Diede un’occhiata circolare alla
grande stanza: lo sguardo abbracciò l’ampio tavolo barocco che fungeva da
scrivania, sopra al tappeto persiano; si spostò, poi, all'arazzo secentesco che
occupava tutta la parete alle spalle di una poltrona dirigenziale, in morbida
pelle scura sulla quale aveva passato un considerevole periodo di tempo negli
ultimi dieci anni della sua vita.
Non sarebbe stato rieletto alla
carica di sottosegretario all'ambiente d'altronde il giorno prima, aveva
rassegnato le proprie dimissioni e non lo aveva neppure sfiorato, nei mesi
precedenti, l’idea di ripresentarsi candidato alle elezioni che si sarebbero
tenute tra meno di dieci giorni.
Era stata una questione di buongusto,
un ultimo anelito alla decenza.
Qualche settimana prima era già stato arrestato l’amministratore
delegato e i tre soci dell’A.N.T.E.C., un’industria chimica sorta alla fine
degli anni ’70, proprio in prossimità di un’area urbana, in un paesino
dell’estremo sud italiano.
Era solo una questione di tempo e
sarebbero arrivati fino a lui, se già non lo avevano fatto. Quando? Domani? O
forse il giorno dopo ancora?
La stampa avrebbe messo in piazza i
suoi traffici illeciti e tutti avrebbero saputo che razza di farabutto era“l’Onorevole Alvaro De Michelis” nato a Genova, zona Campi.
In vent'anni di corruzione politica
aveva intascato una quantità tale di mazzette, sulla pelle della povera gente, da
poter considerarsi un uomo ricco. Gli anni del silenzio e della connivenza
avevano prodotto, almeno ottanta morti, causati da tumori direttamente
collegati all'inquinamento ambientale prodotto dalla fabbrica. Così aveva
stabilito la magistratura.
A lui, invece, tutti quegli anni avevano
fruttato “solo” parecchi milioni di euro.
Certo, a sua discolpa poteva invocare
il fatto che a essere marcio fosse il sistema e che fossero implicati altri organi
di controllo e di tutela, ma LUI sapeva e aveva taciuto per vigliaccheria, per
cupidigia e aveva mandato la sua coscienza in vacanza. Ma ora si rendeva conto dell’immane disastro che
aveva permesso e qualcosa giù, più o meno all'altezza delle viscere, si
contorceva come una biscia impazzita, procurandogli a tratti un dolore acuto.
Dapprima si era spaventato pensando a un brutto male, poi aveva capito: la
coscienza aveva terminato le vacanze e lo incalzava senza lasciargli respiro.
Pensò alla sua famiglia: anche loro
avrebbero saputo. Non osava considerare quell'evento.
Incrociò lo sguardo di sua moglie
Viviana e dei figli Marco e Serena che gli sorridevano dalla raffinata cornice
in argento e cristallo sulla scrivania, ancora ignari della bufera mediatica che
di lì a poco li avrebbe travolti tutti. Lui, nella foto,rimaneva dietro di loro
con le braccia allargate, circondando tutti e tre in un abbraccio protettivo.
Pensò al periodo felice di quell'istantanea scattata una ventina di anni prima: aveva circa trent'anni, pochi
soldi, tanti sogni e una famiglia felice.
Poi le cose erano cambiate.
Si concentrò sul suo viso acerbo di
giovane uomo, riprodotto accanto a quello raggiante di Viviana: il suo sguardo
diretto e aperto e il suo sorriso fiducioso dicevano qual era il futuro che
voleva, non solo per se e la sua famiglia, ma per l’intera società della quale
si riteneva parte integrante. Allora aveva ideali irrinunciabili di giustizia e
condivisione, per stabilire i quali aveva pensato che il mezzo più idoneo fosse
proprio una vita spesa nella politica: nella buona politica.
Era un puro e si commuoveva nel
ricordo della sua genuina fede per la ragion di stato e di come si spendeva con
zelo e vigore a favore dei deboli.
Non riusciva a ricordare quando le
cose fossero cambiate: forse era successo in maniera impercettibile, oggi un
orologio d’oro, domani un’auto di lusso, e poi la barca ,l’appartamento e
soldi, tanti soldi. Poi, come una barca che perde l’ancoraggio, pian piano si
era trovato al largo invischiato in un mare di acque oscure, vischiose e
maleodoranti.
Notò quanto si era trasformato in
quegli anni e quale sorta di metamorfosi incontrollata aveva modificato il suo
sguardo che era diventato sfuggente e velato; non riusciva più nemmeno a sorridere;
le sue labbra si tiravano, solo, in una specie di ghigno acido. La luce che
brillava nei suoi occhi si era spenta e aveva lasciato il posto a un’espressione
fissa e fredda. Rifletté che, mentre alla miseria non ci si abitua mai, si fa
presto ad assuefarsi al lusso, alle cose belle e lui, per delirio di possesso, per
brama di potere, aveva venduto la cosa più importante che aveva: la sua anima, anche
se non esattamente per un piatto di lenticchie.
Raccolse in una scatola di cartone
gli ultimi effetti personali, svuotando i due cassetti posti sotto le doppie
ante di un mobile, alla destra della scrivania: anche quello un pezzo unico di
antiquariato. Per ultima, in cima alla pila delle sue cose, pose la cornice con
la fotografia.
Durante la giornata aveva prenotato
una camera in un alberghetto vicino al Ministero. Avrebbe passato la notte lì:
non se la sentiva di tornare a casa.
Uscito per strada, si avviò verso la
farmacia di fronte, comprò una confezione di Valium e con la scatola in tasca,
lentamente si avviò verso l’albergo. Quel farmaco lo avrebbe fatto dormire.
Aveva bisogno di riposare. Era troppo stanco.
Mentre imboccava la porta d’ingresso,
gli venne in mente una canzone degli anni ottanta di Vasco Rossi : “… 10 gocce
di Valium per dormire bene,20 per dormire meglio, 100 per dormire del tutto”. Sorrise e per la
prima volta dopo settimane, si accorse che il dolore in fondo allo stomaco, non
c’era più.
Certo, rifletté, suicidarsi col
sonnifero è da deboli, da vigliacchi, da codardi e forse da donne. D'altronde lui era stato tutto questo e anche qualcosa in più. Per quanto riguardava
l’esser donna non ci era andato tanto lontano dato che le palle non le aveva
mai avute.
Alvaro.
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