PAROLE D'ASFALTO
VOTAMI!
lunedì 11 aprile 2022
Invecchiare serve a qualcosa...
Un Airbus A380 è sulla rotta per l'atlantico.
Vola costante a 800 km / h a 30.000 piedi di altezza, quando all'improvviso si avvicina un Eurofighter 7L-WF con velocità Mach 2.
Il pilota del caccia vola accanto all’aereo di linea e saluta il pilota via radio dicendo:
" Volo noioso, eh? Allora, guarda!"
Assetta il suo jet sulla schiena, accelera, spezza la barriera del suono, aumenta rapidamente fino ad un altezza vertiginosa, solo per ricadere in un tuffo mozzafiato quasi fino al livello del mare. Con un cerchio di morte, ritorna accanto all’Airbus e chiede:
" Com'è stato?"
Il pilota dell’Airbus risponde:
" Molto impressionante. Ma ora guarda qui!"
Il pilota del jet osserva l’aereo di linea, ma non succede niente, continua a volare dritto, con la stessa velocità.
Dopo cinque minuti, il pilota dell’Airbus dice via radio:
" Beh, che ne dici!?"
Il pilota del jet chiede:
" Che cosa hai fatto?"
L'altro ride e dice:
" Mi sono alzato, mi sono sgranchito le gambe, sono andato in bagno, poi mi sono preso un caffè, un bombolone e ho strappato un appuntamento alla hostess per le prossime tre notti, in un hotel a 5 stelle pagato dal mio datore di lavoro."
La morale della favola è:
Quando sei giovane, la velocità e l'adrenalina sembrano essere una cosa fantastica.
Ma se riesci a diventare vecchio e più intelligente, la convenienza e la tranquillità non sono da disprezzare.
sabato 29 gennaio 2022
C'era una volta...
… un uomo che aveva un difetto: voleva far vedere a tutti che sapeva sempre tutto. Non riusciva a trattenersi. Era più forte di lui. Di fronte a qualcuno che gli parlava di moto ,ecco che si improvvisava un provetto centauro; quando l'argomento era la politica diventava un esperto politologo e se la discussione virava improvvisamente sul tema della fame nel mondo il suo parere, di riffa o di raffa, non mancava di farsi sentire per l'eccellenza dei suoi forbiti contenuti. Questione era che quell'uomo veramente sapeva un po' di tutto: esattamente quel po' che gli bastava per millantare una conoscenza molto più ampia e dare sempre, in ogni occasione, l'impressione di uno che ha qualcosa di intelligente da dire.
Ovviamente i suoi occasionali interlocutori non osavano mai approfondire troppo con lui, vanificando quindi una reale possibilità di essere messo in difficoltà, almeno da loro. Purtroppo, così facendo, egli aveva smesso di imparare cose nuove e si limitava a rigirare come una bistecca sulla griglia quelle quattro nozioni che aveva in testa. Come se non bastasse, sempre più di frequente, lo assaliva il terrore che la gente potesse accorgersi della sua ignoranza. Prima o poi sarebbe successo. Qualcuno, sempre prima o poi, avrebbe gridato al mondo intero che lui era un imbecille e di certo, in quella malaugurata occasione, si sarebbe sentito un idiota. Pur tuttavia non escludeva del tutto l'ipotesi che quel giorno avrebbe potuto essere un bel giorno, alla fin fine. Quell'uomo, nel più profondo del suo essere, non desiderava altro che ottenere la libertà di non sapere per riuscire a vivere in pace con la sua coscienza.Alzheimer.
Ecco.
Alvaro.
Tra sette giorni.
Riunione di Equipe.
“Inutile star qui a cincischiare dottor Fenestrelli ; come può vedere dalle facce gli operatori sono tutti in subbuglio; vorrebbero una riduzione degli straordinari e l'ammodernamento delle strutture. Così è proprio un inferno!” Piera Cirio è la veterana del gruppo: una cicciona placida e benevola ormai prossima alla pensione.
“Non c'è proprio niente da proporre, vacca miseria ladra! Io ci metterei quella a fare la vita che facciamo noi!”
A imprecare è Lardelli, un infermiere che lavora in questa lugubre piccionaia da circa venticinque anni. Lardelli, detto "Lardo" (per via anche della sua mole addominale) è il boss della squadretta di operatori, infermieri ed educatori addetti alla gestione di una trentina di psicodeviati di vario genere. Guido Fenestrelli, neuropsichiatra della struttura, comprensivo e buono come il pane, ora deve mediare tra una ciurma sull'orlo dell'ammutinamento ed una direttrice giovane ma vecchia dentro e antipatica quanto il classico gatto che ti si artiglia ai testicoli e non accenna a mollare la presa.
“Ok, Lardo, dimmi quali sono le priorità e vedrò di proporre un piano di lavoro.”
“Belìn,le priorità sono che io ne ho le balle piene di dover rincorrere tutti i giorni quello sfigato del Cipretti! L'altro giorno me lo sono trovato che sfruculiava dentro le mutande della vecchia novantenne. Lui che ne ha 22! E io a cercare di togliergli le mani dal sedere della vecchia e lui a rinfilarle di continuo per poi annusarsele. A un certo punto mi sono stufato e l'ho spinto via con un calcio nel di dietro! Santo cielo, non posso mica aspettare tutte le volte che mi arrivi la autorizzazione scritta della "signora" per usare la levolsulpiride! La prossima volta lo rovino di botte!”
“Qui non si rovina un bel niente! Diamine...che maniere sono mai codeste?”
Virginia Floppi, la direttrice, entra in sala personale in quel preciso istante. E' sui 50 anni ma il suo atteggiamento la assimila più ad una ultrasettantacinquenne inacidita.
“Signora...finalmente è arrivata! Stavo dicendo alla Piera e al dottore che il Cipretti va sedato sempre perché quello lì è una bestia!”
“La levolsulpiride è potente e va somministrata secondo criteri appropriati; non mi dia in escandescenze alla guisa di un volgare bifolco, signor Lardelli!”
“Bifolco io? Allora ci provi lei col Cipretti. Solo ieri mi ha sputato in faccia tre volte nella mattinata!”
“Ha ragione Lardo, signora Floppi! Mi scusi, io sono nuova di qui, mi chiamo Laura Cinisi e nei turni di notte ho il settantenne sordomuto che lascia regolarmente il suo letto e si intrufola nel reparto femminile: l'ho sorpreso a masturbarsi cioè...diciamo a cercare di masturbarsi, vista l'età e il risultato scarso dei suoi tentativi di stare a cavalcioni sulla giovane dislessica mentre quella, giustamente ,urlava tentando di colpirgli ripetutamente i genitali con una ciabatta con lui che mugolava come un ossesso. Ho lo stesso problema di Lardelli; se lei non ci autorizza a fare l'uso che riteniamo giusto della levolsulpiride almeno ci dia il nulla osta per l'uso immediato del "rispo" che è in diverse situazioni è risultato molto efficace nel calmare i più scalmanati.”
“Sono oltremodo spiacente, esimia signorina, di doverla ragguagliare circa l'evidente distonia concettuale inerente al suo reclamo: il rispo, come lo chiama lei, peccando di patentemente esigua professionalità, è una molecola di recentissima sperimentazione; se io dovessi autorizzare le novelline par suo a somministrare risperidone come fosse acqua, mi renderei correa di un'evidente interpretazione fallace del protocollo medico”.
“Ma porca assassina, come diavolo parla, signora?” A intervenire così bruscamente è Alvaro, un valligiano del Piemonte sud orientale, da molti anni residente in Liguria e da circa otto mesi assunto in prova.
“Buona creanza un par di balle, mi scusi eh...adesso le spiego io come funziona questo casino. Lei lo sa che tutti i giorni dobbiamo sfacchinare fino a 10 ore, includendo gli straordinari e ci facciamo un mazzo così, comprensivo di manipolazione di liquidi organici dei pazienti, pulizie forzose dei loro siti di degenza, sputi in faccia e, nel migliore dei casi, le vecchiette che se la fanno addosso ogni due per tre. E che dire dei quattro giovani disadattati psicotici che ti mostrano di aver defecato, esibendoti le mani copiosamente coperte di cacca? E tutto questo per quella miseria di stipendio che lei ci elargisce generosamente? Ma mi faccia il piacere, lei e la sua parlantina da professoressa dell'800!”
“Calmati Alvaro, ora ne parleremo con calma. La direttrice ed io te lo promettiamo!”.
“Però abbiamo diritto a un orario più umano! Io, per esempio, ho dovuto addirittura attaccare la mattina alla notte per l'assenza di una collega influenzata e quando sono tornata a casa, mio marito mi ha detto che puzzavo di vomito: per forza! Il paziente più giovane mi ha vomitato addosso dopo aver mangiato la segatura del gatto con quello che conteneva!”
“Signora Martinelli, io sono costretta a ribadirle che non transigo! Sono stata resa edotta sulla tremenda fattispecie che la concerne: lei non può percuotere i pazienti sulle loro parti intime e poi venire a lamentarsi da me! Acciocché non accada più, lei è sospesa per tre giorni dal servizio!”
“Sospesa? Ma brutto spurgo di fogna! Io ti scateno il sindacato contro e poi la vedremo, vecchia nana deforme!” In effetti la Floppy era oltremodo bassa di statura e camminava dondolando a motivo di una scoliosi infantile.
La protesta esplode in un parapiglia generale tra la Martinelli che strapazza per il camice la direttrice, Lardo che rimedia un doloroso calcio tra le gambe nel tentativo di dividere le due, Alvaro che scaraventa un tavolo sulla scrivania senza avvedersi che la povera Piera stava lasciando la sua sedia e quindi colpendola sulla testa: la semi-obesa Cirio stramazza a terra, stecchita come un coniglio e la sua vescica si rilascia, inondando di urina il pavimento.
Alvaro, in preda alla rabbia più pura, afferra la porta dell'ufficio, la scardina e la lancia dalla finestra sulla macchina appena acquistata dalla Martinelli. Poi, in preda al panico e , dispiaciuto del gesto, fugge in preda al panico. Qualcuno ha avvisato i carabinieri che intervengono pochi minuti dopo tra le grida della Floppi del tipo:
ti scaravento dalla finestra ,così vendico anche il Lardo e ti leverai dai maroni che qui non ti vogliamo più!” Urlando questa frase si affaccia alla finestra e realizza che la sua meravigliosa Fiat 500 ha il tettuccio sfondato dalla porta dell'ufficio lanciata da Alvaro. In silenzio biascica qualcosa tipo :cosa? chi? ma? perché? Poi con calma scende nel cortile e abbandona il gruppo come sconfitta.
MORALE DEL RACCONTO:
domenica 2 gennaio 2022
Riflessione del 2 gennaio 2022
Domanda:
Un alto QI è necessariamente indice di qualità superiore?
venerdì 31 dicembre 2021
Sento il bisogno, in quest'ultimo giorno dell'anno, di scrivere come la penso in proposito.
Ve li presento. Io li ho visti e sentiti. Ho anche parlato con loro mentre svolgevo le mie mansioni di Operatore Sanitario. Incredulo e basito ho cercato nei più reconditi luoghi della mia mente una motivazione oggettivamente sensata ai loro comportamenti. Ho tentato di aiutarli nei più svariati modi e con tutta la pazienza e tolleranza di cui ero capace. Infine ho ceduto e sono giunto a questa conclusione: essi sono dei perfetti sfasati mentali; una sorta
di disadattati psicolabili sbandati nell'anima nonché trionfi
dell'emarginazione antropologica moderna indifferentemente dall'età, dalla razza e dal credo.
Sono quelli che gli americani chiamano
"men on the street", uomini della strada, ovvero dei mister nessuno.
Essi, caparbiamente, perseguono un’involuzione
spirituale e morale che, attraverso una serie infinita di decisioni “sbagliate”,
loro malgrado, li risucchia inesorabilmente, giorno dopo giorno, in un vortice
nero fatto di una quieta disperazione e di un lancinante e sordo dolore
interiore.
Essi sgambettano, scalciano e si contorcono
vanamente nel fango infetto della loro penosa esistenza, alla ricerca strenua
di un'alba di salvezza che, comunque, non verrà.
Qualcuno proviene dalla classe popolare, altri
da quella medio borghese ma la cosa che a volte li accomuna è il fatto che,
essendo, ahimè, alienati dalla società e avulsi da qualsivoglia trasporto
intellettuale trovano nella loro amicizia un porto di apparente ristoro, di
illusoria quiete per i loro animi stanchi.
E da qui parte il dipanarsi insensato e
angosciante, delle loro disavventure tragicomiche, intrise di sofferenza, ansia
esistenziale, apnea morale e sconcertanti pulsioni auto alienanti.
Le loro vicende toccano tutte le gamme del degrado, sfociando spesso nel grottesco, nel ridicolo e nel patetico delirio.
Tristemente passibili di assoluzione ( in
considerazione della “sfiga” mastodontica che li perseguita fin dalla nascita e
dell’incapacità dell’odierna società di recuperare e includere gli emarginati,
i deboli e i reietti) essi, a volte, sarebbero individualmente meritevoli di un
severissimo nonché medievale castigo, in virtù delle nefandezze alle quali, non
di rado indulgono; entrambi risultano ormai incapaci di elaborare soluzioni
eticamente e spiritualmente accettabili o comunque idonee a riqualificarli, riabilitarli o metaforicamente, a farli risorgere. L’ascolto
delle loro teorie complottistiche li fa sprofondare, di volta in volta, ad un
livello sempre più basso rispetto alla loro condizione di partenza. Tutto ciò
potrà a tratti risultare scioccante e disarmante. Occorrerebbe, forse, vagliare
le loro peripezie e accettarle per quello che sono ossia campioni scaduti di
laboratorio, iperboli di vita, grotteschi esempi portati al paradosso di quanto
in basso si possa cadere in qualità di individui appartenenti al genere umano.
venerdì 5 novembre 2021
O.B.I. osservazione breve intensiva (un giorno di novembre del 2020)
Lascio lo zaino nel magazzino
perché mi hanno detto che di armadietti non ce ne sono. Mi consegnano la tuta
di tyveck bianca con strisce blu e due maschere: una cosiddetta chirurgica,
l’altra ffp2. Inizio a spogliarmi.
Perché sono qui? Devo essere un pazzo scatenato. Ho lasciato la
tranquillità di una casa di riposo (benché proprio al suo interno mi sono preso
il Covid), per dare aiuto e supporto all’interno del pronto soccorso e OBI
COVID (reparto in cui transitano tutti i positivi con gravi problemi
respiratori). Ricordo ancora la lettera con cui mi presentavo all’agenzia
interinale zeppa di grandiose motivazioni con derive quasi eroiche. Mi avevano
immediatamente assunto. I Kamikaze in quel periodo erano rarissimi ma io non lo
sapevo.
Mi infilo la divisa, la tuta, i
calzari, i sovra calzari isolanti le maschere protettive, i doppi guanti e il
casco di protezione con la visiera. Assicuro con nastro adesivo i sovra calzari,
i guanti e INIZIO A SUDARE. Gli occhiali mi si appannano. Sono le 7 e cinque
del mattino e vorrei già farmi una doccia. Mi guardo allo specchio. Ho pietà di
me. Faccio un profondo respiro, una piccola preghiera affidando la mia mente al
D.P.I. più sicuro di tutti: il nostro Creatore quindi apro la porta comandata
da un codice.
Appena varco l’ingresso del magazzino un altro alieno come me, nel senso del dress code, mi si avvicina e si presenta molto velocemente. Ho esperienza? Ho lo stomaco forte? Sono debole di vescica? Il sangue mi fa impressione? Rispondo nell’ordine sì, sì, no, no, anche se ad ogni prelievo che mi è stato indicato di eseguire prima di quel giorno non ho mai guardato la siringa. Bene, bene, dice qualcuno dentro la tuta che mi sta davanti e mi chiede di seguirlo. Cammino lungo il corridoio e, come un bambino all’affannosa ricerca della sua mamma che prima o poi sarebbe spuntata per salvarlo da quel luogo così orribile, getto sguardi dentro le stanze. Uomini e donne nei letti tutti con caschi e tubi per la respirazione. Alcuni di loro hanno gli occhi aperti ma non guardano. Sono come degli optional messi lì per fare figura. Da dentro il casco, tutto umido e gocciolante di sudore, combattono la loro battaglia più importante e difficile e credo che, tra una gocciolina e l’altra, all’interno di quel casco, molto spesso, il pianto li accompagna per molte ore della giornata. Poi ce ne sono altri i cui occhi sono chiusi. Respirano a fatica mentre sugli apparecchi di rilevazione i parametri continuano a peggiorare. Li guardi e i loro visi sono già, come dire, contratti come di chi si appresta a riposarsi invece che in un comodo letto bensì in uno scomodo giaciglio o addirittura in terra. Ed è proprio lì che finiranno tra nemmeno 20 ore. Cammino e so che il virus è lì intorno a me. Mi ha già risparmiato mesi prima e non gli ho nemmeno detto grazie. Con questo pensiero, insieme al mio collega che impreca, ci avviciniamo ad un paziente da cambiare, lavare e dargli la colazione. I tempi sono di 15 minuti l’uno, vengo a sapere dall’altro, il che mi fa comprendere che bisogna trottare. Dai Alvaro. Coraggio. Hai 58 anni ma ne verrai fuori anche oggi da qui.
mercoledì 6 marzo 2019
Lui.
Stavamo finendo il pranzo. Era un pranzo normale, niente di eccessivo,
qualche portata, un po’ di vino in tavola. Perché uno si aspetta che gli avvenimenti importanti vengano preceduti da segnali inconsueti o singolari, e invece ogni evento è così naturale, che diventa una specie di legittimo prolungamento delle cose. Lui era a capotavola. Aveva un aspetto trasandato: barba incolta, capelli arruffati e la camicia con l’interno del colletto sporco. Lo guardavo mentre mangiava, alternando ogni boccone con una bicchierata di vino bianco fresco. Attendevo che il suo sguardo incrociasse il mio per iniziare a parlare; ma lui stava molto attento a non farlo. Era chino sul tavolo, quasi ingobbito, data la sua altezza, e l’unico rumore che si sentiva in quella cucina era quello generato dalle sue mandibole. Poi, il cibo finì e anche il vino. Lui, dopo essersi più volte deterso la bocca con la salvietta, iniziò a fissare un punto del soffitto con fare meditabondo. Ad un certo punto farfugliò qualcosa circa il pranzo appena consumato, come a dire, per quel che riuscii a capire, che l’aveva apprezzato e che era un bel pezzo che non mangiava in quel modo. Finalmente incontrai il suo sguardo: aveva due occhi grigio verdi incastonati dentro a un volto che pareva ricavato dall’intaglio di una quercia secolare ammuffita e il suo sorriso era come una spaccatura sottile su una parete montagnosa all’interno della quale, acuendo lo sguardo, potevi intravedere stalattiti e stalagmiti bianche. Gli chiesi con calma come volesse procedere. Con una serie di torsioni laterali della testa fece scrocchiare un paio di volte le vertebre del collo, quindi in una sorta di catarsi post prandio allungò le gambe sotto il tavolo e, a occhi chiusi, rimase qualche secondo in silenzio. L’orologio segnava le 13.30. Era tardi. Ci eravamo dilungati troppo nel non dire niente. Io e lui: due vecchi amici di scuola. Il mio cane, un dobermann di 8 anni, era in un angolo del salotto che guaiva quasi in silenzio. Non voleva attenzioni, povera bestia, era malato: un tumore al fegato lo stava consumando. Lui a un certo punto si alzò di scatto, afferrò la sua valigetta di pelle marrone e la aprì. Lo vidi armeggiare nervosamente con una siringa e un flacone e un laccio emostatico e alcuni tubicini e quindi capii che il momento si stava avvicinando e quando si accostò al mio cane incrociai anche il suo di sguardo che pareva dirmi qualcosa ma era un qualcosa troppo confuso dal dolore e Lui lo accarezzò perchè di lui si era sempre fidato perchè era quello che lo aveva aiutato fino a quel momento e quando gli mette il laccio intorno alla zampa e infila l’ago è come una coltellata che mi prendo nel cuore e sento la lama che si rigira nelle mie carni e sto male e tremo e stringo i pugni e maledico il mondo e piango e quando Lui si alza e raccoglie le sue cose e mi lascia un pezzo della mia vita morto in un angolo capisco cosa debbo fare: lo prendo tra le mie braccia e attendo che tutto il calore che se ne sta andando mi scaldi ancora per l’ultima volta e mentre lo faccio dalla finestra vedo un gran traffico di gente che parla e che sorride e che si ignora e che cammina a testa bassa e io, come non mai, capisco di essere rimasto terribilmente solo.
Alva