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web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

domenica 15 giugno 2014

Confessione.

Io sono il figlio di un bastardo e di un'ingenua.
Il frutto andato a male dello sbaglio di due famiglie.
Non credo che difenderò la patria
o morirò per il tricolore.

La mia arma è stata la menzogna.
Ogni conquista una fortuna.
Ogni sconfitta una dura realtà.

I miei diritti sono stati il frutto dei miei doveri.
Il mio poco denaro è stato un mezzo e non un fine.
La fede in Dio un rifugio spartano.

Avrei voluto avere il coraggio del ragazzo di Piazza Tien an Men:
un' autentica forza divina.

Ma ho dovuto lavorare giorno e notte.
E ho confuso il giorno con la notte
per ottenere ciò che mi è stato tolto.

Sono entrato nel cuore di molte donne
per poi sedermi negli angoli delle loro stanze rotonde.

Ho rispettato l'umiltà degli uomini
e cercato di capire la presunzione di Dio.

Tutto questo con un solo obiettivo:
non essere mai come mio padre.
E una sola utopia:
esser migliore di lui.


Nel corso del tempo nessuno mi ha mai ostacolato.


E' stata ed è una strana storia, questa.

Ma è la vita.

Ed è mia.



                                                                                     Alvaro.

Scacco matto.

Scrissi la mia prima poesia all’età di 12 anni.
Più che una poesia
era una specie di riflessione filosofica
che rasentava la saggezza
tipica di chi
col passare degli anni
è incline a vivere la vita
con indifferenza e distacco.

La “immortalai” su di un foglio di carta a quadretti
che dimenticai sul mio comodino.

All’ora di cena
mio padre
era più silenzioso del solito.
Masticava lentamente il cibo che aveva in bocca
con un ipnotico movimento delle mandibole.

- Abbiamo un poeta in famiglia! - esordì con sarcasmo
rompendo il silenzio e guardando negli occhi mia madre.

- Oh! - disse lei - e chi sarebbe? -

Lui spianò lo sguardo verso me. Lentamente le sue labbra si contrassero in un ghigno.

- Ma chi, se non IL GRANDE ALVARO! -

Capii che aveva scoperto le mie parole.
Non alzai lo sguardo e continuai a mangiare.

- E cosa avrebbe scritto “il grande Alvaro”? - chiese mia madre con una punta d’ironia.
A quel punto il mio vecchio mise una mano nella tasca dei suoi pantaloni,
sfilò un pezzo di carta piegato malamente e lo porse a mia madre con un gesto brusco.
Guardavo da sottecchi.
Considerai più volte l’ipotesi di alzarmi e rintanarmi in camera mia: ma non lo feci.
Ero stranamente curioso di sapere cosa avrebbero detto.
In fondo, loro due erano il mio primo pubblico.

- Non male questo Alvaro ! - disse lei con un mezzo sorriso.


 - NON MALE UN CAZZO! - urlò lo stronzo - E’ UNA COSA DA FINOCCHI, NON DA UOMINI!

Percepivo il suo sguardo, ma non alzai la testa.

 - CRISTO DI UN DIO - farfugliò - UN POETA DEL CAZZO!
Mentre portavo il cibo alla bocca, avvertii l’irrefrenabile bisogno di piangere, ma il
mio orgoglio me lo impedì.

 - NON TI PERMETTO DI PARLARE COSI’ DI MIO FIGLIO! - urlò ad un tratto
mia madre.
Ero felice che prendesse le mie parti, ma il fatto di non avere la stima di mio padre
mi uccideva.

Trascorsero, bene o male, cinque anni.

Avevo preso l’abitudine di scrivere le mie cose su un libriccino tascabile.
Una sera, mentre andavo alla biblioteca comunale, ( era il periodo in cui leggevo le
biografie di tutti gli scrittori per vedere, se anche loro, nelle loro infanzia, avessero
dovuto sopportare delle umiliazioni ) mi resi conto di averlo scordato a casa,  nella tasca della mia giacca.
Fui preso dal panico.
Ritornai di corsa, mi precipitai in camera mia e vidi ciò che rimaneva delle mie parole: centinaia di coriandoli strappati alle belle meglio.
Ricordo di avere urlato la parola PERCHE’almeno dieci volte, mentre lui, dal salotto, senza nemmeno scomporsi disse:  - SONO COSE DA FINOCCHI, NON DA UOMINI! - .
Mi chiusi nel mio mondo e cercai di piangere. Invano.
Dopo quell’episodio trascorsero circa 15 anni, durante i quali mi sposai, ebbi 2 figli
e mi divorziai.
Continuavo a scrivere.
Mio padre si era trasferito con un’altra donna, 20 anni più giovane di lui, in un’altra città.
Mia madre invecchiava come solo una donna abbandonata può fare.
Anch’io invecchiavo.
Gli editori rifiutavano ciò che gli inviavo.
Le loro risposte erano sempre circolari.

“…apprezziamo molto il contenuto dei Suoi racconti ma, come Lei certo capirà, il nostro obbiettivo prioritario è la famiglia, quindi i Suoi scritti, eccessivamente scurrili
e reali non sono, per il momento, ciò che Noi vorremmo da Lei. Nel caso ridimensionasse la Sua emotività, saremmo ben lieti di proporLe un periodo di collaborazione di…”.
Iniziai a bere per non pensare.
Andavo ai reading di poesia alternativa che si svolgevano in un locale dove una compagnia teatrale faceva le prove.
Conobbi una marea di gente assurda.
Tutti con la segreta speranza di diventare qualcuno.
In quel momento non mi fregava più nulla di me stesso.
Cercavo di sopravvivere.
Volevo scaricare un po’ della mia merda, accumulata negli anni, a qualcun altro.
Ma era merda particolare. Incolore,inodore, insapore.
E quando la spargevo, facendo finta di niente, leggendola ad alta voce, c’era sempre quello/a che diceva: “ EHI, MA NON HAI VISSUTO NULLA DI ALLEGRO?”.

Cambiai luoghi di lettura.
Lessi le mie cose in certi pub talmente maleodoranti che una volta, tornando a casa ( da mia madre ) buttai via i vestiti indossati per quell’occasione.

Una sera di ottobre tentai il suicidio.
Mi svegliai in un ospedale dove l’infermiere continuava a dirmi di una tale persona che mi aveva salvato e che sarebbe arrivata da un momento all’altro.
Non riuscii a ringraziarla.
Era una società strana. Non potevo decidere di morire in santa pace senza che qualcuno si arrogasse il diritto di impedirmelo.

Uscito di lì, decisi di riprendermi la vita in mano.
Non serviva nulla perderla.
Iniziai a frequentare una palestra, cercando di far risalire in superficie i miei muscoli
annegati nel grasso.
Un martedì mattina ricevetti una lettera da mio padre.

“…non c’è nulla di peggio che andarsene da questo mondo, sapendo che il tuo unico figlio non ti perdonerà mai per degli errori di gioventù. Se tu solo cercassi di capire
in che vuoto sto trascorrendo gli ultimi giorni che mi rimangono certamente potresti,
non dico perdonarmi, ma almeno riflettere sul passato e concederti un ripensamento
sui fatti che hanno contribuito a deteriorare il nostro rapporto…”.

Stracciai la lettera, infilai tutti i pezzettini in una busta e allegai un foglio con su scritto: “ AVER PAURA DI MORIRE NON E’ DA UOMINI! E’ UNA COSA DA FINOCCHI!”.

La affrancai e la spedii.

Dopo circa sette mesi e mezzo, una sera, nella buca delle lettere trovai una busta molto elegante, il cui mittente era un famoso notaio del padovano.

“…e secondo le volontà di Suo padre, NULLA  a Lei sarà dovuto ( secondo le disposizioni testamentarie del sopracitato), sia dei beni immobili, sia del patrimonio
personale così suddiviso:…”
Girai la lettera dal lato bianco del retro e iniziai a scrivere.


“ C’è un uomo che piange. Ed è solo in una stanza.
In una stanza buia e silenziosa. E’ lì perché vuole stare solo. E non vuole sentire nessuno. Il suo è un pianto disperato. Non sò per cosa pianga. Ad un certo punto
è tale il suo bisogno di silenzio che decide di trattenere
ogni  più piccolo gemito. Nonostante ciò, nel suo cuore e nella sua anima, vi è frastuono. Così decide di andarsene. Esce da quella stanza. E ritorna il silenzio.
Per essere esatti il silenzio non si è mai mosso da lì. Siamo noi a fare rumore. Il silenzio è sempre esistito.
Ancor prima di Dio. E quando ce ne dovremo andare,
da questa immensa stanza chiamata vita ritornerà. Per l’esattezza,continuerà ad essere."                                                      

Questa era la prima poesia che scrissi quando avevo 12 anni.
Mi avvicinai al fuoco
che stava bollendo l’acqua per il caffè
e la bruciai.

Con quel gesto
feci l’ultima mossa
che decretò
la fine di una partita
durata oltre 30 anni.

Dopo uscii di casa.
Camminai a lungo quella mattina.
Ero un uomo.
Un uomo che scriveva poesie.
Non c’era nulla di male in tutto questo.

Avvertii  una sensazione strana:
come se un grosso peso
si staccasse dalla mia anima.


La partita era conclusa.

Potevo piangere.


                                                                                                                                             Alvaro.

Il custode dei morti.

Io sono un custode di morti.
Lavoro in questo cimitero dall’età di 20 anni.
Ho visto migliaia di inumazioni
e una serie infinita di pianti
urla
e scene disgustose.
I primi tempi ero molto sensibile:
mi commuovevo ai pianti
mi si accapponava la pelle agli urli
e
voltavo lo sguardo davanti a scene disgustose.

Ma ora,
ora non mi fanno più effetto.
E’ solo lavoro.
Gente che và
e gente che viene.
Corridoi da spazzare,
fiori secchi da gettare
fiori finti da sistemare,
ragnatele da eliminare,
ceri spenti da rimuovere,
fazzoletti di carta
imbevuti di lacrime da gettare,
persone anziane che chiedono
di giovani
e giovani che chiedono di loro
dopo solo tre giorni.
Una volta
qualche anno fa
una donna rimase chiusa
dentro il cimitero
per qualche ora.
Quando mi chiamarono
per andare a farla uscire
mi insultò
come fosse stata colpa mia.
Mi disse che Dio
mi aveva dato quel lavoro
per punirmi a motivo della mia vita dissoluta,
che ero uno stronzo,
che mi sarei dovuto accertare se ci fosse stata ancora gente,
che mi avrebbe fatto licenziare,
che non sapevo chi era lei,
che quello che io guadagnavo lei lo spendeva in una sera,
che i miei figli sarebbero stati “sputati e cagati me”,
che lei sapeva che rubavo le fedi nuziali
ai cadaveri disseppelliti:
“un morto di fede destinato a fare il custode di morti” - concluse.

Con le lacrime agli occhi la guardai andare via.
Non dimentico mai le facce degli esseri umani.
Soprattutto quando a fissarmele nella mente
è la constatazione evidente della loro stupidità.
Qualche mese dopo
me la ritrovai di nuovo lì dentro
ma in tutt’altra situazione:
foto a colori su ceramica,
lastra di marmo scadente,
una croce stilizzata
e
senza luce perpetua.
Pregai in silenzio
sperando che Dio
avesse pietà di lei
nel giorno della risurrezione.
Mentre mi avviavo verso l’uscita
ripensai a quello che mi disse
qualche tempo prima
e
per una forma di estensione spirituale
la mia sinapsi mentale
andò al Sermone della Montagna di Gesù.
E più precisamente dal versetto 3 all’11mo del Vangelo di Matteo:

3 “Felici quelli che si rendono conto del loro bisogno spirituale, poiché a loro appartiene il regno dei cieli.
4 “Felici quelli che fanno cordoglio, poiché saranno confortati.
5 “Felici quelli che sono d’indole mite, poiché erediteranno la terra.
6 “Felici quelli che hanno fame e sete di giustizia, poiché saranno saziati.
7 “Felici i misericordiosi, poiché sarà loro mostrata misericordia.
8 “Felici i puri di cuore, poiché vedranno Dio.
9 “Felici i pacifici, poiché saranno chiamati ‘figli di Dio’.
10 “Felici quelli che sono stati perseguitati a causa della giustizia, poiché a loro appartiene il regno dei cieli.
11 “Felici voi, quando vi biasimeranno e vi perseguiteranno e mentendo diranno contro di voi ogni sorta di cose malvage per causa mia.


Con un sorriso uscii dal cimitero,
chiusi il cancello
e attesi qualche minuto.
Quando compresi che nessuno
era rimasto all’interno
mi voltai e mi avviai verso casa.

Sono un custode di morti.
Il portinaio di un cimitero.

Una sorta di personaggio intoccabile e detestabile.

Ma conosco la Bibbia troppo bene per non sapere
che il mio cuore
e la mia fede
sono nel giusto.

Alvaro.

Turno di notte.

Stavo scendendo le scale dell’istituto “ Devoto” di corso Genova. Erano le sei del mattino e all’esterno un tiepido dicembre seduceva gli abitanti di Lavagna sul fatto che quello avrebbe potuto essere l’unico anno senza inverno. Ovviamente si trattava solo di un illusione: era in arrivo una perturbazione dalla Siberia , diretta sull’Italia, che avrebbe fatto scendere di parecchio la colonnina di mercurio. Quando mi trovai nell’atrio dell’entrata, scorsi il collega preposto al controllo che si era assopito. Aveva le braccia sulla scrivania e la testa su di esse. Quella visione mi fece ricordare quando, oltre 60 anni prima, le suore dell’asilo mi costringevano al riposino dopo pranzo mentre io avrei voluto giocare a pallone nel cortile.  La notte per alcuni era dura. Per me non lo era mai stata. La notte, per me, era una sorta di estensione diurna all’interno della quale c’era solo meno luce e più silenzio. Decisi di non disturbare il collega e alzando lo sguardo vidi che le uniche a seguirmi erano le tre videocamere della sicurezza. Allungai il braccio sulla scrivania e con le dita cercai l’interruttore per aprire il cancello all’esterno. Il ragazzo ronfava in maniera ritmica e a tratti , con la lingua, riprendeva la saliva che gli si era depositata sul labbro inferiore. Con un passo lento e silenzioso varcai la soglia dell’Istituto e  richiusi il cancello alle mie spalle. Mi incamminai verso la passeggiata in riva al mare. Non avevo voglia di tornare a casa. Nessuno mi aspettava. Quando arrivai davanti al mare inspirai ed espirai come mai avevo fatto. Il mare era mosso e, a tratti, sembrava essere risucchiato e ributtato al largo  proprio da quella mia forzata respirazione. Diedi un’occhiata alla costa e scorsi le luci di Portofino. C’ero andato un paio di volte nella mia vita ma non era scattato nulla tra noi. All’orizzonte, le luci di una nave da crociera stavano scivolando verso est in qualche posto caldo del mediterraneo. Scorsi una panchina e mi sedetti. Poi, come tutte le volte che mi trovavo in quella posizione, iniziai a pensare. I miei ricordi partivano tutti, chissà perché, da quando all’età di 49 anni avevo deciso di cambiare radicalmente la mia vita decidendo di frequentare corsi che mi avrebbero qualificato ad esercitare l’assistenza agli anziani. Mi ricordavo anche che in quel periodo non mi ero mai posto il problema del “diventare vecchio e malato” . Ero sempre stato uno scavezzacollo, con un ottimo lavoro che mi permetteva di guadagnare bene e di girare il mondo continuamente perso dietro a qualche gonna semplice da sfilare e altrettanto facile da abbandonare nella biancheria sporca. Poi era arrivata lei. Una donna minuta, intelligente, forte come un leone e timorata di Dio che mi spiegò che l’aver timore non significava aver paura  ma  rispettare, con  profonda riverenza  il Creatore, insieme ad un sano terrore di dispiacergli. Ma  era stato proprio Dio ad “incastrarmi” . Mi aveva fatto conoscere altre mete; altri orizzonti. Mi aveva cambiato, filtrato, depurato e fatto vedere quanto di male avevo combinato  insieme alle  persone che  avevo fatto soffrire . E proprio quando pensavo di aver messo le cose a posto con il genere umano,  con una piccola ipoteca sulla mia salvezza eterna,  un giorno squillò il telefono e qualcuno mi annunciò che sarei stato assunto in una casa di riposo per anziani. Da allora ho passato vent’anni spendendo una cospicua parte del mio tempo ad aiutare anziani malati, accompagnandoli verso la loro morte. Dei loro volti non ho più ricordi ma sento ancora su di me la loro angoscia che precedeva sempre il momento in cui dovevano lasciare questa vita.
Ad un tratto qualcuno mi  afferra delicatamente per un braccio. Alzo lo sguardo e vedo che il sole è sopra l’orizzonte e accanto a me c’è il ragazzo che, all’entrata dell’istituto, avevo lasciato dormire beatamente. Mi sussurra ad un orecchio che gli ho fatto prendere uno spavento terribile e di non farlo mai più se no perderà il suo posto di lavoro. Gli rispondo che non capisco poichè , una volta finito il mio turno di notte, sono libero di fare ciò che voglio. E poi sono anni che non faccio straordinari e non è mia intenzione iniziarli a fare proprio ora, alla mia età.  Ma quello che mi dice, con estrema calma, mi fa ricordare che in quel luogo ci ho lavorato solo dieci anni. Dieci anni? E gli altri dieci? Sento come un colpetto nella mia testa e la parte ancora funzionante del mio cervello, quella non ancora colpita dalla malattia mentale, si mette in moto scodellandomi la realtà nella quale vivo e cioè quella di un paziente in fase terminale con delle piccole finestre di memoria attivate da decine di farmaci.  Penso a questo mentre il giovanotto mi fa cenno di salire sull’autoambulanza. Il sole è ormai alto su Lavagna. So per esperienza che anche quelle piccole finestre, prima o poi, si chiuderanno confinandomi in un mondo all’interno del quale nessuno potrà mai più entrare.  Quando torno  al Devoto  mi accompagnano in una stanza. Una infermiera mi mette in mano un farmaco e mi dice gentilmente di ingerirlo. Mi volto verso il comodino e vedo la foto di una donna piccola e minuta che mi guarda felice. Quanto mi è mancata  in tutti questi anni! Accanto alla foto c’è la mia vecchia Bibbia. La apro e lascio che mi si schiuda  davanti agli occhi come in  un sorriso, concedendomi, per l’ennesima volta, forse per l’ultima,  di trovare conforto in lei.   
  

La notte prima

La notte prima che decidessi di morire
diventai vago,
indeciso.
I miei pensieri erravano come pietre moreniche
nella scansione di un tempo immemore.
Avevo la risposta per ogni domanda.
Ero infallibile.
Una scintilla pura e adamantina.
Lessi la Bibbia.
Cercai la visione dell’Eden.
Ebbi terrore di un Dio vendicativo.
Mi consolai nella pazzia dell’Apocalisse.
Poi
come in un vigliacco
la paura scese in me.
Bruciai la lettera che avevo scritto a mia madre:
“NON DISPERARTI, MAMMA.
                        NON SEI RIMASTA SOLA. VOGLIO
                        SOLO CAPIRE COSA C’E’ IN FONDO.
               CI RIVEDREMO LA’ DOVE  DIO  HA PROMESSO.”
La notte prima che decidessi di morire
sognai che ero nudo su una montagna
e stavo congelando
quando udii una voce che diceva:
"CREDI E VIVRAI IN ETERNO!"
Mi svegliai come sole
come stella
come un sovrannaturale veicolo di calore.

La notte prima
che decidessi di morire
finalmente
iniziai a vivere.

                                                                                              Alvaro.

Cieca vergogna.

Il suo nome è Helmut.
Ha 92 anni.
Vive a Dresda, una città nell’est della Germania, ex D.D.R.

Abita all’ultimo piano di un casermone altissimo,
senza ascensore, in Talkincherstrasse 27.

E’ cieco ormai da 40 anni,
a causa di una grave forma degenerativa del nervo ottico.

Ai tempi dell’ultima guerra,
era un ufficiale delle S.S.

A Mausghen,
il quartiere dove abita,
lo sanno tutti.

I più giovani se ne fregano,
i più vecchi fingono di non ricordare.

Da 17 anni a questa parte
Helmut non abbandona la sua abitazione:

troppo vecchio, troppo stanco.

A provvedere per la sua magra spesa quotidiana
ci pensa sempre Sigmund,
il figlio disoccupato di Gerard
il postino del primo piano.

“…rispetto ci vuole, figliolo mio, rispetto! Ecco quello che dovrebbe avere
il nostro governo ad un ex combattente che lottò strenuamente per i grandi ideali della nostra beneamata Germania!”.

Questo è quel che dice sempre al figlio
il nostalgico portalettere in pensione,
poco prima che lui esca
per acquistare le poche cose destinate ad Helmut,

nel piccolo emporio sotto casa,
tra Prattelnstrasse e la Garchingplatz.

Anka, la proprietaria dell’emporio,
mette sempre ciò che gli elenca il giovane in una busta di plastica.

Quando gliela consegna
lui paga e attende mentalmente la solita frase:

“SALUTAMI IL VECCHIO”

dice quasi urlando Anka.

Sigmund abbozza sempre un sorriso, si volta e se ne va con passo lesto.

Una volta arrivato davanti alla porta di Helmut,
deposita il sacchetto e suona tre volte il campanello d’ingresso.
Poi ridiscende le scale,
apre la porta di casa
e prima di chiudersi nella sua stanza
riesce sempre a sentire
il vecchio padre che borbotta:

“…rispetto! Ecco quello che manca oggigiorno: RISPETTO!”.

Nel mentre, Helmut,
apre la porta,
prende il sacchetto,
che è sempre nello stesso posto,
lo poggia sul tavolo,
estrae quello che gli serve,
lo dispone davanti a sé con cura
e inizia a mangiare…lentamente.

Dopo,
terminato il magro pranzo,
si siede sul divano,
con la schiena dritta
e gli occhi puntati verso un sole buio da decenni.

Da quel momento
fino all’ora di andare a letto
sarà solo un incredibile susseguirsi di ricordi del suo passato
                                                                     passato
                                                 passato
                              passato
          passato       
“Ci dispiace doverla informare che in data 25/09/1941, Lei sarà ufficialmente sollevato dal Suo incarico di Responsabile della Logistica e Distribuzione Vettovagliamenti ai campi 18 e 21 del lager di Buchenwald, a causa del progredire della Sua malattia. Le sarà comunque affidato l’incarico di 2° Ufficiale Addetto alla Riduzione Numerica dei prigionieri nel campo 10 di Maidanek, Lublino,Polonia.
Le sarà inoltre riconosciuta una indennità di Reichmark 10 per eventuali spostamenti all’interno del territorio
( Seguono istruzioni.)”.

Questo era, all’incirca,
quello che recitava la lettera
che lo informava della sua nuova destinazione.

Era stato rimosso dall’incarico precedente
perché non riusciva quasi più a leggere
le notevoli quantità di scartoffie
che gli arrivavano giornalmente.

Aveva commesso troppi errori
negli ordini di consegna del cibo ai prigionieri ebrei.
Si era sempre domandato
cosa avrebbero cambiato
tre o quattro kg in più di patate o cipolle
sul quantitativo stabilito spettante ogni sei prigionieri.

Ma gli ordini non andavano discussi: andavano eseguiti.

Lo avevano tolto da un incarico tranquillo
per dargliene uno spaventoso: ADDETTO ALLA RIDUZIONE NUMERICA.

Era un eufemismo del Reich per non scrivere STERMINIO.

Quando Helmut arrivò a Maidanek,
il 3 ottobre 1942,
dopo aver subito un delicato intervento agli occhi,
gli fu spiegato sommariamente ciò che avrebbe dovuto fare.

Non era difficoltoso.
Anche con la sua scarsa vista, poteva portarlo a termine.

Si svegliava alle 7.
Alle 8 si radunava con gli ufficiali nel Cortile 10,
detto l’anticamera della Morte.
I prigionieri erano già tutti in fila
da almeno 3 ore
con le sole mutande addosso.

A volte
quando faceva un freddo tremendo
4 o 5 di loro erano già a terra,  morti assiderati.

Quando accadeva gli ufficiali erano felici

“…vuoi vedere che oggi a pranzo ci arriviamo in anticipo?”

Dopo questa frase tutti iniziavano a sghignazzare.
Erano ragazzi in gamba: riuscire a scherzare con un freddo del genere, era cosa per pochi!

Gli ebrei
uno ad uno
nel più assoluto silenzio
si inginocchiavano
a capo chino
accanto un muro rivestito di marmo grigio.

Su un tavolo c’erano 3 Luger cariche.
Un sottufficiale, addetto al munizionamento,
lubrificava e ricaricava le stesse
mano a mano che le ore passavano.

I movimenti sempre uguali: armare la pistola,
puntarla a 10 cm dalla nuca del soggetto e premere il grilletto.

A parte il freddo o il caldo,
qualche schizzo di sangue sul soprabito d’ordinanza
e crampi all’indice destro,
ci si abituava in fretta
e tutto diventava una “routine”!

Se non si inceppava la pistola
si potevano eseguire “consistenti riduzioni” ogni giorno.

Ma una mattina di Aprile del 1943
la sua malattia agli occhi
lo avvolse nelle tenebre.

Non riuscì a scendere nel Cortile 10.

Rimase seduto sul letto e attese.

Fu congedato 7 giorni dopo.

Dopo la fine della guerra
riuscì anche ad evitare Norimberga.
Non si sa come.
Ma non fuggì mai.

Rimase come…dimenticato,
come sospeso,
come appeso nel suo buio presente

                                                 presente

                                                           presente

                                                                               presente

                                                 presente

                              presente

          presente.


E’ molto tardi ma Helmut è ancora seduto, con la schiena sempre dritta, sul suo letto.
Come in quell’aprile del  ’43. I ricordi non paiono turbarlo più di tanto. La guerra è guerra. C’è sempre quello che vive e quello che muore. A volte è solo questione di fortuna esser vivi anche se, nella maggior parte dei casi, ci si sente davvero sfortunati ad esserlo.
Poi, il vecchio ufficiale, si sistema sotto le coperte mentre i suoi occhi spenti iniziano a gonfiarsi di lacrime.
Lacrime di vergogna.
La vergogna di non essere riuscito a servire il proprio paese come avrebbe voluto.
                   

                                                                                                  Alvaro.


Il mio nome è Alvaro: risolvo i problemi!

Con ancora il sapore del caffè appena trangugiato in bocca, mi alzai e cercai di far mente locale: ero un risolutore di casi, non un investigatore. Esserlo implicava troppe esposizioni di denaro e troppi contatti diretti con il genere umano, cosa che mi urtava più di ogni altra. Io ero Alvaro, il cerebrale. Io penetravo, con la mia lucida pazzia, nell’opaca realtà del caso da risolvere che qualche investigatore, privo di capacità intellettive, mi passava. Per intenderci: la moglie infedele tradisce il marito e il tradito vuole avere la conferma di tutto ciò. Allora si rivolge ad un investigatore privato che la pedini e che le consegni, nel più breve tempo possibile, delle prove inequivocabili dell’avvenuto adulterio da usare, il più delle volte, come pretesto per un divorzio. Alcuni clienti, a volte, oltre a tutto questo, sentivano l’esigenza di sapere quali motivazioni, oggettivamente sensate, avevano spinto al tradimento le loro consorti. Non si sarebbero dati pace fino a che qualcuno non gliele avesse spiegate.
Avrebbero pagato cifre altissime per sapere ciò che già sapevano. Lì entravo in gioco io: diventavo amico della persona in oggetto, mi conquistavo la sua fiducia per poi entrare nei suoi sentimenti. Era un lavoro lungo, estenuante, a volte tragico anche perché il più delle “vittime” non riuscivano a capire il perché mi interessasse così tanto aiutarle. Povere stelle! Dovevo mangiare anch’io!
Tralasciai quei pensieri e mi diressi alla finestra. La aprii e mi appoggiai come amano fare coloro che, non avendo nulla da fare stanno in attesa che qualcosa susciti la loro curiosità morbosa. In effetti non avevo nulla da fare, quindi lasciai che la mia curiosità morbosa risalisse in superficie. Erano le dieci del mattino. I camion gialli della Q.K.C. TRANSPORT , andavano avanti e indietro scatenando le ire degli abitanti del quartiere, poiché dopo aver imboccato una via molto stretta, sono costretti, per entrare nel terminal dell’azienda, ad una manovra piuttosto complicata che richiede non più di due minuti ma, come ogni buon genovese vi potrà testimoniare, due minuti di accumulo del traffico, soprattutto di moto e scooteristi ( con il casco ultimo modello tipo pilota di Tornado in ricognizione dal costo di 700 euro[mammameliprestichepoitelirestituiscodaichedevoesserefigononvorraimicachemiconfondacontuttigabibbichecistannoaGenova?] ) in quella zona vogliono dire la paralisi dell’asse nord-est, cioè significa che tutti quelli che hanno un minimo di fretta ( e state tranquilli che ce l’hanno tutti ), anziché fare 500 metri in più passando tra via Bagnasco e lo stradone che costeggia il fiume  e sbuca sul ponte di Cornigliano, proprio nell’esatto punto dove i cantunè si piazzano con l’apparato per incularti sulla velocità, e ci riescono, dicevo…anziché fare questo giro dell’oca che, in effetti è forse leggermente cervellotico ma, dal punto di vista paesaggistico, un pugno nello stomaco, decidono, con un lampo di genio che è tipico delle genti che vivono nelle zone di mare, di usare il passaggio di sud - ovest, e cioè via Bianchi + via Rolla + sottopasso, gira a sinistra, immettiti nel traffico e vai alla Fiumara a passare il resto della tua idiota giornata.
Riaffioro dai miei pensieri perché un camionista non riesce a imboccare la curva a sinistra a causa di una macchina che gli si è piazzata proprio sotto il paraurti.
Alla guida c’è una donna. Circa 70 anni. Non si sa cosa faccia lì. Nessuno lo sa. Forse nemmeno lei. Forse si è semplicemente sbagliata strada. O forse è lì perché la vita l’ha tradita.

“ SIGNORA, DEVO GIRARE! SI SCOSTI PER CORTESIA!” - è quello che pacatamente, ma con decisione , dice l’autista del mezzo pesante sporto dal finestrino. E’ un uomo sui 45, media statura, abbronzato in volto e sulle braccia fino alle maniche, una profonda cicatrice sul lato sinistro del viso ( che trarrebbe in inganno certe menti pure ed innocenti sul fatto che potrebbe essersela fatta mentre, svariati anni prima, tentava di aprire una scatoletta di tonno al raduno nazionale dei Boy Scouts!) e una sigaretta penzoloni all’estremità del labbro destro.

“ E’ UNO SCANDALO! VOI CAMIONISTI NON DOVRESTE TRANSITARE IN CITTA’! E’ INCREDIBILE CHE IL COMUNE DI GENOVA VE LO PERMETTA!
MA PERCHE’ NON VE NE ANDATE IN AUTOSTRADA? IO HO FRETTA! SI SPOSTI CON QUELL’AFFARE LI’!” - replica bruscamente colei che per eccellenza dovrebbe essere il ritratto della pazienza e della saggezza.
A questo punto inizio, tra me e me, un interessante calcolo delle probabilità che però, immediatamente, mi intristisce per il solo fatto di non essere in compagnia di qualche amico ed iniziare una sugosa scommessa.
Diciamo che la situazione sotto i miei occhi, dà adito a quattro opzioni: la prima, che non è poco, è data dalla non più giovane età della guidatrice; la seconda è il fattore X, e cioè quello che potrebbe accadere se la stessa scena si verificasse di notte e senza testimoni; la terza è il contesto urbanistico nel quale i due mezzi si trovano, loro malgrado, a dover essere antagonisti;  l’ultima, come ordine ma non come importanza, è il caos! Massì, la teoria del caos. E’ inutile che ve ne parli: certe situazioni che si potrebbero creare nei vari contesti della vita, hanno le loro soluzioni contenute in regole, siano esse di natura matematica, letterale, scientifica o sociale, ben definite e sperimentate. Esse sono come l’antidoto per il veleno: stanno lì per toglierti dai guai.
A volte, però, capita che queste  regole, per motivi a noi ancora sconosciuti, intervengano con scarsa efficacia, come se qualcosa, interfacciandosi con potenze inferiori, si rifiutasse di funzionare.
Quella, essendo l’opzione più difficile da considerare, per i motivi sopra descritti, può stravolgere un indice statistico in meno di un amen!

Ritorniamo alla scena precedente. In sintesi: un camion lungo 16.5 metri sta svoltando da via Rolla in direzione via Bianchi. Una deliziosa, quanto coraggiosa vecchietta gli si è infilata nell’unico angolo buono che consentirebbe all’autista del TIR di procedere e togliersi dai coglioni velocemente. La vegliarda, anziché indietreggiare e far sì che la situazione si sblocchi, inizia una , a mio parere, controproducente discussione con l’autista semi abbronzato, di media statura e con una cicatrice da arma bianca che gli attraversa il viso, dall’arcata sopraccigliare sinistra a poco sotto la mandibola sinistra.
Come, secondo voi, andrà a finire?
Allora : l’autista non fa una piega; tira su il finestrino, ingrana (grattando leggermente) la marcia e procede. La macchina, lentamente, viene fagocitata dai gommoni del rimorchio e la parte davanti della vecchia Fiat cambia immediatamente aspetto. Le urla della vecchietta si sovrappongono ai rumori delle lamiere che si stanno contorcendo tra un asse e l’altro. Gli OOooohhhh e gli UUUuuuuhh si sprecano. Dal bar escono un paio di alcolizzati con la Ceres in mano e osservano la scena e, con i loro grugni devastati da fiumi di birra, commentano ciò che gli si para davanti ai loro gialli e cadaverici occhi. Un tipo urla al camionista qualcosa in genovese, qualcosa come: “ABELINOU, MIA LI’ CUSA TI FE’!”. Un bambino piange a squarciagola. La gente, dalle finestre, si affaccia e mormora. In un attimo, sulla strada, ci sono 302 persone. La dolce vecchietta è uscita dalla macchina e assiste impotente alla rottamazione della sua auto, senza incentivi statali.
Il camionista si ferma in via Bianchi, senza scendere dal camion. Da lì a poco arriva la volante dei carabinieri. Poi quella dei vigili urbani. Addirittura arriva anche l’autoambulanza della Croce Rossa. C’è sempre più gente sulla strada. Il traffico, che prima si era sbloccato grazie alla manovra di sfondamento del camion, ora è tornato alla paralisi. Un agente dei carabinieri cerca qualche testimone: d’un tratto non c’è più nessuno per strada. Un vigile si avvicina al bar, chiede qualcosa ai morti viventi, appoggiati al muro e con quasi un piede nella fossa. Probabilmente gli sta chiedendo se hanno visto o sentito qualche particolare che potrebbe essere d’aiuto per la dinamica dell’incidente. Ovviamente non sanno nulla, sono lì per caso, è il loro fegato ad averceli portati e quelle sono cose che a loro non interessano! “ Un’altra Ceres, amico! “ - farfugliano al barista, mentre rientrano nel locale che accoglie le loro figure, abituandole ad una penombra che molto presto diventerà un buio eterno.
Qualche poliziotto alza la testa, cercando di scorgere eventuali testimoni. Le persiane si chiudono. I balconi si svuotano. Non fatevi ingannare: è tutta brava gente; solo che hanno passato troppo tempo accanto agli altiforni dell’Italsider, troppo tempo in coda agli sportelli dell’INPS per sollecitare le pensioni da fame di qualche loro parente morto o mutilato in fabbrica, troppo tempo come i servi della gleba, troppo tempo
nei Lidl a comperare robaccia, troppo tempo a ravanare nei cassonetti dell’AMIU, insomma, troppo tempo.

Chiudo le mie, di persiane, e rientro nei miei pensieri di lavoro. Quale lavoro? E’ un bel po’ che non sto lavorando! L’ho capito ieri, quando il direttore della San Paolo mi ha telefonato. Ha detto che sono troppo sotto, che devo versare qualcosa e
IMMEDIATAMENTE! Dai, gli ho risposto, sono un vecchio cliente, dammi tempo, qualche giorno, giusto per fare un giro di telefonate a qualche cliente per esortarlo a pagarmi, voglio dire, non si ricordava di quando su quel conto c’erano grosse somme? No, mi risponde il direttore, no che non si ricordava mentre io ho fatto una pausa troppo lunga, in quel cazzo di telefono, come a rimarcare l’esattezza della sua affermazione. O.K! gli ho risposto, 24 ore: dammi 24 ore e risolvo la situescion! Fortuna è che lo stronzo ha un’altra telefonata in linea e me le concede, anche se ho capito che gli faccio pena, io, un correntista da stipendio, un miserabile investigatore
improvvisato, un pirla da circo, un idiota da schiacciare sotto le scarpe e pulirsele prima di entrare in casa.
Bene. Ventiquattro ore. Meglio che niente. Meglio che un calcio in culo. Meglio del traffico alla foce durante il salone nautico.
Avevo tutto il tempo necessario per sanare le falle della mia situazione finanziaria. Non mi mancava nulla: solo un lavoro! Un caso da risolvere. Una qualsiasi minchiata di quartiere, un tradimento, una donna da seguire in qualche motel sull’autostrada e poi da sputtanare per tutta la sua vita.
Mi sedetti e attesi. Era successo altre volte: se Maometto non và alla montagna, sarà la montagna che andrà a Maometto. Ero fiducioso. Attesi. Il telefono taceva. All’esterno, i camion della Q.K.C. TRANSPORT continuavano a rombare e ad attraversare la via sottostante come gigantesche puttane, facendomi tremare i vetri della stanza. Non c’era nulla che potessi fare. Attesi ancora. Venne buio. Mi alzai, mi infilai la giacca e mi diressi verso la porta. La aprii e la richiusi dietro le mie spalle. La giornata era finita. Ero Alvaro. Risolvevo i problemi di tutti eccetto i miei. Domani sarebbe accaduto qualcosa. Sicuro come la morte. Di chi, in quel preciso momento, non aveva alcuna importanza.

 Alvaro.