D’un tratto allentò la pressione sulle palpebre per lasciare che il bulbo oculare iniziasse la sua danza concentrica seguendo furiosamente l’occhio della mente che era arrivato ai piedi della scogliera. Gli pareva ancora di sentire le onde frangersi su quegli scogli ammassati l’uno accanto all’altro e di vedere i gabbiani volteggiare nella affannosa e continua ricerca di cibo.
Era un caldo martedì di Aprile e una giornata splendida. Il suo orologio da polso, preposto anche per il controllo del battito cardiaco, segnava le dieci e sette minuti quando tutto accadde velocemente.
Davanti a lui un uomo e una donna che litigano. Lui la schiaffeggia e lei inciampa cadendo in un anfratto tra uno scoglio e l’altro mentre lui si avvicina iniziando a sferrargli calci e a urlare brutte cose.
Le palpebre dell’uomo si serrano nuovamente con le mani che stringono con forza le sbarre della cella.
Avrebbe dovuto lasciar perdere. Al massimo, avrebbe potuto solo farsi notare nella speranza che l’altro smettesse. Invece no. Iniziò a correre nella loro direzione senza accorgersi che il suo orologio da polso gli segnalava un’attività cardiaca esagerata per il tratto di strada percorso, consigliandogli di fermarsi onde evitare il peggio. Che puntualmente arrivò.
Quando fu davanti all’altro uomo non fu difficile per uno della sua stazza e con il suo allenamento, sferrare un pugno nel viso dell’altro. In quel momento era l’unica cosa da fare. Lo aveva imparato nelle decine di occasioni in cui la vita, nelle sue centinaia di palestre sparse tra i vicoli e i quartieri della città, lo aveva messo alla prova. Le prime volte te ne tornavi a casa con il corpo dolorante , le labbra rotte e gli occhi gonfi ma poi, facendo tesoro di quelle sofferenze, non commettevi più gli stessi errori. La regola era: colpire per primo senza mai distogliere lo sguardo dall’obiettivo. Il più delle volte lo scontro si chiudeva subito perché l’avversario scappava o rimaneva a terra piegato in due a urlare dal dolore. Solo qualcuno si rialzava per continuare e tu sapevi che sarebbe stata dura così, mentre aspettavi che si rialzasse, qualcosa nel più profondo del tuo essere, ti faceva sperare che non accadesse. Che rimanesse a terra. Sconfitto. Umiliato.
Era quello il pensiero di quel martedì di Aprile anche se stranamente, la voce proveniente dal più profondo del suo essere, sperava che in quel giorno accadesse il contrario. Che si alzasse per continuare. Ma la scena di quel piccolo corto metraggio sarebbe stata muta se le urla della ragazza da cui era corso per soccorrere avessero smesso di pronunciare la stessa, ripetuta parola: assassino.
L’uomo aprì gli occhi. Erano passati 25 anni da quel momento. Tra una settimana sarebbe uscito. Sapeva di non essere un assassino. Sapeva anche che a volte, nella vita, le cose vanno come non dovrebbero andare e ci si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma il ragazzo, ormai uomo, aveva pagato il suo debito in silenzio, come quando da bambino, tornando a casa tutto pieno di lividi, cercava di fare tesoro dagli errori che avevano causato il suo stato. Non riusciva a pensare ad altro se non al fatto che da lì a una settimana non sarebbe più stato in quel luogo.
Lanciò un’altra occhiata all’enorme e infinita coperta azzurra che stava davanti a lui proprio mentre i suoi muscoli inferiori si contrassero più volte. Sorrise. Conosceva bene quella sensazione: era il desiderio di correre. Avrebbe finalmente di nuovo corso. Magari un po' più lentamente, per via dell'età ma lo avrebbe fatto di nuovo. Tra sette giorni.
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