Lascio lo zaino nel magazzino
perché mi hanno detto che di armadietti non ce ne sono. Mi consegnano la tuta
di tyveck bianca con strisce blu e due maschere: una cosiddetta chirurgica,
l’altra ffp2. Inizio a spogliarmi.
Perché sono qui? Devo essere un pazzo scatenato. Ho lasciato la
tranquillità di una casa di riposo (benché proprio al suo interno mi sono preso
il Covid), per dare aiuto e supporto all’interno del pronto soccorso e OBI
COVID (reparto in cui transitano tutti i positivi con gravi problemi
respiratori). Ricordo ancora la lettera con cui mi presentavo all’agenzia
interinale zeppa di grandiose motivazioni con derive quasi eroiche. Mi avevano
immediatamente assunto. I Kamikaze in quel periodo erano rarissimi ma io non lo
sapevo.
Mi infilo la divisa, la tuta, i
calzari, i sovra calzari isolanti le maschere protettive, i doppi guanti e il
casco di protezione con la visiera. Assicuro con nastro adesivo i sovra calzari,
i guanti e INIZIO A SUDARE. Gli occhiali mi si appannano. Sono le 7 e cinque
del mattino e vorrei già farmi una doccia. Mi guardo allo specchio. Ho pietà di
me. Faccio un profondo respiro, una piccola preghiera affidando la mia mente al
D.P.I. più sicuro di tutti: il nostro Creatore quindi apro la porta comandata
da un codice.
Appena varco l’ingresso del magazzino un altro alieno come me, nel senso del dress code, mi si avvicina e si presenta molto velocemente. Ho esperienza? Ho lo stomaco forte? Sono debole di vescica? Il sangue mi fa impressione? Rispondo nell’ordine sì, sì, no, no, anche se ad ogni prelievo che mi è stato indicato di eseguire prima di quel giorno non ho mai guardato la siringa. Bene, bene, dice qualcuno dentro la tuta che mi sta davanti e mi chiede di seguirlo. Cammino lungo il corridoio e, come un bambino all’affannosa ricerca della sua mamma che prima o poi sarebbe spuntata per salvarlo da quel luogo così orribile, getto sguardi dentro le stanze. Uomini e donne nei letti tutti con caschi e tubi per la respirazione. Alcuni di loro hanno gli occhi aperti ma non guardano. Sono come degli optional messi lì per fare figura. Da dentro il casco, tutto umido e gocciolante di sudore, combattono la loro battaglia più importante e difficile e credo che, tra una gocciolina e l’altra, all’interno di quel casco, molto spesso, il pianto li accompagna per molte ore della giornata. Poi ce ne sono altri i cui occhi sono chiusi. Respirano a fatica mentre sugli apparecchi di rilevazione i parametri continuano a peggiorare. Li guardi e i loro visi sono già, come dire, contratti come di chi si appresta a riposarsi invece che in un comodo letto bensì in uno scomodo giaciglio o addirittura in terra. Ed è proprio lì che finiranno tra nemmeno 20 ore. Cammino e so che il virus è lì intorno a me. Mi ha già risparmiato mesi prima e non gli ho nemmeno detto grazie. Con questo pensiero, insieme al mio collega che impreca, ci avviciniamo ad un paziente da cambiare, lavare e dargli la colazione. I tempi sono di 15 minuti l’uno, vengo a sapere dall’altro, il che mi fa comprendere che bisogna trottare. Dai Alvaro. Coraggio. Hai 58 anni ma ne verrai fuori anche oggi da qui.