VOTAMI!
venerdì 14 ottobre 2016
giovedì 13 ottobre 2016
martedì 4 ottobre 2016
The falling man.
Volo ormai libero
in quest’aria newyorchese
e solo la mia cravatta frivola
che svolazza
sembra legarmi ancora
a quel mondo di prima.
Chissà perché penso a Max
che faceva i panini al bar dell’angolo
e all’ascensorista della Torre Nord che mi sorrideva sempre;
mi viene in mente anche Mary del piano di sotto
con quei corti capelli scolpiti col gel;
e poi Malcom e Alex che avevano voglia di successo.
Erano tutti giovani. Non più di vent’anni.
Da oggi,
le loro madri
non metteranno più il solito piatto sulla tavola.
Per ciascuna di loro ci sarà un vuoto terribile ed
incolmabile.
E per me?
Beh, io so di morire innocente,
so che qualcuno mi ha fatto del male,
e mentre attendo ormai solo l’impatto
mi sento un uomo con il cuore nuovo
perché per quattrocento metri
o mio Signore
ti ho supplicato di perdonarli.
lunedì 3 ottobre 2016
domenica 2 ottobre 2016
Un ricordo.
La domenica era un giorno speciale. Arrivavano i
parenti. La nonna iniziava a cucinare alle sette del mattino. Ed erano ravioli
alla carne, gnocchi, pollo alla cacciatora, insalata russa, bollito misto con
bagnetto, almeno due torte farcite e biscotti vari. L’unica deroga in quella
fatica immane era il gelato, sempre coppe all’amarena, che mi mandava a
comprare al bar sotto casa. Gli zii arrivavano solitamente verso le 12.30.
Sapevano che la nonna non tollerava i ritardi quindi, crollasse il mondo, si
doveva essere intorno alla tavola non oltre le 12.45. Andò avanti così per anni
fino al giorno in cui, per cause a me sconosciute, entrarono in casa alle
13.30. Ricordo ancora che la nonna, verso le 12.50 ci fece sedere a tavola e ci
ordinò di iniziare il pranzo anche senza di loro. Quando arrivarono, dopo
essersi profusi in mille scuse, si sistemarono anche loro intorno al tavolo. Lo
zio a capotavola, sua moglie accanto a lui, mia cugina accanto a mia zia e il
suo fidanzato accanto a me. Si chiamava Dario. Lavorava alla Carello di Torino,
una fabbrica dell’indotto FIAT. Era un ragazzone di un metro e ottanta con un
sorriso disarmante. La nonna in silenzio, iniziò a servire in tavola. Lei si
sedette per ultima. Iniziarono a mangiare sempre in silenzio. D’un tratto Dario disse:
“ COMPLIMENTI ,SIGNORA, SONO PROPRIO BUONI!”.
Si riferiva ai ravioli. La nonna sorrise. Erano
davvero buoni. Meravigliosi frammenti di gioia sensoriale.
Continuarono a mangiare. Tutti si aspettavano che la
nonna sbottasse in qualche reprimenda o in una delle sue proverbiali citazioni
in dialetto piemontese, destinate a
essere ricordate per sempre. Invece non
disse nulla fino a quando, dopo aver servito il caffè, con un filo di voce, in
una specie di cantilena, dichiarò:
“
D’ANCOI A IO’ FINI ED FE’ DA SERVA A VUIOCER”.
Che tradotto significa: DA OGGI
HO FINITO DI FARE LA SERVA PER VOI.
E così fu. Da
allora, alla domenica, la nonna cucinò solo per me e mia madre.
Dopo quasi 25 anni, una sera, mentre mia nonna era sul
balcone di casa sua, poco prima di morire, ripensando a quell’episodio, mi
chiese se in quell’occasione fosse stata troppo severa. Le risposi di si.
Rimase pensosa per un po’ per poi rivolgersi a me chiedendomi:
“ COSA NE DICI DI ANDARE A PRENDERE DUE GELATI ?”Mi
diede una banconota con un sorriso e io, come 25 anni prima, scesi le scale del
caseggiato a rotta di collo per andare a prendere due coppe all’amarena nel bar
di sotto.
Alvaro.
sabato 1 ottobre 2016
giovedì 15 settembre 2016
Le sue parole.
La notte si era appena dileguata intorno a lui, senza
avergli permesso di dormire, inchiodandolo ad uno stato di veglia talmente
brutale da stordirlo. Stava sdraiato a terra, di fianco al suo letto, a causa
della sbronza della sera prima.
Tutto intorno, sparsi sul pavimento. centinaia di fogli, con
su scritti milioni di parole; tutte nate dalla sua rabbia, dal suo dolore,
dalla sua disperazione.
In mezzo a tutta quella carta c’era ancora la busta
strappata che conteneva l’ennesima lettera di rifiuto, l’ennesimo editore che
aveva distrutto il suo sogno di vedere pubblicate le sue poesie, i suoi
racconti, i suoi pensieri stupidi.
Erano le sue parole. Ed erano li per terra. Sarebbe bastato
spazzarle via o bruciarle per non vederle mai più. Tutto a un tratto iniziò ad
odiarle. Aveva speso un bel pezzo della sua vita per scriverle, rinunciando ad
amicizie, perdendo donne meravigliose e trattando se stesso come l’ultimo degli
ultimi.
Evidentemente a nessuno interessavano. Non c’era una sola
anima illuminata in tutto quel buio di incertezza. Era un fallito, anche se
nessuno glielo aveva mai detto esplicitamente. Avrebbe potuto scrivere romanzi
d’amore, fiabe o addirittura fantascienza...e invece NO!!
Tutte quelle cose sulle brutture della vita lo avevano
annientato in tutti i sensi...e ora erano li sul pavimento che attendevano di
essere calpestate o riposte con cura in qualche angolo di un solaio dove il
tempo, i topi e l’umidità si sarebbero divertiti a farne scempio.
Si issò faticosamente sulle ginocchia ed iniziò a
raccogliere tutti quei fogli.
Impiegò parecchio tempo per sistemarli sul tavolo e quando
ebbe finito, davanti a se, si formò un’alta colonna di un bianco opaco e con i
lati irregolari.
Pareva il lungo collo di una mostruosa creatura. Lo guardò a
lungo, barcollando leggermente in avanti, poi con passo insicuro si diresse
verso il ripostiglio. Dal suo interno tirò fuori un enorme zaino di un blu
ormai scolorito che gli proiettò nella mente tutti i bellissimi viaggi fatti in
sua compagnia. Se lo avvicinò al naso e con dei profondi respiri lo annusò;
puzzava di muffa e polvere di decenni ma con un incredibile sforzo sensoriale
riuscì ancora a percepire il profumo di nuovo che aveva quando lo acquistò da
ragazzo. Lo aprì e lo sistemò sul tavolo. Senza indugiare lo riempì con tutta
quella carta. Poi lo richiuse e se lo mise in spalla, accusandone il forte
peso. Uscì dalla sua vecchia abitazione e si diresse verso quell’alta collina
sulla quale, da giovincello, amava recarsi alla sera per guardare la città
dall’alto, seduto sopra uno sperone roccioso che fuoriusciva così tanto da una
sua parete da dare l’impressione, a chiunque lo guardasse dal basso, di vedere
un trampolino per i tuffi, anche se sotto non c’era la piscina con l’acqua ma
50 metri di vuoto e i binari della ferrovia sui quali, ogni tanto, scorrevano
pesantemente lunghissimi treni merci diretti verso gli appennini e poi oltre
fino al mare.
Il suo cammino fu lento e faticoso.
Ci fu un attimo in cui gli parve di realizzare l’esatto
stato d’animo di Gesù Cristo mentre, con la croce sulle spalle, scalava il
Golgota.
Ma fu solo un attimo. Il tempo scorreva. La luce diminuì e
la notte scese, ammorbando ogni cosa di buio. Egli arrivò ansimante su quella
protuberanza rocciosa; posò lo zaino e si sedette con le gambe a penzoloni nel
vuoto.
SI!
La sua città c’era ancora! Solo che ora splendevano
molte più luci e si potevano vedere sfrecciare molte più macchine sulle strade.
Rimase in quella posizione ad osservare quel turbinio di luci per oltre un’ora.
Poi gli parve che la città si fosse addormentata; le luci
nelle case si erano spente una dietro l’altra e anche il fiume, che si
srotolava pigramente giù nella vallata, sembrava essersi assopito.
Si ridestò dalle sue visioni ad occhi aperti e si alzò in
piedi. Sporse cautamente il corpo in avanti, osservò il vuoto e sputò.
Indietreggiò di qualche passo e afferrò lo zaino. Lo riaprì facendolo
strisciare fino al bordo dello sperone di roccia. Alzando lo sguardo si accorse
di un meraviglioso cielo stellato; quante volte lo aveva guardato cercando
ispirazione.
Ed ora era lì, davanti a lui, sopra di lui, ovunque.
La serata sembrava giusta per pareggiare i conti con
l’universo.
Estrasse i fogli di carta zeppi di parole.
Erano le sue parole.
Le aveva scritte lui dopo aver bevuto, dopo aver pianto e
urlato la sua pazzia al mondo intero. Con un lento gesto le alzò verso il
cielo, come in un propiziatorio dono al nulla...e le scagliò nel vuoto.
Dapprima quel mucchio di fogli parve precipitare poi, come in
un improvviso battito d’ali, esplose e ognuno di quei fogli prese una direzione
diversa dall’altro.
Erano le sue parole.
Lui le aveva scritte.
Continuò a lanciare quella carta nell’infinito fino a che lo
zaino fu vuoto.
Subito dopo gli assestò un calcio, abbandonandolo a se
stesso quindi prese la strada del ritorno velocemente, senza voltarsi.
MA COSA AVEVA FATTO?
Si era separato dall’unica cosa in grado di tenerlo in
vita...forse ancora per qualche anno!
Continuò a camminare.
Cosa avrebbe letto d’ora in poi? Il giornale con le notizie
sportive? Un libro di cucina? L’oroscopo della settimana? I necrologi?
I suoi piedi divennero pesanti a tal punto che si dovette
fermare. Rimase come pietrificato per qualche secondo poi, con un gesto
leggiadro, si voltò e quello che vide lo stupì più di ogni altra cosa al mondo:
tutti i suoi fogli, le sue parole, i suoi pezzi di vita ERANO DAVANTI A LUI!
Come un’immensa nuvola bianca che si stagliava nel cielo stellato.
Probabilmente una corrente ascensionale li aveva sollevati verso l’alto. Ma lui
non volle interpretare la cosa scientificamente.
Ci voleva poco a capire che si trattava di un segno del
destino.
Erano le sue parole. Lui le aveva scritte. Ne era certo.
Guardò quella nuvola come un bambino guarda i fuochi d’artificio quindi
iniziò a correre.
Dapprima lentamente, poi sempre più velocemente verso di
essa.
Gli vennero in mente molte cose in quegli attimi: la sua
vecchia madre, il padre che non aveva mai avuto, la sua infanzia, i suoi figli
che lo avevano abbandonato, la casa dove aveva vissuto, le donne che aveva
amato....DIO.
La nuvola era sempre li, davanti a lui, ogni attimo più
vicina.
Mentre correva iniziò a piangere con un misto di tristezza,
dolore e felicità.
Il trampolino di roccia stava per finire ma la sua corsa era
costante, sinuosa, elegante.
I suoi fogli galleggiavano nel vuoto, come in attesa di
qualcosa...o di qualcuno.
Percorse gli ultimi metri e con un balzo si staccò dal
suolo...a braccia aperte...con un sorriso...verso le sue parole.
Le aveva scritte lui.
martedì 13 settembre 2016
Amarcord.
Era un bellissimo pomeriggio di fine giugno quando gli sposi entrarono nella piccola chiesetta di Coronata, attraversando una discreta folla di curiosi, qualche tossico appoggiato al muretto della salita e i parenti in lacrime, alcuni vestiti all’antica con giacche e cravatte altri decisamente più sobri, forse un po’ troppo ma con i volti abbronzati ma tutti, dico tutti, erano sudati marci e anche i bambini che vociavano e correvano allegri, tirandosi addosso una varietà di riso scadente, sudavano copiosamente e il sole scintillava con i suoi raggi sulle goccioline che scendevano dalle loro fronti e i cani avevano la bocca spalancata con la lingua a penzoloni e ansimavano e abbaiavano per poi lasciarsi cadere in qualche anfratto lurido alla ricerca di ombra e quando gli sposi varcarono la soglia del portone in legno della chiesa ci furono degli OOOOHHHH da parte dei bambini, come in quella canzone di Povia e una folata di vento improvvisa scompigliò i capelli di tutte le adolescenti brufolose che erano sedute all’interno per godersi il fresco insieme ai più anziani mentre gli sposi avanzavano lentamente uno accanto all’anziana madre, infilata a fatica dentro un vestito giallo e rosso e l’altro accanto al padre che dritto come un pilastro dell’autostrada pareva avere la testa come un soprammobile appoggiata al colletto di una camicia bianca lavata troppe volte e la sposa aveva un bellissimo vestito bianco di organza con lo strascico che veniva calpestato da decine di marmocchi irritati dal caldo e lo sposo indossava un completo alla coreana nero opaco con cuciture ai polsi che formavano disegni orientaleggianti e quando si trovarono di fronte al sacerdote si guardarono negli occhi e pareva che in quegli occhi ci fosse tutta la felicità di questo mondo ma io sapevo che di felicità non poteva essercene abbastanza per tutti e l’anziano prete officiò la cerimonia in maniera davvero impeccabile riuscendo anche a fare delle battute in dialetto genovese che quasi nessuno capiva perché l’unico ligure era lui ma il tutto sortì l’effetto desiderato e poi disse la frase di rito e gli sposi si dissero si reciprocamente decretando la fine dei loro sogni da bambini e si baciarono furiosamente, lungamente al punto che un anziana donna si sentì in imbarazzo e volse lo sguardo altrove e i genitori degli sposi iniziarono a modo loro a piangere e qualcuno iniziò a urlare ai bimbi di stare zitti e non fare chiasso ma quando gli sposi uscirono sul sagrato della chiesa iniziarono ululati e urla e cori e fischi e applausi e lanci di riso e latrati di cani e clacson di macchine e clangore di campane a festa poi arrivarono un bambino che sembrava un piccolo mafioso e una bambina che sembrava una piccola baldracca e ognuno di loro aveva in mano una colomba e ogni colomba aveva un nastrino legato alla zampetta, azzurro per il piccolo padrino e rosa per la sua degna compare poi porsero le colombe agli sposi che delicatamente le afferrarono e si guardarono negli occhi e con un piccolo gridolino di gioia le lanciarono verso il cielo e ci fu gente che fece foto, filmati e quant’altro e le colombe sbattevano le ali e parevano disorientate come se si inseguissero una coll’altra e tutti le guardarono per un po’ ma il sole picchiava così duro che gli sguardi si abbassarono e arrivò una macchina di quelle americane, lunga un chilometro, bianca, con un ‘autista vecchio e mezzo gobbo che scese e aprì la porta posteriore con estrema fatica e io pensai che forse quella sarebbe stata la fatica che lo avrebbe stroncato proprio in quel frangente e pregai che non accadesse e per fortuna non accadde così gli sposi salirono e i genitori applaudirono sicuramente pensando a quanto gli era costato l’affitto di quella macchina che quasi non riusciva a far manovra nella piazzetta e quando la prua della Lincoln si diresse verso la discesa allora tutti corsero verso le rispettive vetture per seguire gli sposi e c’erano fiori e riso ovunque e le colombe ormai dimenticate iniziarono a puntare verso sud in direzione di Ponte Assereto e l’allegra comitiva festante discese la strada di Coronata quando ancora gli anziani del rione si scambiavano antichi rituali da compiere sempre dopo un matrimonio con la regia di arcane liturgie tramandate di padre in figlio sia che si trattasse di un matrimonio o di un funerale e quando gli invitati si trovarono in piazza Massena dopo aver atteso il verde del semaforo svoltarono tutti verso levante diretti ai giardini di Nervi e le colombe che veleggiavano perfettamente in coppia fecero una sorta di leggera cabrata per poi picchiare verso la Lanterna con i loro nastrini ancora attaccati alla zampette uno azzurro e uno rosa e quando la bianca macchina americana guidata dal vecchio gobbo imboccò la sopraelevata tra schiamazzi e clacson e felicità nessuno si accorse che le colombe stavano perdendo quota e quando la lunga fila di macchine arrivò ai giardini di Nervi per le foto le colombe erano ancora una a fianco all’altra che volavano quasi al livello del mare con un orizzonte basso e lontano e terso e affilato come una lama di rasoio ed era certo che avrebbero volato ancora accanto con i loro nastrini, uno rosa e l’altro azzurro e quando il fotografo chiese agli sposi di baciarsi per la foto di rito davanti alle famose rose dei giardini di Nervi la colomba col nastrino rosa cadde in acqua ma l’altra continuò ancora per una decina di metri poi atterrò su una boa di segnalazione e beccò ripetutamente il nastrino azzurro che si sfilò.
Poco dopo riprese il volo. Quando arrivò sul Porto Antico atterrò delicatamente vicino ad una panchina dove un signore in abito bianco e cravatta gli lanciò del pane secco. Era domenica. Il sole stava tramontando e da lì a non molto, Genova, pigramente , si sarebbe addormentata.
Cronaca di una calda giornata in un condominio di Cornigliano.
Mi alzai
in quella mattina
calda e umida
nella stanza
aleggiava ancora
l’odore della cena
mi sforzai di guardare
attraverso le tapparelle
il sole
più dinamico che mai
spandeva ovunque
i suoi raggi bollenti
qualche zanzara rintronata
svolacchiava senza meta apparente
arrotolai un giornale
e con un paio di colpi
ne proiettai una
in un’altra dimensione
poi mi diressi
come un non morto
verso il bagno
mi sedetti sulla tazza
e cagai
e pisciai
quasi all’unisono ( un gran bel colpo!)
finito tirai l’acqua
cinque volte
poichè la merda
che tanto era stata in me
non ne voleva sapere di abbandonarmi
si era aggrappata sul fondo
con lo scopino la grattai via
vigorosamente
e vederla scivolare nel nulla
un po’ mi dispiacque
ma poi pensai
che al termine del viaggio
avrebbe trovato un sacco di compagnia
mi distolsi da quei pensieri
e mi guardai allo specchio...
chi era quello?
non lo conoscevo!!
mi somigliava un po’
ma niente più
aprii la bocca
tirai fuori la lingua
dio che orrore!!
la feci rientrare
mi lavai i denti
e mi sciacquai la faccia
mi asciugai con una tenda
perché l’asciugamano era sporco
(mi ci ero pulito il culo)
uscii dal bagno
e guardai il letto
pareva avvitato su se stesso
diedi un’occhiata
alla foto di mia madre
era lì appesa
e sembrava dicesse:
“Ma guarda come ti sei conciato...VERGOGNA!”
abbassai lo sguardo
mi infilai i vestiti
prendendoli un po’ ovunque...
in effetti ero un attimino trasandato
la pancia mi precedeva di una lunghezza
tranne quando ero a letto
allora mi sovrastava come una collinetta tondeggiante
ma...mi piaceva!
mi teneva compagnia
se mi dimenticavo l’orologio
all’ora di pranzo
lei faceva: “Gruumble...gruumble!”
in fondo era utile
uscii
chiamai l’ascensore
quand’ecco che si aprì la porta
dell’appartamento accanto al mio
e fece capolino la deliziosa vecchietta
che da molti anni era mia vicina
“...ma quando cazzo la finirai di chiamare l’ascensore per
fare 18 gradini? - esordì urlando -Ti farebbe anche bene muovere un po’ il
culo!!”
la gentile signora
pareva fosse sempre esistita
quando ero ragazzo era così
e ora
dopo 40 anni
era ancora con le stesse orribili fattezze di allora
lunghi capelli canuti abbandonati al caso
naso bitorzoluto con goccia perenne
e una gobba da farla sembrare un cammello (o un dromedario?
boh...)
la fissai per qualche interminabile secondo
per capire cosa stesse dicendo
ma non feci in tempo a replicare
che lei aggiunse:
“...cosa guardi, idiota, guardati tu piuttosto che sembri la
morte in vacanza!!”
aveva una fottuta ragione
“ La ringrazio, gentile signora, per la istruttiva
conversazione!!” riuscii a rispondere
“VAI A FARTI INCULARE DA UN TORO!!” urlò nuovamente
l’ascensore stava scendendo
e lei era aggrappata alla ringhiera che ringhiava
dietro al mio dito medio che svettava come un monolito nello
spazio
arrivato al piano terra mi sistemai i pantaloni
ripulii le punte delle scarpe con gli stessi
ed imboccai il portone di uscita appena in tempo
per assistere ad un tamponamento tra due macchine
...i guidatori schizzarono fuori
ed iniziarono un elegante battibecco
“...ehi. testa di cazzo, cosa stavi guardando invece di
guidare?”
disse
il tamponato
“...stavo guardando dov’era il numero di casa tua perché tua
moglie mi ha appena telefonato dicendo di far presto dato che tu eri appena
uscito!”
rispose
l’altro
“...ho capito...vuoi che ti ficchi la testa su per il culo?”
“...cazzo, ma se vuoi vedere un po’ di merda non è più
semplice metterti davanti allo specchio?”
“...amico...sei in cerca di rogne, vero? allora vuol dire
che le hai trovate!”
“...no...trovo strano che tu sia qui. Gli stronzi non
dovrebbero viaggiare nelle fogne?”
Era quasi divertente starli ad ascoltare
ma me ne andai e li lasciai a loro
“...devi solo succhiarmi l’uccello, amico!”
“...quale? non vedo la gabbia!”
“...tra un po’ vedrai le stelle!”
“...cristo santo, ti porti dietro il telescopio tutti i
giorni?!”
era iniziata un’altra gran bella giornata
e ce ne sarebbero state ancora
il traffico impazziva
in un mondo pieno di pazzi
il sole vomitava calore
sul genere umano
facendo sudare tutti di brutto
ed anche me
i gatti dormivano all’ombra
mentre un cane attraversava la strada
con la lingua a penzoloni
guardai prima a sinistra e poi a destra
e la attraversai anch’io.
Alvaro.
giovedì 8 settembre 2016
Matrimonio a Coronata

Era un bellissimo pomeriggio di fine giugno
quando gli sposi entrarono nella piccola chiesetta di Coronata, attraversando
una discreta folla di curiosi, qualche tossico appoggiato al muretto della
salita e i parenti in lacrime, alcuni vestiti all’antica con giacche e cravatte
altri decisamente più sobri, forse un po’ troppo ma con i volti abbronzati ma
tutti, dico tutti, erano sudati marci e anche i bambini che vociavano e
correvano allegri, tirandosi addosso una varietà di riso scadente, sudavano
copiosamente e il sole scintillava con i suoi raggi sulle goccioline che
scendevano dalle loro fronti e i cani avevano la bocca spalancata con la lingua
a penzoloni e ansimavano e abbaiavano per poi lasciarsi cadere in qualche
anfratto lurido alla ricerca di ombra e quando gli sposi varcarono la soglia
del portone in legno della chiesa ci furono degli OOOOHHHH da parte dei
bambini, come in quella canzone di Povia e una folata di vento improvvisa
scompigliò i capelli di tutte le adolescenti brufolose che erano sedute all’interno
per godersi il fresco insieme ai più anziani mentre gli sposi avanzavano
lentamente uno accanto all’anziana madre, infilata a fatica dentro un vestito
giallo e rosso e l’altro accanto al padre che dritto come un pilastro dell’autostrada
pareva avere la testa come un soprammobile appoggiata al colletto di una
camicia bianca lavata troppe volte e la sposa aveva un bellissimo vestito
bianco di organza con lo strascico che veniva calpestato da decine di marmocchi
irritati dal caldo e lo sposo indossava un completo alla coreana nero opaco con
cuciture ai polsi che formavano disegni orientaleggianti e quando si trovarono
di fronte al sacerdote si guardarono negli occhi e pareva che in quegli occhi
ci fosse tutta la felicità di questo mondo ma io sapevo che di felicità non poteva
essercene abbastanza per tutti e l’anziano prete officiò la cerimonia in
maniera davvero impeccabile riuscendo anche a fare delle battute in dialetto
genovese che quasi nessuno capiva perché l’unico ligure era lui ma il tutto
sortì l’effetto desiderato e poi disse la frase di rito e gli sposi si dissero
si reciprocamente decretando la fine dei loro sogni da bambini e si baciarono
furiosamente, lungamente al punto che un anziana donna si sentì in imbarazzo e
volse lo sguardo altrove e i genitori degli sposi iniziarono a modo loro a
piangere e qualcuno iniziò a urlare ai bimbi di stare zitti e non fare chiasso
ma quando gli sposi uscirono sul sagrato della chiesa iniziarono ululati e urla
e cori e fischi e applausi e lanci di riso e latrati di cani e clacson di
macchine e clangore di campane a festa poi arrivarono un bambino che sembrava
un piccolo mafioso e una bambina che sembrava una piccola baldracca e ognuno di
loro aveva in mano una colomba e ogni colomba aveva un nastrino legato alla
zampetta, azzurro per il piccolo padrino e rosa per la sua degna compare poi
porsero le colombe agli sposi che delicatamente le afferrarono e si guardarono
negli occhi e con un piccolo gridolino di gioia le lanciarono verso il cielo e
ci fu gente che fece foto, filmati e quant’altro e le colombe sbattevano le ali
e parevano disorientate come se si inseguissero una coll’altra e tutti le
guardarono per un po’ ma il sole picchiava così duro che gli sguardi si
abbassarono e arrivò una macchina di quelle americane, lunga un chilometro,
bianca, con un ‘autista vecchio e mezzo gobbo che scese e aprì la porta
posteriore con estrema fatica e io pensai che forse quella sarebbe stata la
fatica che lo avrebbe stroncato proprio in quel frangente e pregai che non
accadesse e per fortuna non accadde così gli sposi salirono e i genitori
applaudirono sicuramente pensando a quanto gli era costato l’affitto di quella
macchina che quasi non riusciva a far manovra nella piazzetta e quando la prua
della Lincoln si diresse verso la discesa
allora tutti corsero verso le rispettive vetture per seguire gli sposi e
c’erano fiori e riso ovunque e le colombe ormai dimenticate iniziarono a
puntare verso sud in direzione di Ponte Assereto e l’allegra comitiva festante
discese la strada di Coronata quando ancora gli anziani del rione si scambiavano
antichi rituali da compiere sempre dopo un matrimonio con la regia di arcane
liturgie tramandate di padre in figlio sia che si trattasse di un matrimonio o
di un funerale e quando gli invitati si trovarono in piazza Massena dopo aver
atteso il verde del semaforo svoltarono tutti verso levante diretti ai giardini
di Nervi e le colombe che veleggiavano perfettamente in coppia fecero una sorta
di leggera cabrata per poi picchiare verso la Lanterna con i loro nastrini
ancora attaccati alla zampette uno azzurro e uno rosa e quando la bianca
macchina americana guidata dal vecchio gobbo imboccò la sopraelevata tra
schiamazzi e clacson e felicità nessuno si accorse che le colombe stavano
perdendo quota e quando la lunga fila di macchine arrivò ai giardini di Nervi
per le foto le colombe erano ancora una a fianco all’altra che volavano quasi
al livello del mare con un orizzonte basso e lontano e terso e affilato come
una lama di rasoio ed era certo che avrebbero volato ancora accanto con i loro
nastrini, uno rosa e l’altro azzurro e quando il fotografo chiese agli sposi di
baciarsi per la foto di rito davanti alle famose rose dei giardini di Nervi la
colomba col nastrino rosa cadde in acqua ma l’altra continuò ancora per una decina
di metri poi atterrò su una boa di segnalazione e beccò ripetutamente il
nastrino azzurro che si sfilò.
Poco dopo riprese il volo. Quando arrivò sul Porto Antico atterrò
delicatamente vicino ad una panchina dove un signore in abito bianco e cravatta
gli lanciò del pane secco. Era domenica. Il sole stava tramontando e da lì a
non molto, Genova, pigramente , si sarebbe addormentata.
martedì 6 settembre 2016
Ale, il miracolato!
Ale aveva la fissa di nuotare fino
al largo, troppo al largo nel suo amato Mar Ligure savonese.
Quella volta, però, qualcosa di
tremendo lo attendeva al varco. Erano i primi di settembre,il
mare era ancora tiepido e invitava al
consueto cimento natatorio. Lui non ci pensa neppure
un po'. Si tuffa, indossa le sue
amate pinne sgangherate, ultratrentennali; in qualche minuto è
al largo ,felice di solcare come un
siluro quell'acqua tanto adorata. Si ferma alla seconda boa,
quella molto distante dalla riva.
Vede qualcosa, a venti-venticinque metri sulla sinistra mentre
ballonzola pigramente tendendosi
alla boa stessa, cullato dalle onde. Non ci sono dubbi,
è una pinna verticale anzi, a ben
guardare, sono due e poi tre. Il poveraccio è raggelato:
sono tre verdesche,squali dei nostri
mari non eccessivamente grossi di taglia ma sufficienti,
uno solo di loro, a infliggere
ferite anche mortali; per non parlare poi di quando sono in
gruppo. Le tre sagome ormai sono
nitide. Si avvicinano decise, puntano alla sagoma
semi-sommersa di Ale, forse
interpretandolo come un mammifero insolito ma sicuramente
interessante dal punto di vista del
nutrimento che le proteine del suo corpo nudo rappresentano.
Fu in quei secondi che come una
folgorante ispirazione, la memoria gli ripropose una vecchia
Preghiera che insieme a sua zia e a
suo padre, in un secondo tempo, soleva recitare tutte le
sere da bambino e da ragazzo prima
di addormentarsi: eccolo in preda alla disperazione più
nera, le silhouette agili e verdeggianti
dei tre squali sono a 5-6 metri da lui mentre un fiotto
di calda urina scivola in
mare,oltrepassando il suo costume-boxer,egli ora sta recitando
il Padre Nostro. Lo fa a occhi
chiusi rimettendo tutta,ma proprio tutta,la sua anima a
Dio. Dio,questo strano
Personaggio,questo Padre per troppo tempo considerato lavativo ed
assente da un figlio tendenzialmente
degenere e prodigo quale Ale ha provato di essere,per
decenni.E QUALCOSA ACCADE: ...e
liberaci dal male...la pronuncia piangendo come un
bambino,la frase,rassegnato a
ricevere la giusta punizione per le malefatte della sua vita,eppure
conservando un pizzico di speranza
nella Misericordia del Padre,come la definivano
i religiosi della sua
infanzia.Riapre gli occhi,le pinne sono scomparse,così come le sagome
sinistre dei tre pescecani.
Lentamente,di dorso,piano piano,spinnando all'andatura di un
vecchio ottantenne,Ale riapproda
alla riva,e il suo mondo,la sua vita,la sua testa,il suo
cuore, non sono più gli stessi,nè
mai torneranno ad esserlo,fortunatamente,o sarebbe
il caso di dire,per Grazia ricevuta.
domenica 4 settembre 2016
venerdì 2 settembre 2016
DA CHI SIAMO COMANDATI?
Vi siete mai chiesti quali siano gli effetti paradossali dei meccanismi che
governano la carriera aziendale dei vari Direttori Sanitari, Direttori di
Struttura e, in generale, tutti quelli a voi gerarchicamente superiori e che
hanno fatto carriera?
Vi siete mai domandati almeno una volta, a livello di
pensiero, perché quando questi personaggi parlano in pubblico oppure scrivono
proclami destinati ai sottoposti, vi si
insinua prepotentemente nella testa l’idea che possano essere idioti? Beh,tranquillizzatevi;
non si tratta di invidia o di stress né tanto meno di burn-out condito da populismo di basso livello ma solo che potreste avere
scientificamente ragione a motivo del Teorema di Peter, noto anche come principio di incompetenza,
Esso
fu formulato nel 1969 dallo psicologo canadese Laurence J. Peter, in un libro dal titolo The Peter Principle, pubblicato nel
1969 in collaborazione con l'umorista Raymond Hull. Il saggio ebbe una notevole
fortuna letteraria e ha conosciuto numerose edizioni e traduzioni.
« In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di
grado fino al proprio livello di incompetenza »
|
Il Teorema di Peter va inteso nel senso che, in una gerarchia, i
membri che dimostrano doti e capacità nella posizione in cui sono collocati
vengono promossi ad altre posizioni. Questa dinamica, di volta in volta, li
porta a raggiungere nuove posizioni, in un processo che si arresta solo quando
accedono a una posizione poco congeniale, per la quale non dimostrano di
possedere le necessarie capacità: tale posizione è ciò che gli autori intendono
per «livello di incompetenza», raggiunto il quale la carriera del soggetto si
ferma definitivamente, dal momento che viene a mancare ogni ulteriore spinta
per una nuova promozione.
Dal principio di Peter discende il seguente corollario:
« Con il tempo, ogni posizione lavorativa tende a
essere occupata da un impiegato che non ha la competenza adatta ai compiti
che deve svolgere. »
|
Ne consegue anche che risulta cruciale, per
l'organizzazione, il lavoro svolto da quei lavoratori che mostrano di essere
capaci nella loro posizione, non avendo ancora raggiunto il livello di
incompetenza. Ne consegue che, in un'organizzazione:
« Tutto il lavoro viene svolto da quegli impiegati
che non hanno ancora raggiunto il proprio livello di incompetenza. »
|
Il principio di Peter, applicato alle organizzazioni umane,
può essere considerato un caso speciale di una formulazione più generale:
« Ogni cosa che funziona per un particolare compito
verrà utilizzata per compiti sempre più difficili, fino a che si romperà. »
|
La paternità di tale enunciato è dell'accademico William R.
Corcoran, che lo formulò a seguito delle sue ricerche per sviluppare azioni
correttive da adottare nella gestione degli impianti nucleari. Corcoran rilevò,
infatti, la tendenza a utilizzare apparati, dimostratisi efficaci per un
determinato lavoro, per compiti per i quali detti apparati non erano stati
concepiti; a titolo di esempio, l'uso di aspirapolvere per aspirare fumi e
sostanze tossiche in luogo degli appositi sistemi di aspirazione, oppure
l'affidamento a impiegati amministrativi della redazione dei piani di emergenza
invece di incaricare di tale compito gruppi di lavoro con competenze specifiche
sul tema.
Peter applicò il medesimo principio alle strutture umane
valutandone gli effetti complessivi sul funzionamento delle organizzazioni
partendo dalla considerazione che, in un'azienda gerarchica, le promozioni
degli impiegati sono funzione diretta delle capacità dimostrate nello svolgimento
dei compiti loro assegnati. In altri termini, finché costoro si dimostrano in
grado di assolvere ai compiti assegnati, essi vengono promossi al livello
immediatamente superiore, nel quale devono assolvere compiti differenti. Alla
fine del processo gli impiegati hanno raggiunto il proprio «livello di
incompetenza», ovvero la condizione in cui non sono più in grado di svolgere i
compiti assegnati e pertanto non hanno più alcuna possibilità di avanzamento,
ponendo così fine alla propria carriera nell'organizzazione.
L'incompetenza non dipende dal fatto che la posizione
gerarchica elevata preveda compiti più difficili di quelli che l'impiegato è in
grado di svolgere bensì, più semplicemente, di natura diversa da quelli svolti
in precedenza e che richiedono quindi esperienze lavorative che l'impiegato
solitamente non possiede. Per esempio, un operaio tornitore che svolgesse il
suo lavoro in modo eccellente potrebbe essere promosso caporeparto, posizione
in cui, tuttavia, potrebbe non essere più essenziale di per sé l'abilità a
manovrare il tornio quanto l'imprescindibile capacità di trattare con il
personale sottoposto.
Il funzionamento del principio fu oggetto di modellizzazione matematica attraverso la
quale fu dimostrata la sua validità teorica per le simulazioni. La simulazione
matematica ha mostrato come un'organizzazione può aggirare gli effetti negativi
del principio di Peter e guadagnare in efficacia adottando principi casuali per
l'attribuzione delle promozioni.
A tutti noi è capitato di dire almeno una volta che i ruoli
più blasonati o quantomeno importanti, sono spesso ricoperti da incompetenti o
da raccomandati: a tutti è passato per la testa di essere comandati da degli
emeriti imbecilli ma anche a tutti, almeno qualche volta, è passata per la
testa questa frase “Beh, se è li un motivo ci sarà”.
In effetti c’è, e pare che dia ragione al fatto che chi comanda, ad ogni
livello, sia un testone o quantomeno un incompetente:
“Un individuo inserito in una scala gerarchica inizia
l’attività con un ruolo preciso, svolgendo compiti precisi.
Se svolge bene i suoi compiti viene 'promosso', passando a compiti diversi.
Dopo un certo tempo, se anche questi nuovi compiti vengono svolti bene, scatta
una nuova promozione. Tali promozioni portano a posizioni dette apicali che,
per definizione, devono essere occupate da persone con una spiccata attitudine
a risolvere problemi.
Il gioco delle promozioni continuerà così fino al momento in cui l’individuo
non sarà più in grado di svolgere i compiti assegnatigli. Da quel punto in
avanti non avrà più promozioni. Ha raggiunto il massimo della sua carriera. Per
cui ecco il principio: In ogni gerarchia, un dipendente tende a salire fino al
proprio livello di incompetenza. Da questo principio discende che ogni posto
chiave tende potenzialmente ad essere occupato da un incompetente, un soggetto
cioè in grado di creare più problemi di quanti possa risolverne. Il che spiega
molte cose sul funzionamento di parecchie istituzioni.”
domenica 1 maggio 2016
Ex Novo.
Ho la necessità di negarti
di voltarti le spalle
di sapere che sei assente
per cercarti
non voglio abituarmi a te
non voglio aspettarti
devo sbagliare
devo sbandare
ma lontano da te
martella il mio cuore
dai forma a questo sasso
forse
ti lascerò uno spiraglio.
di voltarti le spalle
di sapere che sei assente
per cercarti
non voglio abituarmi a te
non voglio aspettarti
devo sbagliare
devo sbandare
ma lontano da te
martella il mio cuore
dai forma a questo sasso
forse
ti lascerò uno spiraglio.
Lavagna.
Da molti anni vivo qua
circondato da case nitide
ciascuna con tegole di ardesia
come la mia.
Intorno a me ulivi a perdita d'occhio
che svettano su fasce centenarie
e i fiori
e i ciliegi
e le poiane
e i gabbiani
e i cani che abbaiano
di notte
in lontananza
e i cinghiali
che scavano buche
intorno alla mia casa.
Le sirene delle autoambulanze
durante il giorno
mi ululano
la disperazione degli altri
insieme a quello dei decespugliatori
che in lontananza
preparano il profumo serale di erba tagliata.
E quando viene la notte
in questo periodo
ci sono le prime lucciole
che pigramente
compiono lente danze nel buio.
Ma è al mattino
che c'è lo spettacolo più bello.
Quando apro la finestra
della mia camera
e davanti a me
vedo Lavagna
che ha sulle spalle
centottanta gradi di mare azzurro.
circondato da case nitide
ciascuna con tegole di ardesia
come la mia.
Intorno a me ulivi a perdita d'occhio
che svettano su fasce centenarie
e i fiori
e i ciliegi
e le poiane
e i gabbiani
e i cani che abbaiano
di notte
in lontananza
e i cinghiali
che scavano buche
intorno alla mia casa.
Le sirene delle autoambulanze
durante il giorno
mi ululano
la disperazione degli altri
insieme a quello dei decespugliatori
che in lontananza
preparano il profumo serale di erba tagliata.
E quando viene la notte
in questo periodo
ci sono le prime lucciole
che pigramente
compiono lente danze nel buio.
Ma è al mattino
che c'è lo spettacolo più bello.
Quando apro la finestra
della mia camera
e davanti a me
vedo Lavagna
che ha sulle spalle
centottanta gradi di mare azzurro.
sabato 30 aprile 2016
Saggezza.
E' venuto il giorno
in cui devo rassegnarmi.
Non ho più illusioni.
Accetto la sconfitta.
Ogni tanto penso a quando ero vincente,
sano e forte.
Ma ho ammesso con me stesso
che non era vero
che era solo
il momento migliore
della mia esistenza.
Ricordo quando rimanevo in silenzio
per ore
ad assaporare l'energia
della mia gioventù.
Mentre adesso
nello stesso silenzio
mi avvio verso il nulla.
in cui devo rassegnarmi.
Non ho più illusioni.
Accetto la sconfitta.
Ogni tanto penso a quando ero vincente,
sano e forte.
Ma ho ammesso con me stesso
che non era vero
che era solo
il momento migliore
della mia esistenza.
Ricordo quando rimanevo in silenzio
per ore
ad assaporare l'energia
della mia gioventù.
Mentre adesso
nello stesso silenzio
mi avvio verso il nulla.
giovedì 28 aprile 2016
PREGHIERA PROFANA.
Non ho trovato lo smarrimento necessario per mettere ordine alle mie parole.
Non ho trovato il giusto ordine ai miei pensieri quindi, è probabile, che non morirò.
Non sarò nel posto sbagliato al momento giusto.
E, adesso che ci penso, sono già morto cinque volte da quando sono nato.
Ricordo la prima volta che morii: avevo un anno.
Sono sul seggiolone. Mio padre lancia una bottiglia di vino attraverso la luce del neon. Mia madre urla. Una colata rossa alle mie spalle. Vetri ovunque. Uno specchio davanti a me riflette la mia immagine e quella di un uomo che picchia una donna. Io piango. Il tempo non passa mai e quando passa, passa male.
Padre mio, che eri accanto a me
sia maledetto il tuo nome.
La seconda volta avevo tre anni. Nevicava. Lo aspettavo all' asilo. Stava venendo buio. La suora mi scherniva: ' Tuo padre non verrà! '. Ma quando arriva io sono felice. Guardo la suora con disprezzo. Mio padre mi afferra per un braccio e mi costringe a camminare al suo passo. Cado. La neve è bianca e fredda. Ho la faccia dentro di essa. Non mi prende in braccio perché il suo vestito è nuovo. Arrivati a casa mi dice: ' Non dire nulla alla mamma!' Io batto i denti dal freddo. ' Hai capito?' - urla. Non riesco a parlare ma annuisco.
E venga il mio sdegno
e sia fatta la sua volontà.
La terza volta arrivò per mano di mia madre. Avevo 17 anni. Il giorno di Natale davanti al presepio. Mi dice che quando è rimasta incinta mio padre era ubriaco. Doveva salvare un matrimonio. Dovevo capire. Dovevo sapere. Dovevo dividere la sua merda.
Così in cielo, così in terra.
E rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri genitori.
La quarta volta fu quando mi separai. Undici anni di matrimonio e due figli mi presentarono il conto. Telefonai a mio padre per un aiuto. ' Cazzi tuoi!' - mi rispose.
Poi, una notte, dal ponte del Turchino, con una nave sfavillante all'orizzonte tentai il suicidio. Un camionista mi afferrò dai pantaloni e mi fece sedere sull'autostrada deserta. Mi offrì dell'acqua. Mi accarezzò una guancia. Intorno a me il silenzio. Piansi.
Ma non ci indurre in tentazione.
L'ultima fu la morte più bella. Più gratificante. Arrivò con una raccomandata. Mio padre era morto. Andai al funerale. Sentii parole inutili. Guardai con attenzione la sepoltura. Quella terra seppellì anche un po' di me. Lui era morto e i suoi ricordi di me erano morti. Quando uscii dal cimitero, risi.
E liberaci dal male. Amen.
Alvaro
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