La notte si era appena dileguata intorno a lui, senza
avergli permesso di dormire, inchiodandolo ad uno stato di veglia talmente
brutale da stordirlo. Stava sdraiato a terra, di fianco al suo letto, a causa
della sbronza della sera prima.
Tutto intorno, sparsi sul pavimento. centinaia di fogli, con
su scritti milioni di parole; tutte nate dalla sua rabbia, dal suo dolore,
dalla sua disperazione.
In mezzo a tutta quella carta c’era ancora la busta
strappata che conteneva l’ennesima lettera di rifiuto, l’ennesimo editore che
aveva distrutto il suo sogno di vedere pubblicate le sue poesie, i suoi
racconti, i suoi pensieri stupidi.
Erano le sue parole. Ed erano li per terra. Sarebbe bastato
spazzarle via o bruciarle per non vederle mai più. Tutto a un tratto iniziò ad
odiarle. Aveva speso un bel pezzo della sua vita per scriverle, rinunciando ad
amicizie, perdendo donne meravigliose e trattando se stesso come l’ultimo degli
ultimi.
Evidentemente a nessuno interessavano. Non c’era una sola
anima illuminata in tutto quel buio di incertezza. Era un fallito, anche se
nessuno glielo aveva mai detto esplicitamente. Avrebbe potuto scrivere romanzi
d’amore, fiabe o addirittura fantascienza...e invece NO!!
Tutte quelle cose sulle brutture della vita lo avevano
annientato in tutti i sensi...e ora erano li sul pavimento che attendevano di
essere calpestate o riposte con cura in qualche angolo di un solaio dove il
tempo, i topi e l’umidità si sarebbero divertiti a farne scempio.
Si issò faticosamente sulle ginocchia ed iniziò a
raccogliere tutti quei fogli.
Impiegò parecchio tempo per sistemarli sul tavolo e quando
ebbe finito, davanti a se, si formò un’alta colonna di un bianco opaco e con i
lati irregolari.
Pareva il lungo collo di una mostruosa creatura. Lo guardò a
lungo, barcollando leggermente in avanti, poi con passo insicuro si diresse
verso il ripostiglio. Dal suo interno tirò fuori un enorme zaino di un blu
ormai scolorito che gli proiettò nella mente tutti i bellissimi viaggi fatti in
sua compagnia. Se lo avvicinò al naso e con dei profondi respiri lo annusò;
puzzava di muffa e polvere di decenni ma con un incredibile sforzo sensoriale
riuscì ancora a percepire il profumo di nuovo che aveva quando lo acquistò da
ragazzo. Lo aprì e lo sistemò sul tavolo. Senza indugiare lo riempì con tutta
quella carta. Poi lo richiuse e se lo mise in spalla, accusandone il forte
peso. Uscì dalla sua vecchia abitazione e si diresse verso quell’alta collina
sulla quale, da giovincello, amava recarsi alla sera per guardare la città
dall’alto, seduto sopra uno sperone roccioso che fuoriusciva così tanto da una
sua parete da dare l’impressione, a chiunque lo guardasse dal basso, di vedere
un trampolino per i tuffi, anche se sotto non c’era la piscina con l’acqua ma
50 metri di vuoto e i binari della ferrovia sui quali, ogni tanto, scorrevano
pesantemente lunghissimi treni merci diretti verso gli appennini e poi oltre
fino al mare.
Il suo cammino fu lento e faticoso.
Ci fu un attimo in cui gli parve di realizzare l’esatto
stato d’animo di Gesù Cristo mentre, con la croce sulle spalle, scalava il
Golgota.
Ma fu solo un attimo. Il tempo scorreva. La luce diminuì e
la notte scese, ammorbando ogni cosa di buio. Egli arrivò ansimante su quella
protuberanza rocciosa; posò lo zaino e si sedette con le gambe a penzoloni nel
vuoto.
SI!
La sua città c’era ancora! Solo che ora splendevano
molte più luci e si potevano vedere sfrecciare molte più macchine sulle strade.
Rimase in quella posizione ad osservare quel turbinio di luci per oltre un’ora.
Poi gli parve che la città si fosse addormentata; le luci
nelle case si erano spente una dietro l’altra e anche il fiume, che si
srotolava pigramente giù nella vallata, sembrava essersi assopito.
Si ridestò dalle sue visioni ad occhi aperti e si alzò in
piedi. Sporse cautamente il corpo in avanti, osservò il vuoto e sputò.
Indietreggiò di qualche passo e afferrò lo zaino. Lo riaprì facendolo
strisciare fino al bordo dello sperone di roccia. Alzando lo sguardo si accorse
di un meraviglioso cielo stellato; quante volte lo aveva guardato cercando
ispirazione.
Ed ora era lì, davanti a lui, sopra di lui, ovunque.
La serata sembrava giusta per pareggiare i conti con
l’universo.
Estrasse i fogli di carta zeppi di parole.
Erano le sue parole.
Le aveva scritte lui dopo aver bevuto, dopo aver pianto e
urlato la sua pazzia al mondo intero. Con un lento gesto le alzò verso il
cielo, come in un propiziatorio dono al nulla...e le scagliò nel vuoto.
Dapprima quel mucchio di fogli parve precipitare poi, come in
un improvviso battito d’ali, esplose e ognuno di quei fogli prese una direzione
diversa dall’altro.
Erano le sue parole.
Lui le aveva scritte.
Continuò a lanciare quella carta nell’infinito fino a che lo
zaino fu vuoto.
Subito dopo gli assestò un calcio, abbandonandolo a se
stesso quindi prese la strada del ritorno velocemente, senza voltarsi.
MA COSA AVEVA FATTO?
Si era separato dall’unica cosa in grado di tenerlo in
vita...forse ancora per qualche anno!
Continuò a camminare.
Cosa avrebbe letto d’ora in poi? Il giornale con le notizie
sportive? Un libro di cucina? L’oroscopo della settimana? I necrologi?
I suoi piedi divennero pesanti a tal punto che si dovette
fermare. Rimase come pietrificato per qualche secondo poi, con un gesto
leggiadro, si voltò e quello che vide lo stupì più di ogni altra cosa al mondo:
tutti i suoi fogli, le sue parole, i suoi pezzi di vita ERANO DAVANTI A LUI!
Come un’immensa nuvola bianca che si stagliava nel cielo stellato.
Probabilmente una corrente ascensionale li aveva sollevati verso l’alto. Ma lui
non volle interpretare la cosa scientificamente.
Ci voleva poco a capire che si trattava di un segno del
destino.
Erano le sue parole. Lui le aveva scritte. Ne era certo.
Guardò quella nuvola come un bambino guarda i fuochi d’artificio quindi
iniziò a correre.
Dapprima lentamente, poi sempre più velocemente verso di
essa.
Gli vennero in mente molte cose in quegli attimi: la sua
vecchia madre, il padre che non aveva mai avuto, la sua infanzia, i suoi figli
che lo avevano abbandonato, la casa dove aveva vissuto, le donne che aveva
amato....DIO.
La nuvola era sempre li, davanti a lui, ogni attimo più
vicina.
Mentre correva iniziò a piangere con un misto di tristezza,
dolore e felicità.
Il trampolino di roccia stava per finire ma la sua corsa era
costante, sinuosa, elegante.
I suoi fogli galleggiavano nel vuoto, come in attesa di
qualcosa...o di qualcuno.
Percorse gli ultimi metri e con un balzo si staccò dal
suolo...a braccia aperte...con un sorriso...verso le sue parole.
Le aveva scritte lui.
Nell'acme del tormento interiore,correndo verso il tragico salto,si eterna,cristallizzandosi nell'aere,la forte carico di amore-odio-speranza-disperazione,dicotomici si,ma complementari di una sintesi finale sempre inarrivabile per l'uomo. Il salto dal roccione ricorda la grande Saffo,poetessa greca del settimo secolo (630-570 A.C.),che,non corrisposta da Faone,si gettò in mare dalla rupe di Leucade. Il sublime dei romantici include financo gesti estremi.
RispondiEliminaAle