripetere più volte una cosa uscita dalla tua bocca. In quei casi avresti voglia di andartene, almeno questo é quello che capita a me, oppure vorresti urlare al mondo di quanto ne hai piene le tasche di tutti i  sordi che lavorano in posti a contatto con il pubblico. Non è che potrebbero, per esempio, guadagnarsi il pane accanto ad una pressa per lo stampaggio di marmitte catalitiche.NO! I sordi sono tra noi ma soprattutto stanno dietro al banco di un tabacchino. Ed è proprio da dietro a quel banco che ti devi sorbire il perché di tutta quella sordità. Devo capire. Dobbiamo capire. Il mondo intero ha da essere informato! Sono quei maledetti vent’anni passati accanto alla pressa dell’Ilva
che gli hanno sfondato i timpani. Non lo sapevo?  Bè, ora lo so, tutti i presenti lo sanno, rimane l’intero genere umano da informare, ma quella è un’impresa più ardua.
Afferro il biglietto, deposito 1 euro sul banco e lo lascio mentre ancora mi sta sciorinando l’elenco delle sue disgrazie passate di cui, logicamente, non me ne frega un accidente.
Imbocco l’uscita del centro commerciale mentre un gruppo di tamarri di quart’ordine
sta entrando. Uno di loro mi getta un’occhiata ostile, con occhi sporchi, appannati da qualche Peroni di troppo. Lo squadro e realizzo in un attimo la sua provenienza: CEP alias zona da allerta rossa. Il tipo si accorge che l’ho inquadrato e dice qualcosa agli altri. Ora tornano indietro e mi si incollano alla schiena a 5 metri di distanza. Okkey, ci siamo, era un po’ che mi annoiavo. Sento che da dietro iniziano a dire cose tipo: ehi imbecille, perché non ti fermi? hai per caso paura?
Sento l’adre che inizia a pompare in circolo e ho i pugni stretti con le nocche bianche. Devo stare calmo. Non và un niente bene andare in over- drive da subito. Ennò! Inizio a iperventilare con calma.
Mi blocco di colpo e mi volto. Ed eccoli qui: tre subumani con la faccia da tubercolosi che ridono con i loro denti marci.
“ Io non so come fai a vestirti in questo modo!” - mi fa uno di loro.
E’ un imberbe mononeuronico che avrà 19 anni, con un’acne devastante e due orecchie piantate ai lati di una testa oblunga come un cocomero di medie dimensioni. Il suo Q.I. deve essere così basso da costringerlo a consultare la propria carta d’identità nel caso, molto remoto, che qualcuno gli chieda il suo nome.
Gli altri due sono come specchi ai lati di questo poveretto: ripetono qualunque movimento e la parte finale di qualunque discorso. Come quando vai in montagna e ti metti ad urlare in una vallata attendendo l’eco di ciò che hai detto.
“…’n questo modo!” - echeggia uno.
“…già ‘n questo modo!” - fa l’altro.
Si muovono a scatti, ondeggiano, masticano perennemente, tirano su col naso, sono euforici, attendono che il capo parli, lo osservano.
“ Ti abbiamo visto come ci hai guardato! Cosa pensi che noi siamo, EH?” - abbaia mister acne.
“…noi siamo, eh!” - ripete uno.
“…noi siamo, eh!” - ripete l’altro.
“ Siete del letame, ecco quello che credo voi siate. Puro, fumante, disgustoso letame!” - replico con un sorriso a tutto tondo.
“ Ah si?” - fa il capo.
Gli altri due tacciono. Non se lo aspettavano. Uno guarda l’orologio. Forse la mamma lo aspetta. Magari le ha detto che sarebbe tornato dopo dieci minuti.
L’altro deglutisce lentamente. Ha smesso di masticare. Secondo me se la sta facendo addosso.
“ Si!” - faccio io – Letame di maiale...il peggiore!.
A quel punto mi salta il contatore e mollo un cartone da 80 chilogrammi a quello alla mia destra...SBAAAMMM! Uno spruzzo di sangue inizia a veleggiare nell'aere – come direbbe D'Annunzio – e inizia un fuggi fuggi generale.
Mi volto per caricare il sinistro e l'acnoso imbecille
 mi è addosso con una gragnuola di pugnetti da solletico. Me li prendo tutti con un principio di godimento e pregusto già il finale. Con una gomitata micidiale gli spappolo il naso e gli incisivi poi, quando è a terra, gli saccagno lo stomaco con un paio di bordate numero 47 Adidas.
Quello che osservava l'orologio sta correndo verso la salvezza.
 Questa sì che è amicizia! - penso .
Che strana la vita: un momento stai mangiando un panino e bevendo cola e l'altro sei a terra senza denti con la prospettiva di nutrirti via flebo per un po' di tempo!
Arriva quello della sicurezza: “ SANTO CIELO! - esclama – cosa è  successo?”.
“ Investigatore Hal Monleon – replico tirando su per il naso – i ragazzi mi volevano derubare e hanno preso la paga!”.
“ EHI AMICO... NON SONO MODI QUESTI! “ - sbraita quello in divisa.
“ SONO MODI SI!, COSA VOLEVI?  CHE MI LASCIASSI PESTARE DA 'STI DUE SUBUMANI?”.
La guardia giurata guarda me e i due a terra, poi afferra la ricetrasmittente e sibila qualcosa nel suo interno. Uno dei due a terra si lamenta.
“ PORCA SCHIFOSA, MI HA SPACCATO I DENTI QUEL BAST...” - e lì si becca un altro calcio che lo sposta di mezzo metro.
Faccio un  sorriso e mi infilo le mani in tasca. Un mazzo di chiavi si fa sentire.
“ Accidenti” - esclamo.
Mi è venuto in mente che debbo restituirle e l'autobus, che si ferma in piazza Massena alle 16.15, sta quasi per arrivare.
Come se nulla fosse accaduto mi incammino verso Cornigliano.
“ EHI, UN ATTIMINO! - urla quello della security fiumaresco – CHE CI FACCIO DI QUESTI?”.
“ Boh – rispondo mentre mi allontano – buttali in mare!”.
Inizio a correre. Attraverso il ponte. Scendo nel sottopasso e leggo qualche graffito:

HASTA LA VISTA SIEMPRE!
          LUCA VAI A RUBARE!.
                    AMO LUIGI.
                              BLACKBLOCK FOREVER.
                                       NO ALLA MOSCHEA DI CORONATA.
                                      VIETATO L'INGRESSO AI CANI E AI SUDAMERICANI.
                              RESPIRI NAFTA.
                    GENOVA 2004: UN PAR DI BALLE!
          SCONVOLTRI.
                                       SESTRI POTENTE.
AL C.E.P. SI ASCOLTA IL REP.

Salgo gli scalini.
Lei è lì che mi aspetta.
“ Ciao Hal, come va?” - mi chiede.
“ Tutto okkey!” - rispondo.
Mi sfilo il mazzo di chiavi dalla tasca e glielo porgo.

“ Scusa il ritardo.” - sbanfo con ancora il fiatone.
“ Oh, nulla!” - risponde.
Brava ragazza la Lina. Siamo cresciuti insieme. Ogni tanto mi lascia la sua macchina per farla muovere un po' e io ne approfitto per fare delle compere alla Basko.
Arriva l'autobus. Un sacco di passeggeri senza biglietto sale. La intravedo dai vetri sporchi che mi fa ciao ciao. Alzo il braccio destro e muovo l'aria. Il mezzo inizia la sua salita per Coronata.
Sosto per qualche attimo nel cabinotto di attesa della fermata. Due tossici stanno parlando.

“...cioè, capisci? È un po' che non ho la scimmia e sto bene, sto…come dire... bene…e mi hanno dato il  SERT e mi hanno detto che, si, và un po' meglio, ma le dosi di metadone sono troppo poche…voglio dire… capisci? ma io gli dico:ehi, tipo, mica ci ho voglia di morire per astinenza e quello fa si si con la testa ma ride col suo collega, voglio dire, cerca di capire, non se ne può più, cioè, capisci?”

L'altro drogato , mezzo agonizzante, annuisce con i capelli unti e la bocca sdentata.
Sono già morti ma ancora non lo sanno. E' solo questione di tempo.
Un vecchio mi si avvicina.
“ Non creda a quello che vede nelle pubblicità!” - sbotta.
“ Cioè?” - chiedo.
“ Sono tutte storie! Un mucchio di parole senza senso”. - urla.
Gesù, quanti pazzi ci sono in questa zona? - penso.
Due bambini litigano per un pallone.
Un negro, con gli occhiali a specchio, è appoggiato al semaforo.
Un tassista legge il Secolo XIX.
“ Vogliono rimbambirci per farci comprare i loro prodotti!” - continua il vecchio.
“ Ah si?” .
“ Tutta bratta di terza categoria!” - sputacchia l'uomo.
“ Mmmhhh....” - faccio io.
“ Per esempio – continua il vecchio – lei sa che il caffè non è più quello di una volta?”
“Mmmmmhhhhhhh...” - rifaccio io.

Un sudamericano con bandana, cappellino, maglietta bianca col numero 12, pantaloni da clown e 8 collane d'oro appese al collo sta passando. Saluta un altro compare olivastro e urla: “OHI AMIGO, TODOS BIEN?”.
L'altro lo raggiunge e iniziano a discutere.

“ L'altro giorno – ricomincia imperterrito il vegliardo – ero al Di Meglio e sa che mi è successo? Eh? Lo sa?”.
“Mmmmmmhhhhhhh.....” - ririfaccio io.
“ E' successo che prendo un pacchetto di caramelle, quelle alla liquirizia, come si chiamano...accidenti , ora non ricordo...poi mi viene in mente...dicevo?  Ah, si...
allora prendo il sacchetto e lo apro, sfilo una caramella, me la metto in bocca e... sa una cosa? “.
“Mmmmmhhhhh...”
“ Ebbene...lei non ci crederà ma NON ERA LIQUIRIZIA!”.
Il vecchio ora mi osserva tutto goduto e con gli occhi sbarrati. Come se si attendesse qualche mia reazione particolare.
“Perchè ha aperto il pacchetto?” - chiedo.
“ Cosa?” - fa l'altro.
“ Si, voglio dire: lei ha aperto il pacchetto di caramelle prima di averlo pagato. E' una cosa che non si deve fare.”
“ Se è per questo lo fanno tutti!” - sbotta l'anziano.
“ Mal comune mezzo gaudio, eh? “ - replico io.
“ Tutti mangiano e bevono all'interno di un supermercato!”.
“ Mmmmmhhhhh...è anche vero che miliardi di mosche si nutrono di cacca, ciò non significa che la cacca sia buona!” - pontifico con un sorrisetto bastardo.
Arriva il 60. Salgo. Lo saluto. Sento che mi odia. Gli faccio ciaociao dal vetro. Mi fa il dito medio. Cari vecchietti!


                                                                                         Hal

lunedì 5 dicembre 2011

Un ricordo.

La domenica era un giorno speciale. Arrivavano i parenti. La nonna iniziava a cucinare alle sette del mattino. Ed erano ravioli alla carne, gnocchi, pollo alla cacciatora, insalata russa, bollito misto con bagnetto, almeno due torte farcite e biscotti vari. L’unica deroga in quella fatica immane era il gelato, sempre coppe all’amarena, che mi mandava a comprare al bar sotto casa. Gli zii arrivavano solitamente verso le 12.30. Sapevano che la nonna non tollerava i ritardi quindi, crollasse il mondo, si doveva essere intorno alla tavola non oltre le 12.45. Andò avanti così per anni fino al giorno in cui, per cause a me sconosciute, entrarono in casa alle 13.30. Ricordo ancora che la nonna, verso le 12.50 ci fece sedere a tavola e ci ordinò di iniziare il pranzo anche senza di loro. Quando arrivarono, dopo essersi profusi in mille scuse, si sistemarono anche loro intorno al tavolo. Lo zio a capotavola, sua moglie accanto a lui, mia cugina accanto a mia zia e il suo fidanzato accanto a me. Si chiamava Dario. Lavorava alla Carello di Torino, una fabbrica dell’indotto FIAT. Era un ragazzone di un metro e ottanta con un sorriso disarmante. La nonna in silenzio, iniziò a servire in tavola. Lei si sedette per ultima. Iniziarono a mangiare sempre in silenzio.  D’un tratto Dario disse:
“ COMPLIMENTI ,SIGNORA, SONO PROPRIO BUONI!”.
Si riferiva ai ravioli. La nonna sorrise. Io annuii con la bocca piena. Erano davvero buoni. Meravigliosi frammenti di gioia sensoriale.
Continuammo a mangiare. Tutti si aspettavano che la nonna sbottasse in qualche reprimenda o in una delle sue proverbiali citazioni in dialetto piemontese, destinate   a essere ricordate per sempre.  Invece non disse nulla fino a quando,  dopo aver servito il caffè, con un filo di voce, in una specie di cantilena, dichiarò:
“ ANCOI A IO’ FINI ED FE’ DA SERVA A VUIOCER”. Che tradotto significa:     OGGI HO FINITO DI FARE LA SERVA PER VOI. E così fu. Da allora, alla domenica, la nonna cucinò solo per me e mia madre.
Dopo quasi 25 anni, una sera,  mentre mia nonna era sul balcone di casa sua, poco prima di morire, ripensando a quell’episodio, mi chiese se in quell’occasione fosse stata troppo severa. Le risposi di si. Rimase pensosa per un po’ per poi rivolgersi a me chiedendomi:
“ COSA NE DICI DI ANDARE A PRENDERE DUE GELATI ?”Mi diede una banconota con un sorriso e io, come 25 anni prima, scesi le scale del caseggiato a rotta di collo per andare a prendere due coppe all’amarena nel bar di sotto.


                                                                                                              Hal

domenica 4 dicembre 2011

MATER FUR

La mamma prese per  mano il bambino e gli chiese se era felice. Il bambino la guardò e con un sorriso a metà rispose positivamente.  Immediatamente la donna cambiò umore. Divenne seria e con uno strattone lo esortò a camminare tirandoselo dietro. Arrivarono in una via tutta illuminata dove c’era un negozio di profumi. Una volta entrati , dopo una rapida occhiata al banco espositivo, la donna, mentre la commessa era distratta dal bambino, afferrò un flacone di una nota marca e lo infilò nella sua borsa.  Il bambino sapeva cosa la mamma stava facendo. Era tanto tempo che glielo vedeva fare. Non le aveva mai chiesto il perché  ma dopo ogni volta, la vedeva felice, tranquilla e calma: il che , per lui, significava niente botte alla sera. Significava anche una cena calda e i cartoni alla tivù. Aveva sentito a scuola che prendere le cose senza pagarle significava rubarle.  Si finiva in galera. Non sapeva bene cosa significasse stare in galera ma era senz’altro meglio di una serata con sua madre quando tornava a casa senza esser riuscita a rubare nulla. E in quel caso era sempre colpa sua: o non aveva distratto abbastanza la commessa o aveva fatto trasparire qualche emozione. E poi cresceva. Non era più il piccolo frugoletto con le guanciotte rosse che ti veniva voglia di baciare e coccolare. Iniziavano a comparire i primi brufoli e lo sguardo stava diventando da teppistello. Era anche  troppo alto per la sua età il che, per lui, come al solito, significavano problemi. Una sera, dopo cena, la madre lo colpì senza motivo e lui, per la prima volta, si ribellò ma lei gli lanciò una scodella in volto. Il giorno dopo, a scuola, durante l’ora di ginnastica, il professore gli chiese cosa fosse quel taglio. Il ragazzo tentò un sorriso che fu più chiaro di qualsiasi risposta. Quando tornò a casa non trovò la madre ma vide che , ad attenderlo con una valigia verde di cartone rigido, c’era suo padre. Una specie di gigante che sorrideva sempre, con due mani grosse come vanghe e piene di calli. I calli  significavano lavoro. Glielo avevano detto a scuola. Un giudice gli aveva negato la sua presenza perché era povero. A scuola  aveva anche sentito che un uomo onesto, il più delle volte, è povero. L’uomo gli disse che sarebbe rimasto da lui per un po’. Si guardarono negli occhi. Il ragazzo non disse nulla. Uscì da quella casa con un sorriso in più: quello di suo padre.

                                                                                                           Alva.

Il mondo all'esterno.

                    
Lorenzo era seduto in auto. L’orologio digitale segnava le 15.30 e da oltre 10 minuti la radio trasmetteva notizie terrificanti circa l’alluvione che stava mettendo in ginocchio Genova. Con un pesante sforzo dei muscoli del collo buttò un’occhiata a sinistra: la pioggia scrosciante batteva sul vetro con una forza inaudita ed egli cercava di individuare con lo sguardo, in una sorta di ipnotica danza oculare, la consistenza di ogni singola goccia prima che esplodesse sul finestrino. Il sudore, ogni tanto,  gli colava sulle palpebre costringendolo a strizzare gli occhi. Il motore era spento ma la ventola continuava a diffondere il calore rimasto all’interno dell’abitacolo. I vetri si stavano appannando. Con un altro sforzo girò la testa alla sua destra e, attraverso un lembo di vetro ancora trasparente, vide il grigio scuro del cielo che si contraeva e dilatava come il muso di un orso selvatico. D’un tratto la radio si spense. Istintivamente guardò l’orologio: mancavano 3 minuti alle 16. Erano passati 27 minuti. Si spense anche l’orologio. Inspirò ed espirò affannosamente.  Il rimbombo della pioggia sulla macchina evocava in lui i giorni lontani del duro lavoro nelle officine dell’Italsider, quando per parlare con qualcuno, oltre a gridare, dovevi sbracciarti per farti vedere , tanto era il rumore della pressa meccanica che scandiva, con boati tremendi, la giornata lavorativa. A Lorenzo, quella pressa,  gli aveva fatto schizzare una scheggia di metallo nella spina dorsale ed ora, chiuso in quella macchina, con acqua fredda e sporca fino alle braccia, capì che la sua vita sarebbe finita proprio in via Fereggiano, spazzata via da un alluvione, insieme alla sua fedele sedia a rotelle su cui aveva percorso centinaia di volte il tragitto Foce – Boccadasse. Quando l’acqua del fiume capovolse  l’auto , anche il mondo all’esterno, per Lorenzo, si spense.

                                                                                                        Alva.



sabato 24 settembre 2011

A Shakleton

Sei partito dall’Inghilterra nel ’14.
Volevi attraversare a piedi l’Antartide.
Sapevi di essere il primo a tentare di farlo.
Ma l’Endurance
la nave sulla quale viaggiavi
rimase intrappolata dai ghiacci e affondò.
Hai deciso di lasciare la maggior parte dei tuoi uomini
in una specie di campo sul ghiaccio
e sei  partito
alla ricerca di soccorsi
in direzione della Georgia Australe
con una scialuppa
e 5 marinai coraggiosi.
Hai lottato contro onde oceaniche
burrasche
e venti micidiali.
Alla fine sei approdato su un isola
con montagne alte e ghiacciai.
Hai lasciato ancora 3 uomini
in un altro campo
e scalato una montagna
con i restanti 2.
Dopo aver raggiunto una base baleniera
hai fatto partire i soccorsi
che per due volte sono falliti.
Solo al terzo tentativo
2 anni e 10 mesi dopo la partenza
sei riuscito a portare in salvo tutti i tuoi uomini.
Tornato in patria eri un eroe
e il tuo buon amico Raymond
il fondatore dello Scott Polar Institute  scrisse su un giornale:

“Mettete Scott a capo di una spedizione scientifica e  Amundsen per un raid rapido ed efficace. Ma quando siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita, inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton!”

Dopo aver letto
gettasti il giornale a terra
e lanciasti un’occhiata
oltre la finestra del tuo studio.
Pioveva forte
e l’acqua lavava le strade
con forza inaudita.

“ Sono ancora vivo” – pensasti
“Ancora vivo!”

Delle gocce caddero sul pavimento.
Non era pioggia.
I tuoi occhi
finalmente
nel silenzio della solitudine
non obbedirono ai tuoi ordini.
.

Alvaro.

martedì 20 settembre 2011

Considerazione 2

Procedo molto lentamente, perché la natura è per me estremamente complessa, e i progressi da fare sono infiniti. Non basta vedere bene il proprio modello, bisogna anche sentirlo con esattezza, e poi esprimersi con forza e chiarezza.

Considerazione 1

Ho una sensazione lieve, ma non riesco ad esprimerla. Sono come uno incapace di usare la moneta d'oro in suo possesso.

sabato 17 settembre 2011

A Livingstone.

Io che non sono
mi chiedo
se la tua lontananza mi lascia indifferente.
Quel che mi strugge
però
è il dolore che
acuto
dentro di me
riposa.

Si è consumata
l'ardente preghiera di pochi attimi
che il mio vecchio padre Neil
fece salire al cielo.

" Aiutalo, o mio Signore! E' così giovane!"

Camminai dritto e forte
per tutti gli anni che mi furono concessi
e in un piovoso giorno di maggio
vecchio e canuto
nell'Africa che avevo tanto amato
mi addormentai nella morte.

Io che ora
non sono più mi chiedo:
la mia lontananza
caro amico Stanley
ti lascia indifferente?

" No, i suppose!"

Hal

giovedì 15 settembre 2011

L'appuntamento.

Era una bella e fredda mattina d’inverno in mezzo a quelle montagne. Direi anzi gelida. La notte appena trascorsa aveva ghiacciato completamente il laghetto antistante alla loro capanna.
Gli alberi intorno erano carichi di neve che ne appesantiva i rami e li piegava fin quasi a spezzarli. L’uomo si alzò dal suo giaciglio di fieno ricoperto di stracci per primo. Aprì con fatica la pesante porta di legno e si diede da fare per rimuovere la neve che vi si era ammassata contro durante la notte. Quand’ebbe finito diede una lunga occhiata intorno e rientrò. La sua donna tossiva. L’aria era viziata e puzzava, ma non si poteva far entrare freddo perché il loro bambino stava ancora dormendo. Entrambi si diedero da fare per accendere il fuoco. Quando la fiamma iniziò a crepitare, intorno a loro si levò del fumo. L’uomo prese una grande pezza di pelle di capra ed iniziò a sventolarla affinché deviasse verso la piccola apertura a mo’ di camino posta più in alto. Il fuoco aveva preso bene ed il fumo si era dileguato.
Ora il calore stava accarezzando ogni cosa intorno.
L’uomo agguantò una specie di pentola ed uscì nuovamente. La riempì di neve comprimendola per bene con forti schiaffi. La donna mise sul fuoco la pentola e trasformò la neve in acqua e poco dopo in acqua calda. Quando iniziò a bollire versò all’interno delle frattaglie di pollo e capra mescolando con un corto pezzo di legno, aggiunse qualche manciata d’erba e pezzi di frutta ormai secca. Il bimbo si levò e corse prima dalla mamma che gli diede un bacio sulla fronte e poi dal padre che lo prese in braccio e lo strinse forte. Poco dopo tutti e tre consumarono la loro colazione. Era una grande fortuna, per quei tempi ed in quei luoghi, poter iniziare la giornata con lo stomaco così pieno, ma l’estate passata l’uomo l’aveva trascorsa a far scorte di cibo e pelli quindi, più che fortuna, direi la conseguenza logica di un duro lavoro. Quasi subito dopo la donna fasciò il bimbo di stracci e pelli e gli mise un copricapo che lo faceva assomigliare ad un piccolo bisonte.
L’uomo era già fuori che controllava il tetto della piccola casa. Uscì di corsa anche il bambino giocando allegramente sulla neve mentre il sole splendeva, riflettendo i suoi meravigliosi giochi di luce ovunque.
Il silenzio regnava e le montagne intorno a loro parevano proteggerli. Avevano tutto ma erano soli. Da troppo tempo. Così quel mattino la donna vide il suo uomo guardare insistentemente la montagna più bassa. Prese il piccolo in braccio e con il capo chino si sedette su una grossa pietra sotto ad un albero. Aveva capito. Poco dopo lui rientrò. Si legò delle pelli sul corpo; si avvolse i piedi con della paglia tenuta ferma da stracci ed assicurata alle caviglie da piccole funi.
Mangiò abbondantemente e si riempì una sacca di cibo.
Parlò con la donna e lei lo abbracciò. Poi prese in braccio il bambino e stette a spiegargli il perché questa volta non potevano uscire insieme. Poi lo appoggiò delicatamente a terra. Si inginocchiò. Infilò una mano nella sacca ed estrasse un frutto. Glielo porse con la promessa che sarebbe tornato presto. Poi si rialzò ed uscì.
La neve cedeva al suo peso ed il ghiaccio scricchiolava. Si voltò un paio di volte e salutò la sua famiglia. Poi, guardando la montagna, sorrise al pensiero di quando avrebbe trovato qualcuno oltre di essa. Il suo passo era deciso. Le sue gambe forti. Voleva far presto. Era certo di non essere solo. Sarebbe tornato dalla sua donna e da suo figlio. Nella sua casa. Avrebbe passato l’inverno a raccontar loro della gente che vive oltre la montagna.
Solamente si stupiva di aver preso quella decisione proprio ora, in pieno inverno e da solo. Era come se una misteriosa forza invisibile lo attirasse a sé. E qualcuno o qualcosa lo attendesse.
Non poteva sapere che quella montagna, testimone immobile di milioni di inverni, aveva deciso di scegliere proprio lui per regalargli l’eternità ed un posto nella storia.
In quella splendida mattina
su quella montagna
a Similaun.

Hal

Una strana favola.

Non c’era una volta
una principessa
che attendeva il suo principe azzurro.

Non c’era nemmeno
una bambina vestita di rosso
che attraversava un bosco
per andare dalla sua nonna
con la paura del lupo cattivo.

Né tantomeno c’era
un burattino che diventò bambino
per il volere di una fata.

O un drago sputafuoco
a difesa di un castello.

O un gatto che indossava stivali magici.

O una pianta di fagioli che cresceva a dismisura.

O sette nanetti che cercavano chissacosa in una miniera.

O un bambino che volava
alla ricerca di un’isola che non c’è.

Non c’era una volta.

Non c’è mai stata.

Se non nella furba fantasia
di qualche scrittore morto di fame.

C’era una volta,
quella sì,
la loro povertà:

misera,
terrena,
puerile.


E siamo qui riuniti
in questa poesia,

per seppellirla.

Per la seconda volta.

Tutti insieme.



Felici e contenti.

                                                                                         

                                                                                                  Alvaro.

mercoledì 14 settembre 2011

Clochard.

Era una mattina come tante a Cornigliano. I postumi della sbronza lo martellavano. La notte era stata orribile in quella stanza lurida. Gli incubi si erano alternati a risvegli da capogiro. Aveva vomitato sul pavimento e su se stesso. La puzza era nauseante. Indossava, come sempre, il suo impermeabile beige, ormai consunto dagli anni e dalla sporcizia. La barba, incolta e lunga, gli pendeva dal mento come una triste appendice. Il volto, scavato dall’alcol, aveva ancora discreti lineamenti che gli conferivano un’aria quasi nobile. Gli occhi, di un azzurro chiaro, contrastavano con tutto il resto, regalando un’impressione di pulizia e vivacità intellettuale a chi li incontrava. Il suo sguardo, profondo e sofferente, era di chi aveva tanto vissuto e molto sofferto.
Si alzò faticosamente da un materasso lercio, raccattato chissà dove, e si guardò intorno come non aveva mai fatto.
Accatastati lungo i muri di quella stamberga vi erano decine di copertoni d’auto che servivano ad isolarlo dal freddo esterno; cassette di legno per verdure, cartoni grandi e piccoli, bottiglie vuote e un carrello da supermercato erano sparsi ovunque. Un contenitore di plastica verde accoglieva i suoi escrementi, proiettando in quell’interno terribili segni della sua presenza.
Quando fu ritto in piedi barcollò scaricando il suo peso ad un grosso tubo arrugginito all’interno del quale, un tempo, quasi sicuramente, scorreva dell’acqua.
Girò lo sguardo a fatica in direzione di un frammento di specchio, incastrato tra le crepe del muro, squadrandosi per molto tempo.
Quel triangolo irregolare rifletteva un’immagine che non era esaltante.
Si chinò leggermente, afferrò una bottiglia appoggiata lì da chissà quanto tempo e, con un gesto lento ma deciso, la fracassò sullo specchio.
L’immagine scomparve. Una scheggia gli procurò un taglio sulla mano destra e il sangue iniziò a colare; prima piano poi sempre più copioso.
Stette ad osservare quella ferita. Prese un vecchio calzino sporco e semi rigido e se la fasciò. Si diresse verso la porta e le assestò un calcio. Fece un passo e fu fuori.
Il gelo esterno si aggrappò a lui facendolo rabbrividire. Tirò su il bavero del suo impermeabile e si soffiò fiato caldo all’interno delle mani messe a mò di coppa. Intorno a lui c'era una Cornigliano  gelata, piante spoglie e pozze d’acqua ghiacciate. Diede un’ultima occhiata a quella baracca che si era costruito tanti anni prima, si voltò e iniziò ad allontanarsi.
Aveva deciso: se ne sarebbe andato. Non sapeva dove ma camminando si sarebbe riscaldato. Il terreno brullo ed impervio metteva a dura prova le sue scarpe zeppe di buchi e strappi ma, in quella mattina, ricominciò a pensare.
Era tanto che non riusciva a farlo occupato com’era a bere, a subire umiliazioni dagli altri e a far sì che la vita continuasse a scorrere dietro a lui per affrontare un altro giorno, per interpretare un altro atto della sua personale commedia, nell’attesa che calasse il sipario. Gli venne in mente di quando era bambino. CERTO!! Lo era stato anche lui; anche se tantissimo tempo prima.
Ma cosa gli era successo? Inutile cercare di ricordare! Era tutto annebbiato nella sua mente…come quella mattina.
Aveva avuto una famiglia? Una casa? Dei figli?
Ma a chi sarebbe interessato questo? Avrebbe cambiato qualcosa nella sua vita?
Continuò a camminare fino a che arrivò accanto ad uno scambio ferroviario all'altezza di Sestri Ponente. Si sedette proprio davanti dove c’era un piccolo avvallamento fatto a culla, quindi si sdraiò. Il freddo pungente lo avvolse ma i suoi occhi azzurri splendevano. Come un piccolo squarcio di cielo in quel mattino grigio e ventoso.
Era intenzionato a riposarsi un po’, prima del passaggio del treno merci. Allora si sarebbe alzato e, mentre il treno rallentava, sarebbe salito. Se ne sarebbe andato via. Per l’ennesima volta. Come sempre.
L’aveva fatto centinaia di volte. Solo che ora si sentiva stanco. Voleva riposare solo un attimo.
L’avrebbe sentito il treno. Avrebbe sentito il suo lungo fischio.
Ce l’avrebbe fatta anche questa volta.
Così, lentamente, chiuse gli occhi lasciando che quell’azzurro scomparisse in lui.


Poco dopo il treno fece capolino all’orizzonte. Lentamente si avvicinò e con un lunghissimo fischio avvisò quel pezzo di mondo della sua presenza.
Quando passò accanto al vecchio sdraiato, fece vibrare il terreno sotto di lui e il vento, dovuto allo spostamento d’aria, gli scompigliò la lunga barba.


Ma l’anziano uomo aveva iniziato il suo più lungo viaggio con qualcosa di diverso sul viso. Qualcosa che sembrava un sorriso.

Chissà quale sarà stato il suo ultimo sogno.
O era appena iniziato?
Nessuno l’avrebbe mai saputo.
E a nessuno sarebbe mai interessato.


Il treno scivolò nuovamente a levante mentre tutt’intorno calò il silenzio.
Un silenzio così assordante che nemmeno l’urlo dell’intero genere umano sarebbe riuscito a sovrastare.



Alva.

sabato 14 maggio 2011

FANTASTORIA

IPOTETICO DISCORSO DI PERICLE AGLI ITALIANI.

Qui in Italia voi fate così.

Qui il vostro governo favorisce i pochi invece dei molti: e per questo dovrebbe essere chiamato oligarchia.

Qui in Italia voi fate così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per pochi nelle loro dispute private, ma voi ignorate sempre i meriti dell’eccellenza.

Quando un ricco e potente cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, ma solo perché la povertà costituisce un impedimento.

Qui in Italia voi fate così.

La libertà di cui non godete si estende anche alla vita quotidiana; voi siete sospettosi l’uno dell’altro e infastidite sempre il vostro prossimo se al vostro prossimo piace vivere a modo suo.
Voi non siete liberi di vivere proprio come vi piace e quasi mai siete pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.

Un cittadino italiano non dovrebbe trascurare i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si dovrebbe occupare dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

Questo è quello che voi italiani dovreste fare:

vi è stato insegnato di rispettare i magistrati, e vi è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.

e vi è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

Qui in Italia dovreste fare così.

Un uomo che non si interessa allo Stato non dovreste considerarlo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui in Italia dovreste essere in grado di giudicarla.

Non si dovrebbe considerare la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Dovreste credere che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.

Insomma, io proclamo che l’ Italia e ogni italiano dovrebbe crescere sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra nazione è aperta al mondo e noi non dovremmo cacciare mai uno straniero.

Qui in Italia tutti voi dovreste fare così.

martedì 4 gennaio 2011

                            ELEMENTI  DA (s)BAR(co).


Stanno appoggiati al muro,
con una bottiglia di Ceres in mano,

o un bicchiere con del Negroni dentro,
o un Cuba Libre,
o un Gin Tonic

e il loro sguardo è annebbiato,
insignificante,
perso in un vuoto
che accoglie anche la loro vita.

Attendono qualcosa che non accadrà,
stando immobili,

un sorso dopo l’altro,
intrappolati come sono dai loro pensieri alcolici,
in una realtà che non è più la loro,
che non li vuole,
che li deride.

I loro tristi sorrisi sono gialli di denti marci 
e i loro aliti fetidi
come le fogne da cui provengono.

Non sanno dove andare.

Stanno lì,
all’esterno di un bar,
nel loro mondo circoscritto,
nel loro mondo perfetto.

Ogni tanto fanno due passi,
per andare al bancone,
ad ordinarne un altro.

Il barista li guarda.
Forse prova vergogna per loro.

Ma il suo lavoro è quello di riempire i bicchieri.

Smette di farlo
solo quando non hanno più soldi.

E’ un duro mestiere il suo.

Ogni tanto qualcuno stramazza a terra.
E lui lo rialza
solo se si trova all’interno del suo bar.

Capita che qualche donna
venga a cercare il suo uomo.

E quando lo trova
ubriaco marcio
la senti urlare che non ne può più,
che quella è l’ultima volta,
che prima o poi se ne andrà,
prenderà suo figlio e se ne andrà.

Tutti ridono.
Si fanno un altro bicchiere.

Quello a cui la donna urla le dice: “ puttana!”.

E lei: “bastardo alcolizzato impotente”.

Ancora risatine.
Qualcuno vomita dietro a un tavolo.

L’uomo che sarebbe bastardo, alcolizzato e impotente dice: “ togliti dalle palle!”.
La donna: “ tra noi è tutto finito!”.

Poi se ne và, urlando insulti ad alta voce.

L’uomo alza il bicchiere e scola il contenuto.

Ha fatto la cosa giusta.

Ne è convinto.

Si avvicina al bancone.

“ Dammi un’altra Ceres!” - mugugna al barista.

L’altro gliela stappa.

Ne butta giù una golata.

Esce e si appoggia al muro.

Un’altra golata.

Il mondo è ancora troppo lontano per esser vissuto.

Invece l’inferno è vicinissimo.

A portata di mano.

Dentro una bottiglia.


                                                                           Hal