VOTAMI!

web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

sabato 29 dicembre 2012

Cara mamma...


...ti scrivo per dirti che ho compiuto un gesto orribile: ho ucciso papà! Ero stanco di vederti piangere e subire le sue botte quando lui tornava a casa ubriaco.  Lo strano è che non me ne pento affatto. Piuttosto ne sono turbato perché non avrei mai creduto potesse andare a finire in questo modo. Tutto è iniziato un giorno in cui ho pensato, ma solo nella mia immaginazione, che avrei potuto ferirlo con un coltello, magari solo per spaventarlo, per fargli capire che non poteva più considerarmi “un ragazzino”, che non avrebbe dovuto più toccarti e che la vista del sangue, il suo sangue, lo avrebbe cambiato. Ho immaginato anche di possedere la certezza che tanto poi avrei potuto fermarmi in qualsiasi momento.
Invece, credimi, è accaduto qualcosa di imprevisto: più andavo avanti, più mi piaceva. Mi sarei aspettato il contrario. Avrei dovuto fermarmi.  Avrebbe dovuto farmi ribrezzo.
Ricordo che a un certo punto ho detto a me stesso: “ Fermati, pazzo, molla il coltello, esiste un limite da non superare e tu l’hai raggiunto proprio adesso”.
Non mi sono fermato, invece; superare quel punto è stata un’esperienza inebriante, un' eccitazione che ha letteralmente fatto saltare ogni nervo del mio corpo. E’ durata solo qualche minuto, ma in quel lasso di tempo non ero più io, mi ero trasformato in un buco nero, un perfetto stato di entropia in cui tutta l’energia del mondo collassava dentro me impregnandomi del suo calore impossibile. Una carica insostenibile per un uomo solo ma degna di una divinità assoluta ai primordi dell’universo quando è finalmente il momento di plasmare la realtà e costruire il tempo.
Non mi biasimo. Nessuno al mio posto avrebbe voluto tirarsi indietro, ci scommetto.
Varcato il limite non c’è più via di ritorno.
Mi spiace. D’altronde era anche tuo marito anche se so che non piangerai per lui.
Tuo figlio.
                                                                                                        Alva.

venerdì 21 dicembre 2012

Tutti giù per terra!



E’ una brutta giornata per me,anche se lassù il sole splende. Il 2013 è appena iniziato e l’immenso girotondo consumistico, almeno per ora, è finito. La fine del mondo non è arrivata ma dentro di me è come se si fosse presentata puntuale distruggendo ogni cosa fin nei minimi particolari. Tutto mi va storto. Le case editrici continuano a rifiutare i miei racconti perché sono privi di speranza. SPERANZA! Proprio in Liguria dove è difficile fare ogni cosa perfino le cose più normali quali avere un lavoro dignitoso e farsi una famiglia quindi figuriamoci per uno come me che ha la pretesa di vivere facendo lo scrittore! Passo accanto ad una panetteria e sento il profumo della focaccia con le cipolle. Lo stomaco mi dà immediatamente una frustata avvisandomi che l’ora di pranzo è vicina. No, non mi riesce di far ridere la gente. A me piace farla riflettere. Non sono uno scrittore di favole e quello che scrivo non finisce mai con un “… e vissero felici e contenti”. Le mie sono istruzioni per l’uso per quello che realmente la vita ci consegna nel quotidiano; un po’come fa il bagnino con quello che sta per annegare: ti salva la vita ma ti deve stordire con un pugno in volto. E’ un brutto metodo ma almeno tornerai a festeggiare Natale, capo d’anno e le feste comandate insieme alla tua famiglia. Ultimamente un amico mi ha detto:
“ Fatti un regalo: prova a sorridere ogni tanto, vedrai che anche i tuoi racconti sorrideranno!”
Mentre sto percorrendo via Ansaldo in direzione di Piazza Massena, decido di attraversare i giardini Melis. Debbo essere sincero: non ne ho manco per l’anima
di passare in posti del genere dove giocano mocciosi e requiescono in pace i vecchietti ma oggi, chissàperchè, nonostante il freddo, ho voglia di farlo. Dopo qualche passo mi imbatto in 5 bambini la cui somma dei loro anni fa 35. Li guardo come si osservano le cose di poco interesse e che subito si dimenticano quindi continuo per la mia strada a testa bassa, come un siluro verso la chiglia di una portaerei, ed è proprio in quel momento che sento una vocina:

“ Signore, fai il girotondo con noi?”
Mi fermo di colpo pensando che un siluro non lo avrebbe mai fatto.
“ Che hai detto?” – domando.
“ Il girotondo, signore, ci manca uno per farlo!” –risponde.
Lo squadro,anzi, lo attraverso.
“ E allora? - sbotto - non potete farlo in 5?”
“ No,no,no,no,no! -replica – se lo facciamo in 6 il cerchio è più grande!”

Sento un demone che entra nel mio corpo come se stesse indossando un vestito.

“ Ascolta, piccoletto, hai notato quanto sono alto io? Mi ci vorrebbero delle braccia lunghe 2 metri per afferrare le vostre pinzette!” - sibilo con sarcasmo.

Il bamboccio umano si fruga nelle tasche, tira fuori 2 cordini lunghi un metro ciascuno ed esordisce:
“ Tu tieni questo da una parte e noi dall’altra!”.

Mi accovaccio per piantargli il mio sguardo nel suo e dico:
“ Senti piccoletto, mi spieghi che importanza può avere per voi, oggi, fare o non fare il girotondo?”

Lui mi guarda. Non dice più nulla. Ma vedo l’umido nei suoi occhi. Speriamo che non...OH NO! TI PREGO!TI PREGO! TI PREGO...NON PIANGERE!

Così mi guardo in giro, per accertarmi che nessuno mi scorga. Anche uno scrittore fallito ha una reputazione.
“ OK,OK,OK,OK....FARO’ QUESTO GIROTONDO !”

Il nanetto come ha iniziato, finisce. Era tutta scena!
Se fosse alto almeno un metro in più, gli stamperei un calcio nel sedere da spedirlo in Oregina.  Poi tira fuori i cordini. Li afferra. Tutti si danno la mano. Io agguanto i cordini. Si inizia a girare.

                   
                              GIRO, GIRO TONDOOOOOO…
Controllo che nessuno mi veda.

                              CASCA IL MONDOOOOOO…
Chissà perché mi rifiutano quello che scrivo. Non sanno loro che sono alla fame? Ogni grande scrittore ha fatto la fame! Ma quando sai che la fame la fanno gli altri
e tu hai la pancia piena fa un effetto un attimino diverso.

                              CASCA LA TERRAAAAAA…
Se ne accorgeranno presto quei maledetti. Io sono uno scrittore. Io fotografo la vita.
Loro,  invece, non fanno altro che aspettare gente come me per poter continuare ad ingrassare sulle loro poltrone di pelle. E poi qualcuno ti dice che devi sorridere: ma per cosa e soprattutto: perché?

                              TUTTI GIU’ PER TERRAAAA!

I bambini sono tutti per terra e stanno ridendo. Non so perché o per cosa.
Sento tirare i cordini. Dopo un po’ di resistenza tento di accucciarmi ma perdo l’equilibrio e cado sul prato. Avverto l’erba fredda sul collo. Ora hanno un buon motivo per ridere poiché sembro una tartaruga a pancia all’aria: annaspo. Siamo tutti a terra. La gente intorno ci guarda e sorride.  Il sole filtra tra gli alberi. Socchiudo gli occhi per reazione e la percezione di quelle risate si acuisce. Mi prendono in giro.
Io, un vecchio, che fa il girotondo.
- Maledetti bambini! – penso,ma un sorriso già mi taglia la faccia ed è troppo tardi: mi sono alzato insieme a loro per ricominciare.
Anche a sorridere.

                                                                                         Alva.

sabato 8 dicembre 2012

Due vecchi bastardi.


Alvino Micheloni cammina lentamente. I suoi 84 anni si fanno sentire,specialmente in questa fredda giornata di dicembre. Sono le 15,il fiume Bormida scorre pigro e  freddo sotto l'arcata del ponte Carlo Alberto,il sole brilla dorato,sopra le colline di sud- ovest e la mancanza di vento rende comunque gradevole una passeggiata in corso Bagni. Alvino giunge alla fine del ponte,poi si ferma: non sa se proseguire dritto oppure
attraversare,per portarsi sul lato est del medesimo. Sceglie quest'ultima ipotesi e si incammina,lento e pensoso:pare la riedizione un po' più agile del Balordo,impersonato da Tino Buazzelli  alla rai tv,tratto dall'omonimo romanzo e andato in onda settanta anni prima. Fatti pochi passi si ferma un po' perplesso: a qualche decina di metri,attraversata la strada,ecco un anziano signore,anche lui evidentemente ottuagenario,che,all'aspetto,
così snello e dignitosamente assorto,gli ricorda un suo vecchissimo amico di decenni  prima. Alvino riprende a camminare,incespica lievemente in un rialzo del marciapiede, poi si ferma sul lato della strada opposto a dove l'altro,di spalle, pare tutto intento a contemplare qualcosa. No!,non gli pare possibile!Non può essere lui dopo così tanto tempo.
Quel "lui" altri non è che Sandro Pagelli,coetaneo di Alvino e,circa settant' anni prima, suo compagno di banco (e di merende) ai tempi delle medie,quando ancora si usavano le stilografiche e si studiava il congiuntivo.
Sandro è invecchiato ma con onore,tutto sommato. Sta guardando la piscina,attraverso la rete di recinzione:le vasche sono senz'acqua,come sempre nei mesi invernali. Non si accorge del suo amico per la pelle fino a che quello non lo saluta.
"Sandro,Sandro,ma sei proprio tu?" 
"Si,ma lei scusi chi è...è…A..Alv…ino?"
I due sono emozionati,per qualche secondo gli si azzera la salivazione in bocca a entrambi. Alvino si raschia la gola e Sandro tossisce per l'emozione: poi si abbracciano.
“Alvino ma che cavolo ci fai tu qui? Ti credevo in Liguria”
“ Si,ci vivo ancora ma è che da quando non c'è più mia madre amo venire ogni tanto in questa cittadina, sai,i ricordi...”  
“ A chi lo dici! E tu ti ricordi che là,oltre il ponte,al numero 148 ci stava mia zia? Ma come fai a ricordarla,saranno passati 70 anni…però:ti trovo bene sai?Non hai nemmeno un filo di pancia! Ah ah ah!”
“Non mi lamento,Sandro,l'unica rogna sono i reumatismi alla schiena. A volte mi trafiggono come pugnali,porca l'oca!” 
“ Capperi,Alvino, non sentivo dire porca l'oca dalla fine del '900, eh eh eh eh! Ti ricordi la piscina? Avevamo 13 anni e sguazzavamo in quella broda verdognola ,mista a cloro e pisciate, per intere ore. Quella orrenda mistura ci sembrava il Paradiso. Già. Tra l’altro, tra un po' sapremo se il Paradiso esiste o se sono tutte fanfaluche,Sandro!” 

 I due ora prendono a camminare,fianco a fianco, costeggiano adagio la piscina,avvicinandosi alla vecchia entrata del Kursaal. In lontananza,più o meno all'altezza della curva che immette verso la vecchia gelateria Canelìn, intravedono un altro vecchietto:è un po' curvo,espressione malinconica,e pur tuttavia un'andatura vivace,agevolata dalla non elevata statura corporea. Ancora qualche passo e i tre si scambiano uno sguardo che sfiora l'incredulo e quasi trasalgono per lo stupore reciprocamente indotto:il vecchietto trotterellante è, incredibile ma vero,Ulderico Pesciazzi! Ma si,il buon vecchio(ora molto vecchio) Ulderico,detto amichevolmente
"Udo". Anche lui era un compagno di scuola dei tempi antichissimi,e a quei tempi era rinomato per la sua attitudine spiccata agli strumenti a fiato (il fagotto era il suo unico vero amore.) 


 "Udo!" "Udo!!" gridano i due anziani mentre Ulderico si ferma come inebetito, sgrana gli occhi,inforca gli occhiali e finalmente prorompe in un sonoro:
"Ragazzi,...ma... siete proprio voi?!  Alvone e Sandro...che sorpresa..." (Udo soleva chiamare così Alvino,per via della sua robustezza fisica e dell'altezza). 

"Che bello rivedervi..." 

I tre si abbracciano e riprendono la camminata in direzione dell’ ingresso della piscina poi risalgono verso il ponte,alternando momenti di gioiose rimembranze ad altri,interminabili, di mesto silenzio. 

Ed è proprio all’interno di uno di quei silenzi che ad Alvino, d’un tratto,  viene in mente quel lontanissimo giorno in cui Ulderico, allora famoso suonatore e compositore di successo, fece fare una figura di merda a loro due , nel mezzo di Corso Italia, zeppo di bella gente che stava facendo le “vasche”, urlando una frase che allora era molto in voga: “ NON STATE CON LORO SE NO VI FARANNO FARE DEGLI SQUARCI! SONO SOLO DUE BUONI A NULLA!”. Quindi Alvino si ferma e informa Sandro del flashback. L’occhio intorbidito dell’altro ha un sussulto come quando ci si ricorda alle sei di sera di avere ancora in macchina il figlio che avrebbe dovuto essere alle 9 del mattino all’asilo così, giunti all'incrocio con la circonvallazione che va ad Alessandria, Alvino dice a Sandro: “ Ti ricordi cosa dice Genesi capitolo 4 versetto 8?” Sandro fa un sorriso che somiglia molto ad un ghigno poiché è sempre stato ferrato nella Bibbia quindi si rivolge a Ulderico e gli domanda:” Hai visto, mio caro, laggiù in fondo alla scarpata, quel campo di canne?” L’altro , dopo aver inforcato i suoi occhiali, risponde:” Certo, ricordo che una volta, durante uno dei miei concerti, portai proprio là una tipa e me ne feci un boccone!” Il suo sorriso sdentato fa appena in tempo a far entrare un po’ d’aria fresca tra le gengive consunte che una testata di Sandro lo centra in pieno volto. Sandro da ragazzo aveva spaccato più teste in quella maniera di quello che sarebbe riuscito a fare ai nostri giorni uno sbirro in assetto anti sommossa. Il colpo fa indietreggiare di almeno tre passi il povero Ulderico che, proprio al limite della scarpata che scende verso la Bormida, incontra la gamba destra tesa di Alvino, impedendogli di rimanere in piedi. I  vecchi amici guardano soddisfatti il rotolio nel fango di Ulderico e la sua brusca fermata dentro una gigantesca pozzanghera melmosa. Dopo essersi assicurati che nessun pericolo potesse danneggiarlo ulteriormente i due riprendono a camminare. Come nulla fosse accaduto. Erano ambedue convinti che la sorte , prima o poi, ti ripagava per quello che avevi fatto e quell’episodio era rientrato nell’opzione “poi”.  Nella loro chiacchierata estemporanea che seguì fecero l'inventario delle loro vite:erano pensionati al minimo e vivevano con molto poco. Alvino ogni tanto scriveva ancora trame di potenziali romanzi best-seller,più che altro per far passare i pomeriggi,seduto alla sua scrivania posta presso il balcone della stanza che dà sulla massicciata del treno,al terzo piano sopra la  Galleria Volta. 
Sandro stava in campagna, vicino ad Alessandria,in una vecchia cascina in mezzo alle nebbie padane (d'inverno)  e a nugoli di zanzare (d'estate). Ogni tanto qualcuno gli passava ancora delle brevi traduzioni dal tedesco che lui ,instancabilmente, eseguiva per le Edizioni Paoline:ovviamente senza essere pagato,ma retribuito in termini di preghiere volte a preparargli un sereno(si spera) al di là.

Un solo filo invisibile univa e complementava questi due poveri vecchi che nella loro vita avevano saputo coltivare una sola virtù;forse l'unica che potesse giustificare una  serena longevità condita da una malinconia di base ma, cosa ben più importante: non avevano mai perso per strada la dolcezza del loro cuore ricordando sempre che, in fondo in fondo,erano rimasti come un tempo: due sani e coraggiosi bastardi anche se ora, a volte, i ragazzini li chiamano “vecchi”. Ovviamente, a loro rischio e pericolo.

          Ale&Alva.
      

mercoledì 5 dicembre 2012

Caro Babbo Natale ti scrivo...


                                     

Era una mattina come tante a Cornigliano. Almeno per Filippo poiché per il resto del mondo si celebrava la più grande festa commerciale che la storia ricordi a memoria d’uomo e cioè il giorno di Natale.  I postumi della sbronza lo martellavano. La notte era stata orribile in quella stanza lurida al terzo piano di C.so Perrone.  Gli incubi si erano alternati a risvegli da capogiro. Aveva vomitato sul pavimento e su se stesso. La puzza era nauseante. La barba, incolta e lunga, gli pendeva dal mento come una triste appendice. Il volto, scavato dall’alcol, aveva ancora discreti lineamenti che gli conferivano un’aria quasi nobile. Gli occhi, di un azzurro chiaro, contrastavano con tutto il resto, regalando un’impressione di pulizia e vivacità intellettuale a chi li avesse incrociati. Il suo sguardo, profondo e triste, era di chi aveva tanto vissuto e molto sofferto. Filippo si alzò faticosamente dal materasso lercio, raccattato chissà dove e quando, e si guardò intorno come non aveva mai fatto. Intravide il calendario dell’avvento che gli avevano regalato quelli della Caritas. Segnava il 25 Dicembre. Un suo pensiero, quasi in forma di ringraziamento, andò al Creatore per aver disatteso le gufate dei Maya. Poi, in una sorta di ipnotico ripensamento ragionò che il Creatore non poteva averci messo del suo per contrastare la profezia di un popolo che non riuscì a salvare nemmeno se stesso.
Si avvide che lungo i muri di quella stamberga vi erano decine di copertoni d’auto che servivano ad isolarlo dal freddo esterno; cassette di legno per verdure, cartoni grandi e piccoli, bottiglie vuote e un carrello da supermercato erano sparsi ovunque. Un contenitore di plastica verde accoglieva i suoi escrementi, proiettando in quell’interno terribili segni della sua presenza.
Quando fu ritto in piedi barcollò, scaricando il suo peso ad un grosso tubo arrugginito all’interno del quale, un tempo, quasi sicuramente, era scorsa dell’acqua.
Girò lo sguardo a fatica in direzione di un frammento di specchio, incastrato tra le crepe del muro, squadrandosi per molto tempo. Un’espressione di stupore si delineò sul suo viso: si era completamente dimenticato che la sera prima , vestito da Babbo Natale, era andato alla Fiumara per rassicurare i paffuti bambini, insieme alle loro famiglie, dell’imminente suo arrivo nelle loro case, con imponenti sacchi di doni. Cosa bisognava fare per vivere. I cani avevano le pulci. Gli uomini i guai. 
Quel triangolo irregolare rifletteva un’immagine che non era esaltante.
Si chinò leggermente, afferrò una bottiglia appoggiata lì da chissà quanto tempo e, con un gesto lento ma deciso, la fracassò sullo specchio.
L’immagine di Babbo Natale scomparve. Una scheggia gli procurò un taglio sulla mano destra e il sangue iniziò a colare; prima piano poi sempre più copioso.
Stette ad osservare quella ferita attendendo che un elfo gli facesse una fasciatura a regola d’arte ma ben sapeva che nella realtà certe cose non accadono o almeno non accadono se sei sobrio. Quindi prese un vecchio calzino sporco e semi rigido dal freddo e se la fasciò. Si diresse verso la porta, la aprì e con un passo  fu fuori. Scese le tre rampe di scale barcollando. Il gelo esterno si aggrappò a lui facendolo rabbrividire. Tirò su il bavero rosso della sua ridicola giacca e si soffiò fiato caldo all’interno delle mani messe a mò di coppa. Intorno a lui c'era una Cornigliano  gelata, piante spoglie e pozze d’acqua ghiacciate. Diede un’ultima occhiata alla finestra di quell’appartamento in cui era vissuto per così tanto tempo quindi si voltò e iniziò ad allontanarsi.
Aveva deciso: se ne sarebbe andato. Non sapeva dove ma camminando si sarebbe riscaldato. Il terreno brullo ed impervio metteva a dura prova le sue scarpe zeppe di buchi e strappi ma, in quella mattina, ricominciò a pensare.
Era tanto che non riusciva a farlo occupato com’era a bere, a subire umiliazioni dagli altri e a far sì che la vita continuasse a scorrere dietro a lui per affrontare un altro giorno, per interpretare un altro atto della sua personale commedia, nell’attesa che calasse il sipario. Gli venne in mente di quando era bambino. CERTO! Lo era stato anche lui; anche se tantissimo tempo prima.
Ma cosa gli era successo? Inutile cercare di ricordare! Era tutto annebbiato nella sua mente…come quella mattina.
Aveva avuto una famiglia? Una casa? Dei figli?
Ma a chi sarebbe interessato questo? Avrebbe cambiato qualcosa nella sua vita?
Continuò a camminare fino a che arrivò accanto ad uno scambio ferroviario all'altezza di Sestri Ponente. Si sedette proprio davanti dove c’era un piccolo avvallamento fatto a culla, quindi si sdraiò. Il freddo pungente lo avvolse ma i suoi occhi azzurri splendevano. Come un piccolo squarcio di cielo in quel mattino grigio e ventoso.
Era intenzionato a riposarsi un po’, prima del passaggio del treno merci. Allora si sarebbe alzato e, mentre il treno rallentava, sarebbe salito. Se ne sarebbe andato via. Per l’ennesima volta. Come sempre.
L’aveva fatto centinaia di volte. Solo che ora si sentiva stanco. Voleva riposare solo un attimo.
L’avrebbe sentito il treno. Avrebbe sentito il suo lungo fischio.
Ce l’avrebbe fatta anche questa volta. Aveva solo una strana sensazione all’altezza della tasca destra dei pantaloni. Infilò le dita intirizzite ed estrasse il contenuto. Era una lettera. La lettera di uno di quei buffi bambini sovrappeso che il giorno prima lo chiamavano babbo. La aprì. C’era scritto:

“ Caro Babbo Natale, mi rendo conto di essere stato cattivo e di non meritare nulla ma PER FAVORE! potresti almeno trovare un posto di lavoro a mio padre? Grazie! Il tuo Andrea.”

Filippo tentò di distrarre la sua anima da quella preghiera ma non ci riuscì, così pianse e in quel pianto passò quella supplica a qualcuno più grande di lui. Poi piegò con cura il foglio , lo depose all’interno della manica sinistra e, lentamente, chiuse i suoi occhi azzurri lasciando che quelle due finestre sul cielo scomparissero in lui.


Poco dopo il treno fece capolino all’orizzonte. A rilento si avvicinò e con un lunghissimo fischio avvisò quel pezzo di mondo della sua presenza.
Quando passò accanto al vecchio babbo natale sdraiato, fece vibrare il terreno sotto di lui e il vento, dovuto allo spostamento d’aria, gli scompigliò la lunga barba.


Filippo aveva iniziato il suo più lungo viaggio con qualcosa di diverso sul viso. Qualcosa che sembrava un sorriso.

Chissà quale sarà stato il suo ultimo pensiero. Nessuno l’avrebbe mai saputo. E a nessuno sarebbe mai interessato.

Il treno scivolò verso  levante mentre tutt’intorno calò una strana quiete.
Era Natale. Un Natale come tanti. I festeggiamenti erano già in atto per tutta Genova: i suoni e i colori dell’evento, benché sotto tono a motivo della crisi, riempivano le vie e le piazze del quartiere ma intorno a Filippo, in quel luogo, c’era qualcosa di peggiore del silenzio: una totale assenza di rumori così assordante che nemmeno l’urlo dell’intero genere umano sarebbe riuscito a sovrastare.



Alva.