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web sito ImageChef Custom Images "Ormai quasi giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questo blog testimonianza degli eventi a cui mi accadde, mi accade e mi accadrà di assistere durante il periglioso viaggio che mi separa dalla tomba. E Dio mi conceda la grazia di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto ho visto. Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a scrivere certi eventi e ricordare l'inquietudine sottile che opprime l'animo mio mentre mi collego quotidianamente a questo blog poiché oggi ho la certezza che sto rettamente interpretando gli indubitabili presagi ai quali, da quando nacqui, stoltamente, non diedi peso ."

lunedì 11 aprile 2022

Invecchiare serve a qualcosa...



Un Airbus A380 è sulla rotta per l'atlantico.

Vola costante a 800 km / h a 30.000 piedi di altezza, quando all'improvviso si avvicina un Eurofighter 7L-WF con velocità Mach 2.
Il pilota del caccia vola accanto all’aereo di linea e saluta il pilota via radio dicendo:
" Volo noioso, eh? Allora, guarda!"
Assetta il suo jet sulla schiena, accelera, spezza la barriera del suono, aumenta rapidamente fino ad un altezza vertiginosa, solo per ricadere in un tuffo mozzafiato quasi fino al livello del mare. Con un cerchio di morte, ritorna accanto all’Airbus e chiede:
" Com'è stato?"
Il pilota dell’Airbus risponde:
" Molto impressionante. Ma ora guarda qui!"
Il pilota del jet osserva l’aereo di linea, ma non succede niente, continua a volare dritto, con la stessa velocità.
Dopo cinque minuti, il pilota dell’Airbus dice via radio:
" Beh, che ne dici!?"
Il pilota del jet chiede:
" Che cosa hai fatto?"
L'altro ride e dice:
" Mi sono alzato, mi sono sgranchito le gambe, sono andato in bagno, poi mi sono preso un caffè, un bombolone e ho strappato un appuntamento alla hostess per le prossime tre notti, in un hotel a 5 stelle pagato dal mio datore di lavoro."
La morale della favola è:
Quando sei giovane, la velocità e l'adrenalina sembrano essere una cosa fantastica.
Ma se riesci a diventare vecchio e più intelligente, la convenienza e la tranquillità non sono da disprezzare.





sabato 29 gennaio 2022

C'era una volta...

 … un uomo che aveva un difetto: voleva far vedere a tutti che sapeva sempre tutto. Non riusciva a trattenersi. Era più forte di lui. Di fronte a qualcuno che gli parlava di moto ,ecco che si improvvisava un provetto centauro; quando l'argomento era la politica diventava un esperto politologo e se la discussione virava improvvisamente sul tema della fame nel mondo il suo parere, di riffa o di raffa, non  mancava di farsi sentire per l'eccellenza dei suoi forbiti contenuti. Questione era che quell'uomo veramente sapeva un po' di tutto: esattamente quel po' che gli bastava per millantare una conoscenza molto più ampia e dare sempre, in ogni occasione, l'impressione di uno che ha qualcosa di intelligente da dire.

Ovviamente i suoi occasionali interlocutori non osavano mai approfondire troppo con lui, vanificando quindi una reale possibilità di essere messo in difficoltà, almeno da loro. Purtroppo, così facendo, egli aveva smesso di imparare cose nuove e si limitava a rigirare come una bistecca sulla griglia quelle quattro nozioni che aveva in testa. Come se non bastasse, sempre più di frequente, lo assaliva il terrore che la gente potesse accorgersi della sua ignoranza. Prima o poi sarebbe successo. Qualcuno, sempre prima o poi, avrebbe gridato al mondo intero che lui era un imbecille e di certo, in quella malaugurata occasione, si sarebbe sentito un idiota.  Pur tuttavia non escludeva del tutto l'ipotesi che quel giorno avrebbe potuto essere un bel giorno, alla fin fine. Quell'uomo, nel più profondo del suo essere, non desiderava altro che ottenere la libertà di non sapere per riuscire a vivere in pace con la sua coscienza.

Alzheimer.

 Ecco.

E’ arrivato.
Ha un sorriso strano: nell'arcata dentale superiore destra gli manca un dente ma è simpatico.
Mi rivolge la parola.
Mi chiede come sto, come va, ho dormito bene?
In verità no: mi sono pisciato addosso e non riuscivo a dirlo alla donna russa che dormiva accanto a me. No! Non è mia moglie. E’ una donna che si occupa di me, di notte, per 3 euro all'ora . Suo marito è stato ucciso in Afghanistan e la sua famiglia è rimasta in Ucraina.  Il suo compagno , un ex ferroviere di 74 anni,  quando torna a casa, la riempie di botte. Ma almeno ha un tetto sulla testa e alla fine morirà e le lascerà qualcosa. Il nuovo assistente mi da una carezza. Ho notato che ha due tatuaggi: una specie di coda di balena sul petto e un drago sul collo.  Io ho 79 anni ma, se dipendesse da me, uno così non lo farei mai entrare in casa…ma hanno detto a mia moglie che è uno in gamba. Mia moglie ha 81 anni. Non è russa; cioè: di notte russa ma è un tutto un altro discorso.
Non so cosa mi è successo. A ottobre dell’anno scorso andavo su per le colline dove sono nato. Camminavo per delle ore e mangiavo come un lupo. Poi un giorno, anziché andare a casa, mi sono trovato alla stazione ferroviaria e il brutto è che  chiedevo al capostazione dove fosse mia madre. Pensavo fosse il luogo dove ero nato. In effetti , nelle ferrovie dello stato ci ho lavorato 40 anni e sono stati anni duri in cui ho dato tutto me stesso perché credevo in quello che facevo. Ma non era casa mia. Era la banchina antistante ai binari. Hanno chiamato la polizia e mi hanno portato in ospedale e lì mi hanno fatto parlare. E io l’ho fatto: parlavo, parlavo, parlavo ma continuavano a rispondermi che non capivano così mi hanno portato in un sacco di posti dove c’erano persone col camice bianco, ma io continuavo a parlare della mia vita, dei giorni sotto la pioggia passati a lubrificare gli scambi dei binari che non scattavano, tanto erano arrugginiti.
Poi sono arrivati gli assistenti sociali. Ogni giorno ne veniva uno nuovo.  Mia moglie era stanca e credeva che in quell'unica ora in cui loro erano accanto a me potessero cambiare le cose.
Ma quando se ne andavano io ero nervoso e non mi veniva in mente mai un discorso logico. Avevo sete e parlavo della pioggia. Avevo fame e chiamavo mio padre.
Poi è arrivato lui. Con quei tatuaggi. Con quel dente mancante. Con quella faccia da criminale redento.
Con quel sorriso.
Io parlavo e lui capiva.
E spiegava a mia moglie cosa volevo dire.
E’ un ragazzo in gamba.
Arriva alle 9 del mattino e se ne va alle 6 di sera.
Poi , verso le 7, arriva la donna russa.
Mi veste per la notte, mi cambia il pannolone e mi trascina nel letto.
Alza le sbarre protettive e spegne la luce.
Dice sempre: “ ho sonno, fammi dormire questa notte, maledetto!”.
E io ho paura.
Si arrabbia sempre quando mi piscio addosso e voglio alzarmi per andare a lavorare verso mezzanotte. Così mi urla in faccia, tanto sa che mia moglie è sorda e non la sente dalla stanza accanto.
Se ne va via dieci minuti prima che arrivi quello coi tatuaggi.
E sono i dieci minuti più belli che precedono nove ore meravigliose.
Adesso che ci penso: sono in ritardo sul lavoro!
Devo andare. Il mio capo è uno severo. Potrebbero licenziarmi.

“ COME STAI GIUSEPPE? COME VA OGGI? HAI DORMITO BENE?

Sono le 9. E’ arrivato. Mi sorride.

“ MI SONO PISCIATO ADDOSSO” – gli dico.

“ E’ CAPITATO ANCHE A ME!” – mi risponde strizzandomi l'occhio.

Vorrei ridere ma non ci riesco. Ma lo guardo; eccome se lo guardo!

Ha due strani tatuaggi, una faccia da criminale, un cuore grande come una locomotiva e un bel sorriso.

Peccato per quel dente mancante.


                                                                                                  Alvaro.

Tra sette giorni.

 L’uomo guardò attraverso le sbarre: il mare in lontananza sembrava un’infinita coperta azzurra stropicciata dal vento sulla quale, un bambino disordinato, aveva dimenticato due barche a vela di diverso colore. Chiuse gli occhi e serrò le palpebre fino a lacrimare. Gli venne in mente che anche lui, molti anni prima, correva lungo il fianco di quella coperta sempre alla mattina, prima dell’alba. Di solito iniziava con una camminata veloce lasciando che i piedi  sprofondassero nella sabbia e poi via via, sempre più in fretta, fino a correre a perdifiato lasciando che la respirazione si stabilizzasse mentre la muscolatura, lentamente, si adeguava al ritmo. Amava sciogliersi nella piacevole sensazione olfattiva dell’aria mista alla salsedine che gli levigava le fosse nasali. La sua corsa era sempre fluida e veloce e il suo sguardo incollato alla scogliera a est della città, come in una sorta di riferimento geografico.

D’un tratto allentò la pressione sulle palpebre per lasciare che il bulbo oculare iniziasse la sua danza concentrica seguendo furiosamente l’occhio della mente che era arrivato ai piedi della scogliera. Gli pareva ancora di sentire le onde frangersi  su quegli scogli ammassati l’uno accanto all’altro e di vedere i gabbiani volteggiare nella affannosa e continua ricerca di cibo.
Era un caldo martedì di  Aprile e una giornata splendida. Il suo orologio da polso, preposto anche per il controllo del battito cardiaco, segnava le dieci e sette minuti quando tutto accadde velocemente.
Davanti a lui un uomo e una donna che litigano. Lui la schiaffeggia e lei inciampa  cadendo in un anfratto tra uno scoglio e l’altro mentre lui si avvicina iniziando a sferrargli calci e a urlare brutte cose.
Le palpebre dell’uomo si serrano nuovamente con le mani che stringono con forza le sbarre della cella.
Avrebbe dovuto lasciar perdere. Al massimo, avrebbe potuto solo farsi notare nella speranza che l’altro smettesse. Invece no. Iniziò a correre nella loro direzione senza accorgersi che il suo orologio da polso gli segnalava un’attività cardiaca esagerata per il tratto di strada percorso, consigliandogli di fermarsi onde evitare il peggio. Che puntualmente arrivò.  
 Quando fu davanti all’altro uomo non fu difficile per uno della sua stazza e con il suo allenamento, sferrare un pugno nel viso dell’altro. In quel momento era l’unica cosa da fare. Lo aveva imparato nelle decine di occasioni in cui la vita, nelle sue centinaia di palestre sparse tra i vicoli e i quartieri della città, lo aveva messo alla prova. Le prime volte te ne tornavi a casa con il corpo dolorante , le labbra rotte e gli occhi gonfi ma poi, facendo tesoro di quelle sofferenze, non commettevi più gli stessi errori. La regola era: colpire per primo senza mai distogliere lo sguardo dall’obiettivo. Il più delle volte lo scontro si chiudeva subito perché l’avversario scappava o rimaneva a terra piegato in due a urlare dal dolore. Solo qualcuno si rialzava per continuare e tu sapevi che sarebbe stata dura così, mentre aspettavi che si rialzasse, qualcosa nel più profondo del tuo essere, ti faceva sperare che non accadesse. Che rimanesse a terra. Sconfitto. Umiliato.
Era quello il pensiero di quel martedì di Aprile anche se stranamente, la voce proveniente dal più profondo del suo essere, sperava che in quel giorno accadesse il contrario. Che si alzasse per continuare. Ma la scena di quel piccolo corto metraggio sarebbe stata muta se le urla della ragazza da cui era corso per soccorrere avessero smesso di pronunciare la stessa, ripetuta parola: assassino.
L’uomo aprì gli occhi. Erano passati 25 anni da quel momento.  Tra una settimana sarebbe uscito. Sapeva di non essere un assassino. Sapeva anche che a volte, nella vita, le cose vanno come non dovrebbero andare e ci si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma il ragazzo, ormai uomo, aveva pagato il suo debito in silenzio, come quando da bambino, tornando a casa tutto pieno di lividi, cercava di fare tesoro dagli errori che avevano causato il suo stato. Non riusciva a pensare ad altro se non al fatto che da lì a una settimana non  sarebbe più stato in quel luogo.
Lanciò un’altra occhiata all’enorme e infinita coperta azzurra che stava davanti a lui proprio mentre i suoi muscoli inferiori si contrassero più volte. Sorrise. Conosceva bene quella sensazione: era il desiderio di correre. Avrebbe finalmente di nuovo corso. Magari un po' più lentamente, per via dell'età ma lo avrebbe fatto di nuovo. Tra sette giorni.


                                                                                                             


Riunione di Equipe.

 “Inutile star qui a cincischiare dottor  Fenestrelli ; come può vedere dalle facce gli operatori sono tutti in subbuglio; vorrebbero una riduzione degli straordinari e l'ammodernamento delle strutture. Così è proprio un inferno!”   Piera Cirio è la  veterana del gruppo: una cicciona placida e benevola ormai prossima alla pensione.


“D'accordo Piera, proverò a farlo capire alla direttrice sanitaria ma non ti garantisco niente. Da quando è arrivata qui, coi suoi modi da preside ottocentesca, non riesco più ad intavolare una minima discussione utile. Sentiamo cosa mi propongono gli altri”

“Non c'è proprio niente da proporre, vacca miseria ladra! Io ci metterei quella a fare la vita che facciamo noi!”   

A imprecare è Lardelli, un infermiere che lavora in questa lugubre piccionaia da circa venticinque anni. Lardelli, detto "Lardo" (per via anche della sua mole addominale) è il boss della squadretta di operatori, infermieri ed educatori addetti alla gestione di una trentina di psicodeviati di vario genere.  Guido Fenestrelli, neuropsichiatra della struttura, comprensivo e buono come il pane, ora deve mediare tra una ciurma sull'orlo dell'ammutinamento ed una direttrice giovane ma vecchia dentro e antipatica quanto il classico gatto che ti si artiglia ai testicoli e non accenna a mollare la presa.

“Ok, Lardo, dimmi quali sono le priorità e vedrò di proporre un piano di lavoro.”

“Belìn,le priorità sono che io ne ho le balle piene di dover rincorrere tutti i giorni quello sfigato del Cipretti! L'altro giorno me lo sono trovato che sfruculiava dentro le mutande della vecchia novantenne. Lui che ne ha 22! E io a cercare di togliergli le mani dal sedere della vecchia e lui a rinfilarle di continuo per poi annusarsele. A un certo punto mi sono stufato e l'ho spinto via con un calcio nel di dietro! Santo cielo, non posso mica aspettare tutte le volte che mi arrivi la autorizzazione scritta della "signora" per usare la levolsulpiride! La prossima volta lo rovino di botte!”

“Qui non si rovina un bel niente! Diamine...che maniere sono mai codeste?”

Virginia Floppi, la direttrice,  entra in sala personale in quel preciso istante. E' sui 50 anni ma il suo atteggiamento la assimila più ad una ultrasettantacinquenne inacidita.

“Signora...finalmente è arrivata! Stavo dicendo alla Piera e al dottore che il Cipretti va sedato sempre perché quello lì è una bestia!”

“La levolsulpiride è potente e va somministrata secondo criteri appropriati; non mi dia in escandescenze alla guisa di un volgare bifolco, signor Lardelli!”

“Bifolco io? Allora ci provi lei col Cipretti. Solo ieri mi ha sputato in faccia tre volte nella mattinata!”

“Ha ragione Lardo, signora Floppi! Mi scusi, io sono nuova di qui, mi chiamo Laura Cinisi e nei turni di notte ho il settantenne sordomuto che lascia regolarmente il suo letto e si intrufola nel reparto femminile: l'ho sorpreso a masturbarsi cioè...diciamo a cercare di masturbarsi, vista l'età e il risultato scarso dei suoi tentativi di stare a  cavalcioni sulla giovane dislessica mentre quella, giustamente ,urlava tentando di colpirgli ripetutamente i genitali con una ciabatta con lui che mugolava come un ossesso. Ho lo stesso problema di Lardelli; se lei non ci autorizza a fare l'uso che riteniamo giusto della levolsulpiride almeno ci dia il nulla osta per l'uso immediato del "rispo" che è in diverse situazioni è risultato molto efficace nel calmare i più scalmanati.”

“Sono oltremodo spiacente, esimia signorina, di doverla ragguagliare circa l'evidente  distonia concettuale inerente al suo reclamo: il rispo, come lo chiama lei, peccando di patentemente esigua professionalità, è una molecola di recentissima sperimentazione; se io dovessi autorizzare le novelline par suo a somministrare risperidone come fosse acqua, mi renderei correa di un'evidente interpretazione fallace del protocollo medico”.

“Ma porca assassina, come diavolo parla, signora?”  A intervenire così bruscamente è Alvaro, un valligiano del Piemonte sud orientale, da molti anni residente in Liguria e da circa otto mesi assunto in prova.

“Alvaro, come si permette? Un po' di buona creanza, cribbio!"

“Buona creanza un par di balle, mi scusi eh...adesso le spiego io come funziona questo casino. Lei lo sa che tutti i giorni dobbiamo sfacchinare fino a 10 ore, includendo gli straordinari e ci facciamo un mazzo così, comprensivo di manipolazione di liquidi organici dei pazienti, pulizie forzose dei loro siti di degenza, sputi in faccia e, nel migliore dei casi, le vecchiette che se la fanno addosso ogni due per tre. E che dire dei quattro giovani disadattati psicotici che ti mostrano di aver defecato, esibendoti le mani copiosamente coperte di cacca? E tutto questo per quella miseria di stipendio che lei ci elargisce generosamente? Ma mi faccia il piacere, lei e la sua parlantina da professoressa dell'800!”

“Calmati Alvaro, ora ne parleremo con calma. La direttrice ed io te  lo promettiamo!”.

Fenestrelli è la persona più pacata che ci sia mentre Alvaro, sanguigno e schietto quanto una scorreggia, un metro e novanta per cento chili di peso e un fosco passato nella Legione Straniera si siede, trattenendo a stento un accidente all'indirizzo della Floppi.

“Però abbiamo diritto a un orario più umano! Io, per esempio, ho dovuto addirittura attaccare la mattina alla notte per l'assenza di una collega influenzata e quando sono tornata a casa, mio marito mi ha detto che puzzavo di vomito: per forza! Il paziente più giovane mi ha vomitato addosso dopo aver mangiato la segatura del gatto con quello che conteneva!”

A parlare è la Milly Martinelli, la "bellona" del gruppo, regolarmente insidiata dai pazienti di ogni età; lei non usa molto i farmaci quanto le sue ginocchia nel senso che placa i bollori degli sventurati molestatori in erba a suon di ginocchiate nei testicoli.

“Signora Martinelli, io sono costretta a ribadirle che non transigo! Sono stata resa edotta sulla tremenda fattispecie che la concerne: lei non può percuotere i  pazienti sulle loro parti intime e poi venire a lamentarsi da me! Acciocché non accada più, lei è sospesa per tre giorni dal servizio!”

“Sospesa? Ma brutto spurgo di fogna! Io ti scateno il sindacato contro e poi la vedremo, vecchia nana deforme!” In effetti la Floppy era oltremodo bassa di statura e camminava dondolando a motivo di una scoliosi infantile.

La protesta esplode in un parapiglia generale tra la Martinelli che strapazza per il camice la direttrice, Lardo che rimedia un doloroso calcio tra le gambe nel tentativo di dividere le due, Alvaro che scaraventa un tavolo sulla scrivania senza avvedersi che la povera Piera stava lasciando la sua sedia e quindi colpendola sulla testa: la semi-obesa Cirio stramazza a terra, stecchita come un coniglio e la sua vescica si rilascia, inondando di urina il pavimento.
Alvaro, in preda alla rabbia più pura, afferra la porta dell'ufficio, la scardina e la lancia dalla finestra sulla macchina appena acquistata dalla Martinelli. Poi, in preda al panico e , dispiaciuto del gesto, fugge in preda al panico. Qualcuno ha avvisato i carabinieri che intervengono pochi minuti dopo tra le grida della Floppi del tipo:

"Per carità, sottoposti, calmatevi, Gesummio, non trascendete! Di grazia, lei,  si ricordi di non mancare di rispetto alla sua superiore in gerarchia, signora Martinetti!” 

“ Mi chiamo Martinelli, brutta  handicappata putrescente raccomandata di questa cippa. Adesso
ti scaravento dalla finestra ,così vendico anche il Lardo e  ti leverai dai maroni che qui non ti vogliamo più!”
 Urlando questa frase si affaccia alla finestra e realizza che la sua meravigliosa Fiat 500 ha il tettuccio sfondato dalla porta dell'ufficio lanciata da Alvaro. In silenzio biascica qualcosa tipo :cosa? chi? ma? perché? Poi con calma scende nel cortile e abbandona il gruppo come sconfitta. 

Altri operatori e infermieri si lasciano contagiare dal casino tipo rissa da saloon e, in mancanza di meglio, corrono nei reparti alla caccia di poveri mentecatti intempestivamente beccati nell'espletazione delle loro usuali "marachelle" psicopatiche: quando i carabinieri intervengono sono necessari i rinforzi da Genova per sedare questa edizione riveduta e  corretta delle rivolta dei Ciompi. Dopo i primi accertamenti della polizia, magicamente torna la calma.

“Belìn...un casino così non me lo sarei mai aspettato, dottor Fenestrelli!“esclama basito Lardelli. 

Dopo  alcuni mesi  la struttura fu temporaneamente chiusa e i pazienti trasferiti in altro sito. Tre anni dopo fu parzialmente ristrutturata per ospitare un poliambulatorio. L'unico "riciclato" fu il Lardelli che trascorse lì gli ultimi anni che gli mancavano alla pensione.

“Lardelli, ma è vera quella cosa di Alvaro?” - chiese un giovane dottore, appena assunto, all'infermiere che stava raccontando ad un suo amico,  per l'ennesima volta, quella incredibile riunione d'equipe. 

“Si dottore, il "gigante" come lo chiamavano qui, diede fuori di matto: dopo aver malmenato due carabinieri con calci e pugni tornò sui suoi passi, afferrò la Floppi, la sollevò di peso e la trascino al cesso del primo piano. Quando intervennero alcuni colleghi a fermarlo, teneva la testa della direttrice infilata nel water mentre lui  tirava l'acqua senza smettere. Poi saltò dalla finestra e scomparve. Qualcuno dice che sia tornato nella legione straniera, qualcun altro invece è convinto di averlo visto in un bagno dell'Outlet di Serravalle Scrivia che rideva a crepapelle tirando l'acqua dello sciacquone. Ancora oggi è ricercato dalla polizia.”

                                                  MORALE DEL RACCONTO:


Certe cose avvengono per forza di cose; la gente deve imparare che nessuno è fatto di ferro. Siamo tutti umani e imperfetti e il lavoro deve essere un modo per arricchirsi dentro, umanamente ed eticamente. Non può ridursi ad un abbrutente somma di ore di semi-schiavitù, in condizioni intollerabilmente rozze e senza gli strumenti necessari. Anche la gestione va affidata a persone che coniughino professionalità ed elasticità mentale e, soprattutto, non dimentichino che gli altri sono come noi, meritevoli di ascolto e solidarietà umana.

domenica 2 gennaio 2022

Riflessione del 2 gennaio 2022


Domanda:

Un alto QI  è necessariamente indice di qualità superiore?


Risposta:

Non c’è nessuna garanzia che individui dal QI elevato producano persone migliori e una società migliore. Non sono stati i bambini ritardati a causare guerre e distruzioni. Anzi, l’ultima persona decisa a selezionare una razza superiore morì in un bunker nazista alla fine della seconda guerra mondiale.

venerdì 31 dicembre 2021

Sento il bisogno, in quest'ultimo giorno dell'anno, di scrivere come la penso in proposito.

                                            

                                   

                


Ve li presento. Io li ho visti e sentiti. Ho anche parlato con loro mentre svolgevo le mie mansioni di Operatore Sanitario. Incredulo e basito ho cercato nei più reconditi luoghi della mia mente una motivazione oggettivamente sensata ai loro comportamenti. Ho tentato di aiutarli nei più svariati modi e con tutta la pazienza e tolleranza di cui ero capace. Infine ho ceduto e sono giunto a questa conclusione: essi sono dei perfetti sfasati mentali; una sorta di disadattati psicolabili sbandati nell'anima nonché trionfi dell'emarginazione antropologica moderna indifferentemente dall'età, dalla razza e dal credo.

Sono quelli che gli americani chiamano "men on the street", uomini della strada, ovvero dei mister nessuno.

Essi, caparbiamente, perseguono un’involuzione spirituale e morale che, attraverso una serie infinita di decisioni “sbagliate”, loro malgrado, li risucchia inesorabilmente, giorno dopo giorno, in un vortice nero fatto di una quieta disperazione e di un lancinante e sordo dolore interiore.                  

Essi sgambettano, scalciano e si contorcono vanamente nel fango infetto della loro penosa esistenza, alla ricerca strenua di un'alba di salvezza che, comunque, non verrà.            

Qualcuno proviene dalla classe popolare, altri da quella medio borghese ma la cosa che a volte li accomuna è il fatto che, essendo, ahimè, alienati dalla società e avulsi da qualsivoglia trasporto intellettuale trovano nella loro amicizia un porto di apparente ristoro, di illusoria quiete per i loro animi stanchi.

E da qui parte il dipanarsi insensato e angosciante, delle loro disavventure tragicomiche, intrise di sofferenza, ansia esistenziale, apnea morale e sconcertanti pulsioni auto alienanti.

Le loro vicende toccano tutte le gamme del degrado, sfociando spesso nel grottesco, nel ridicolo e nel patetico delirio.

Tristemente passibili di assoluzione ( in considerazione della “sfiga” mastodontica che li perseguita fin dalla nascita e dell’incapacità dell’odierna società di recuperare e includere gli emarginati, i deboli e i reietti) essi, a volte, sarebbero individualmente meritevoli di un severissimo nonché medievale castigo, in virtù delle nefandezze alle quali, non di rado indulgono; entrambi risultano ormai incapaci di elaborare soluzioni eticamente e spiritualmente accettabili o comunque idonee a riqualificarli, riabilitarli o metaforicamente, a farli risorgere. L’ascolto delle loro teorie complottistiche li fa sprofondare, di volta in volta, ad un livello sempre più basso rispetto alla loro condizione di partenza. Tutto ciò potrà a tratti risultare scioccante e disarmante. Occorrerebbe, forse, vagliare le loro peripezie e accettarle per quello che sono ossia campioni scaduti di laboratorio, iperboli di vita, grotteschi esempi portati al paradosso di quanto in basso si possa cadere in qualità di individui appartenenti al genere umano.


venerdì 5 novembre 2021

O.B.I. osservazione breve intensiva (un giorno di novembre del 2020)

                              

Lascio lo zaino nel magazzino perché mi hanno detto che di armadietti non ce ne sono. Mi consegnano la tuta di tyveck bianca con strisce blu e due maschere: una cosiddetta chirurgica, l’altra ffp2. Inizio a spogliarmi.

Perché sono qui? Devo essere un pazzo scatenato. Ho lasciato la tranquillità di una casa di riposo (benché proprio al suo interno mi sono preso il Covid), per dare aiuto e supporto all’interno del pronto soccorso e OBI COVID (reparto in cui transitano tutti i positivi con gravi problemi respiratori). Ricordo ancora la lettera con cui mi presentavo all’agenzia interinale zeppa di grandiose motivazioni con derive quasi eroiche. Mi avevano immediatamente assunto. I Kamikaze in quel periodo erano rarissimi ma io non lo sapevo.

Mi infilo la divisa, la tuta, i calzari, i sovra calzari isolanti le maschere protettive, i doppi guanti e il casco di protezione con la visiera. Assicuro con nastro adesivo i sovra calzari, i guanti e INIZIO A SUDARE. Gli occhiali mi si appannano. Sono le 7 e cinque del mattino e vorrei già farmi una doccia. Mi guardo allo specchio. Ho pietà di me. Faccio un profondo respiro, una piccola preghiera affidando la mia mente al D.P.I. più sicuro di tutti: il nostro Creatore quindi apro la porta comandata da un codice.

 

Appena varco l’ingresso del magazzino un altro alieno come me, nel senso del dress code, mi si avvicina e si presenta molto velocemente. Ho esperienza? Ho lo stomaco forte? Sono debole di vescica? Il sangue mi fa impressione? Rispondo nell’ordine sì, sì, no, no, anche se ad ogni prelievo che mi è stato indicato di eseguire prima di quel giorno non ho mai guardato la siringa.  Bene, bene, dice qualcuno dentro la tuta che mi sta davanti e mi chiede di seguirlo. Cammino lungo il corridoio e, come un bambino all’affannosa ricerca della sua mamma che prima o poi sarebbe spuntata per salvarlo da quel luogo così orribile, getto sguardi dentro le stanze. Uomini e donne nei letti tutti con caschi e tubi per la respirazione. Alcuni di loro hanno gli occhi aperti ma non guardano. Sono come degli optional messi lì per fare figura. Da dentro il casco, tutto umido e gocciolante di sudore, combattono la loro battaglia più importante e difficile e credo che, tra una gocciolina e l’altra, all’interno di quel casco, molto spesso, il pianto li accompagna per molte ore della giornata. Poi ce ne sono altri i cui occhi sono chiusi. Respirano a fatica mentre sugli apparecchi di rilevazione i parametri continuano a peggiorare. Li guardi e i loro visi sono già, come dire, contratti come di chi si appresta a riposarsi invece che in un comodo letto bensì in uno scomodo giaciglio o addirittura in terra. Ed è proprio lì che finiranno tra nemmeno 20 ore. Cammino e so che il virus è lì intorno a me. Mi ha già risparmiato mesi prima e non gli ho nemmeno detto grazie. Con questo pensiero, insieme al mio collega che impreca, ci avviciniamo ad un paziente da cambiare, lavare e dargli la colazione. I tempi sono di 15 minuti l’uno, vengo a sapere dall’altro, il che mi fa comprendere che bisogna trottare. Dai Alvaro. Coraggio. Hai 58 anni ma ne verrai fuori anche oggi da qui.


mercoledì 6 marzo 2019

Lui.



Stavamo finendo il pranzo. Era un pranzo normale, niente di eccessivo,
qualche portata, un po’ di vino in tavola. Perché uno si aspetta che gli avvenimenti importanti vengano preceduti da segnali inconsueti o singolari, e invece ogni evento è così naturale, che diventa una specie di legittimo prolungamento delle cose. Lui era a capotavola. Aveva un aspetto trasandato: barba incolta, capelli arruffati e la camicia con l’interno del colletto sporco. Lo guardavo mentre mangiava, alternando ogni boccone con una bicchierata di vino bianco fresco. Attendevo che il suo sguardo incrociasse il mio per iniziare a parlare; ma lui stava molto attento a non farlo. Era chino sul tavolo, quasi ingobbito, data la sua altezza, e l’unico rumore che si sentiva in quella cucina era quello generato dalle sue mandibole. Poi, il cibo finì e anche il vino. Lui, dopo essersi più volte deterso la bocca con la salvietta, iniziò a fissare un punto del soffitto con fare meditabondo. Ad un certo punto farfugliò qualcosa circa il pranzo appena consumato, come a dire, per quel che riuscii a capire, che l’aveva apprezzato e che era un bel pezzo che non mangiava in quel modo. Finalmente incontrai il suo sguardo: aveva due occhi grigio verdi incastonati dentro a un volto che pareva ricavato dall’intaglio di una quercia secolare ammuffita e il suo sorriso era come una spaccatura sottile su una parete montagnosa all’interno della quale, acuendo lo sguardo, potevi intravedere stalattiti e stalagmiti bianche. Gli chiesi con calma come volesse procedere. Con una serie di torsioni laterali della testa fece scrocchiare un paio di volte le vertebre del collo, quindi in una sorta di catarsi post prandio allungò le gambe sotto il tavolo e, a occhi chiusi, rimase qualche secondo in silenzio. L’orologio segnava le 13.30. Era tardi. Ci eravamo dilungati troppo nel non dire niente. Io e lui: due vecchi amici di scuola. Il mio cane, un dobermann di 8 anni, era in un angolo del salotto che guaiva quasi in silenzio. Non voleva attenzioni, povera bestia, era malato: un tumore al fegato lo stava consumando. Lui a un certo punto si alzò di scatto, afferrò la sua valigetta di pelle marrone e la aprì. Lo vidi armeggiare nervosamente con una siringa e un flacone e un laccio emostatico e alcuni tubicini e quindi capii che il momento si stava avvicinando e quando si accostò al mio cane incrociai anche il suo di sguardo che pareva dirmi qualcosa ma era un qualcosa troppo confuso dal dolore e Lui lo accarezzò perchè di lui si era sempre fidato perchè era quello che lo aveva aiutato fino a quel momento e quando gli mette il laccio intorno alla zampa e infila l’ago è come una coltellata che mi prendo nel cuore e sento la lama che si rigira nelle mie carni e sto male e tremo e stringo i pugni e maledico il mondo e piango e quando Lui si alza e raccoglie le sue cose e mi lascia un pezzo della mia vita morto in un angolo capisco cosa debbo fare: lo prendo tra le mie braccia e attendo che tutto il calore che se ne sta andando mi scaldi ancora per l’ultima volta e mentre lo faccio dalla finestra vedo un gran traffico di gente che parla e che sorride e che si ignora e che cammina a testa bassa e io, come non mai, capisco di essere rimasto terribilmente solo.










Alva

A te.

La vita è senza inizio e senza fine.
Ci coglie tutti di sorpresa,
lasciando che su di noi aleggi
un’oscurità invincibile.
Ma tu, io lo so,
credi fermamente in ciò che altri non credono.
A te è concesso, oltremisura,
comprendere ciò che vedi.
Il tuo sguardo è forte e sereno
e ti permette di vedere
com’è stupendo il mondo.
Tu sai dove sono la luce e le tenebre.
Tu sai cosa significa il panico
io so di essere debole e impotente
io sono un servo fatto di creta e polvere.
Ma la conoscenza rimane.
Qualcuno la urlerà lontano.
Anch’io sto urlando ma non spetta a me il giudizio.
In noi si è formato un nuovo genere di roccia
che senza fretta sorgerà dalle viscere della terra
e verrà mostrato al mondo.

Scaviamo!
Scaviamo!
Scaviamo senza conoscere stanchezza!

Lo sapevi che un diamante non risplende al sole
se è sepolto?

lunedì 2 aprile 2018

Al cospetto del Presidente del Centro di Riabilitazione Psichiatrica.


Era un periodo nero. Il mio lavoro nell’istituto psichiatrico stava lentamente svuotandosi da quelle motivazioni con cui all’inizio mi facevo forza. I turni si susseguivano senza che io riuscissi a cavare fuori il benché minimo interesse per quello che facevo. Le giornate erano quasi sempre uguali: aprivo e chiudevo centinaia di volte le stesse porte, prendevo schiaffi e pugni sempre dagli stessi pazienti, li guardavo mentre saltavano, correvano, mangiavano, vomitavano, urlavano, scoreggiavano, si masturbavano, si menavano, bevevano il proprio piscio , mangiavano la propria merda ( e anche quella di altri). Mi stavo stancando di raccogliere le loro deiezioni lungo i corridoi e asciugare le loro pozze di urina nei posti più impensabili. Ogni tanto mi facevo anche qualche risata nell’osservare i rituali liturgici con i quali certi ragazzi autistici si approcciavano alla doccia del mattino o alla ritirata serale ma erano momenti sporadici. autentiche perle solitarie in lunghe giornate di lotte e contenzioni. A volte, quando proprio non ce la facevi più, la direzione organizzava la cosiddetta Supervisione a cui partecipavano sempre un paio di oss o infermieri o educatori. La presenziava uno psicologo la cui partecipazione doveva servire come valvola di sfogo per noi operatori in quanto, durante la riunione, si poteva “vuotare il sacco” cioè spiegare allo psicologo a quale livello di burn out eri arrivato. Ovviamente nessuno osava fare sapere al collega che sedeva accanto a te quante volte avresti voluto scaraventare dal secondo piano almeno il 90% degli ospiti della struttura in cui lavoravi e quindi ci si trovava a discutere di problematiche su cui il professionista mai avrebbe potuto dare una soluzione. C’erano anche le riunioni di equipe ma ti rendevi conto che qualunque fosse stato l’esito della riunione nulla sarebbe cambiato. Era un senso di impotenza che mi pervadeva a 360 gradi. Mi ci sentivo immerso. Era come se fossi in una gelatina permanente. Ogni cosa che osservavo era come se la filtrassi attraverso una lente deformante. Sentivo che la priorità assoluta era mantenere quel delicato equilibrio in cui cercavo di non pensare eccessivamente e mi imponevo di dedicarmi alcuni angoli mentali di assoluta libertà all’interno dei quali potevo ritirarmi, leggero ed evanescente come una nebbia al mattino. Ma gli angoli, in certi luoghi orrendi, possono diventare all’improvviso rotondi, piccoli e bui e tutti i tuoi pensieri e le tue risorse devono mettersi a lavorare di fino per rimediare ad un errore che inevitabilmente arriverà.

Così, stanco ed amareggiato, chiesi udienza al direttore della struttura il quale mi consigliò di parlarne con il Presidente. Obiettai che, forse, il Presidente sapeva ben poco sull’andazzo del Centro Psichiatrico. Questa fu la sua risposta:



“…vedi Alvaro, Egli, cioè il Presidente, il Dott. Ignazio Grassi, è la cuspide piramidale di questa nostra cooperativa che dà lavoro a migliaia di persone. Egli trasforma il presente in un ennesimo culto dopo essersi sbarazzato dell’ossequio al passato. Ha fondato la Sua azienda sulle orme del padre attraverso un rito palingenetico di mutazione aziendale sdoganandola da un cliché che la fossilizzava anni prima ad una semplice agenzia interinale. Per Lui la sua cooperativa è una tendenza, uno slancio in avanti. È l’amore per il nuovo. Il Suo tono di voce è sempre vibrante, le Sue affermazioni apodittiche. Egli può essere paragonato ad un re forte e fascinoso. Meccanicamente immortale. Un eroe senza sonno come GAZURMAH, l’interprete principale del romanzo mito poetico di Marinetti “MAFARKA LE FUTURISTE DEL 1909”. Lo sai chi è Marinetti, Alvaro?”

“…beh, …ecco…mi pare fosse uno scrittore futurista che…”

“Appunto, il futuro, lo sguardo oltre l’orizzonte, Egli come un falco domina dall’alto la percezione multipla e sinestetica delle cose di Sua competenza. Supervisiona, da ottimo intenditore, alle assunzioni del personale femminile secondo un prototipo dannunziano che miscela, nelle giuste dosi, i fondamenti dell’estetica, l’egemonia del bello e il sacerdozio dell’arte. La sua forza comunicativa è completamente nuova senza tentativi di sperimentazione. Ha un solo Horror Vacui che lo irrita piacevolmente: il pensiero di essere frainteso. Quindi, Alvaro, ti prego, non aver timore di incontrarlo. Esponi a Lui i tuoi problemi e vedrai che dopo ti sentirai un uomo nuovo, ripulito dalle scorie che ti affliggono ora. “

“D’accordo…quando possiamo fissare l’appuntamento?”

“Domani mattina verso le 10 va bene?”

“Va bene”.



Uscii dall’ufficio del direttore proprio mentre il solito psicopatico lanciava un estintore da 10 chili addosso alla donna delle pulizie che stava scappando in preda ad una crisi isterica di pianto.

Quella notte dormii poco poiché pensai all’incontro con il Presidente. Cosa gli avrei detto? Come avrei esposto i miei problemi pseudo esistenziali ad un uomo così fulgido? Ma soprattutto: avrebbe compreso?

Mi addormentai su queste domande e quando mi svegliai erano ancora tutte lì che mi aspettavano.

Alle 09.45 ero già davanti alla porta verde pastello del suo ufficio. Dentro la mia testa ripetevo come un mantra tutto quello che dovevo dire cercando, per quanto possibile, di indovinare il contraddittorio.

Dopo 14 minuti e 58 secondi la porta si aprì e apparve una donna sui quarant’anni: senza arte né parte, anonima, leggermente androgina e con un nome così stupido che me lo dimenticai all’istante. Fece un cenno con la mano nella mia direzione e io mi incamminai verso di lei. Aveva un profumo dolciastro che mi provocò una frustata olfattiva. La oltrepassai e fui nell’ufficio. Era un bell’ufficio: spazioso, areato e scevro da qualsiasi traccia di frenesia e caos rispetto ai locali attigui. Egli, il Presidente, era seduto come un monarca desideroso di venire a conoscenza dell’altrui pensiero. Sulla sua scrivania poche cose: un computer, qualche agenda, due penne allineate lungo il bordo destro e un libro. Aguzzai la vista e lessi il titolo: PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA. Il vecchio Freud era dappertutto. Anche lì sopra. Mi vennero in mente le sue paranoie sul sesso e sui simboli fallici. Ho sognato una torre da cui sta cadendo un uomo? È il mio desiderio sfrenato di sesso. Ho sognato che mangio un gelato? Probabilmente sono omosessuale ma ancora non lo so.

Un colpo di tosse del Presidente mi fece tornare alla realtà. Egli mi sorrise e, quasi telepaticamente, mi invitò a parlare. Gli esposi tutte le mie perplessità e le mie paure nel giro di 8 minuti dopodiché attesi la sua risposta immerso in un silenzio siderale. Con un gesto ieratico del braccio destro fece cenno alla segretaria di uscire. Si sprofondò nella sua sedia con un sospiro. Iniziò a fissare il libro di Freud. Pareva immerso in profondi pensieri. Poi, d’un tratto, con un formidabile colpo di reni si alzò in piedi. Era un bell’uomo, sui quarant’anni, vestito di tutto punto e cromaticamente perfetto. Fece qualche passo mentre io tentavo di ingoiare un tot di saliva che mi ingombrava la bocca. Si diresse verso una nicchia scavata nel muro nel cui interno vi erano incastonate due borracce. Mi chiese cosa vedessi. Gli risposi che vedevo due borracce. Poi mi domandò se sapevo cosa potessero contenere. Ovviamente la mia risposta fu negativa. Dopo un lungo silenzio all’interno del quale, a volte, sono contenute delle verità, mi rivelò che in una c’era un liquido che poteva aiutare un uomo ad affrontare la paura e a risolvere i problemi che lo affliggono. Allungò un braccio, afferrò la seconda borraccia e, ad alta voce, mi chiese:

“SAI, INVECE, COSA C’E’ QUI DENTRO?”

Aveva l’aria di chi conosce la risposta e non vede l’ora di dirtela.

Feci finta di pensare. Abbassai il capo in una sorta di penitenza mistica. Mi arrovellai su cosa potessi dirGli per stupirlo ma i minuti passavano e a me non veniva in mente nulla.

Fu così che per la seconda volta Egli parlò:

“QUI DENTRO C’E’ LO STESSO LIQUIDO CHE SERVE PER ANDARE AVANTI ED AFFRONTARE NUOVAMENTE LE PROPRIE PAURE CHE GENERANO A LORO VOLTA I PROBLEMI!”



Rimasi in silenzio. Osservai attentamente il libro di Freud come se potesse, in qualche modo, aiutarmi. Diedi un’occhiata al retro dello schermo del suo computer. Vagai con gli occhi su alcuni particolari delle sue scarpe poi mi ritirai sconfitto in me stesso. Il Presidente rimase fermo con la borraccia in mano mentre mi congedai da lui. Uscii dall’ufficio, aprii e chiusi sette porte che mi scaraventarono nella triste realtà del Centro di Riabilitazione Psichiatrica. Mentre camminavo nel corridoio che dava verso l’uscita, ripensando a ciò che mi aveva detto il Presidente, vidi un operatore che stava facendo l’ennesima doccia alla coprofaga muta a cui piaceva tanto disegnare sui muri con le proprie feci. Notai che il bastardo aveva posizionato il miscelatore sull’acqua fredda ma ero troppo avvilito per dire qualcosa quindi mi allontanai con i muggiti della poveretta nelle orecchie sovrapposti agli urli dell’operatore che, con un ghigno, ben sapendo perché volesse scappare dal bagno tutta sporca di merda, tentava in tutte le maniere di ricacciarla sotto l’acqua.

150 euro...

Centocinquanta euro e i vestiti erano tutto quello che gli rimaneva.  Aveva appena chiuso la porta del suo vecchio appartamento il cui proprietario, con uno sfratto esecutivo, lo lasciava sulla strada.  Gli restavano i vestiti che indossava, una causa in tribunale per mancati alimenti alla ex moglie, qualche debito a causa di tre anni di disoccupazione e uno scooter. Prima di uscire di casa, con l’ultima mezz’ora pagata di connessione internet, aveva fatto il calcolo di quanti chilometri si potevano fare con quella somma tra benzina e pedaggi autostradali: circa 600. La distanza coperta lo avrebbe fatto arrivare all’incirca verso Friburgo in Brisgovia, Germania. La Guida Michelin dava 16.50 euro di autostrada, 77.28 euro di carburante e 29.12 euro di tassa svizzera. Avrebbe viaggiato circa 6 ore e mezza coprendo 577 km. Gli pareva una distanza sufficiente da porre tra lui e l’Italia, una nazione che non gli aveva mai dato nulla se non grane. Una terra meravigliosa abitata da troppa gente corrotta. D’un tratto si era ricordato dello sberleffo che i francesi usavano rivolgerci: “L’Italia è bellissima. Peccato che ci siano gli italiani!”. Come si faceva a dargli torto? Dentro questo pensiero  aveva già fatto un rapido calcolo di quanto gli sarebbe avanzato per le spese “accessorie” e cioè per il cibo: 27.10 euro. Non era una gran cifra ma sarebbe bastata. Lo scooter era già in moto quindi ci si sedette sopra. Infilò il casco, se lo assicurò al mento e abbassò la visiera. Prima di accelerare si voltò e diede un’ultima occhiata alla sua casa. Era stato bene insieme a lei e certamente avrebbe conservato bellissimi ricordi di tutto quel tempo uno nell’altra. Gli venne da ridere come quel pensiero, assolutamente innocente e romantico, poteva assumere una valenza sessuale degna di una seduta di psicoanalisi. Ruotò la manopola destra in basso e il potente motore, con uno strattone, lo sganciò dalla sua vecchia realtà. Un’altra sarebbe iniziata molto più lontano da lì. Scendendo la lunga discesa che lo portava all'ingresso dell’autostrada vide il postino venirgli incontro, anch’egli su uno scooter che, gesticolando, lo informava di avere della posta per lui. Lasciò che la sua giallastra figura scomparisse nello specchietto laterale sinistro e accelerò. Non ci sarebbe stato più per nessuno. Stava iniziando un altro viaggio. Aveva 50 anni e ancora un paio di cose da chiedere alla vita confidando sul fatto che, a motivo della sua estrema umiltà, gli sarebbero state concesse.      

Acquafangossacementoarmatoesangue.


Quel bastardo mi ricattava e tu Ale, lo sai bene cosa vuol dire essere ricattati. In fin dei conti io e te siam fatti della stessa merdosa pasta: acquafangossacementoarmatoesangue. Quel bastardo era lì che mi derideva e parlava dei tempi in cui io e te andavamo a scoperchiar tombe e raccattar ossa umane. Capisci Ale? in un certo senso ho usmato il pericolo e ho pensato: quel gran figlio di N.N. ci vuole fare del male. Vuole distruggere tutti i nostri discorsi sotto la luna del 1974.Quei momenti fantastici in cui si teorizzava un nuovo sistema di cose, un nuovo mondo, una cazzo di struttura umana all’interno della quale sguazzare nudi e sudati e urlanti e così ho pensato: deve scomparire. Deve essere eliminato. E ‘una feccia umana.  E mentre lui ci accusava ( si, Ale, accusava anche te, non so come sia arrivato a capire dove  ti nascondevi visto che sei sempre stato come un topo bastardo affamato con tre cicatrici sulla schiena causate dalle lotte con volpi e cinghiali ) io sapevo bene cosa fare: il mio film di morte scorreva nella testa e i suoi denti scintillanti mi facevano quasi pena perché sapevo che tra una ventina d’anni saremmo andati a trafugarli direttamente dalla fonte nella casa in cui sarebbe stato abbandonato: il cimitero. Ale, io ti prego in ginocchio, dammi la forza di nascondere questo corpo. In fondo, io e te, siam fatti della stessa pasta: acquafangossacementoarmatoesangue.Io e te abbiamo fatto cose di cui vergognarci ma sempre per sopravvivere, per galleggiare, per continuare a sognare. Ti ricordi quando andammo a cercare Luciano Big Hands per menarlo a sangue? Quando lo prendemmo all’uscita del portone dove abitava e lo trascinammo in quello scantinato dove tu ti divertisti come un pazzo a colargli la cera fusa sulle palle? Eravamo peggio di serial killer, per quanto riguardava le idee. Certo, non finiva mai come avremmo voluto però ci divertivamo lo stesso. Ricordo ancora quando picchiasti quel poveretto a cui avevi detto di non salutarti mai più: lo incontrammo all’incrocio tra via Moriondo e via Palestro e il meschino ti rivolse un ciao quasi sottovoce ma tu, memore dell’embargo vocale lo trascinasti in un vicolo e lo riempisti di botte mentre io contavo i colpi: 1,2,3,4,5,6,7,8,9…BASTA ALE, GLI FAI MALE…12,13,14,15,16. Toccava sempre a me strappartelo dalle mani e beccarmi, a volte, anche qualche manrovescio, refusi di una violenza ipnotica ma esistenziale. Ora ‘sto bastardo è nel bagagliaio della mia auto. Che facciamo? Dal tuo sorriso capisco che hai capito. Sono contento. In fondo questo maiale è solo un mucchio di carne e ossa mentre noi  siamo ancora acquafangossacementoarmatoesangue. A noi non importa nulla di queste merde. Noi siamo come Thelma e Louise: insieme fino alla morte. Io e te, Ale, siamo fratelli. Tutto questo pensiero ci ha fatti arrivare nella campagna di Melazzo. Tu conosci bene questi posti.  Chissà quante zoccole ti sei castigato qui, eh? Massì…dai…lasciamolo qua questo finocchio. Facciamo un buco dietro quel platano? Secondo te lo troverà qualcuno? Quante domande retoriche. Ho portato la birra con ghiaccio. A che ora devi tornare? Così presto? Allora dai, scaviamo che poi facciamo il pieno. Io e Ale: acquafangossacementoarmatoesangue.

La ragazza che faceva la O.S.S.


La ragazza si specchia. È una bella tipa, capelli rossi, sui 30 anni e ha un sorriso che piace agli uomini. Uno di quei sorrisi che sanno di plastica ma che attraggono tanto e fanno sperare, in chi li osserva, ad un fenomenale essere umano dedito alle cose buone e giuste. Invece no. La ragazza è una stronza, lavora in una casa di riposo e sfoga tutta la rabbia repressa che la vita le ha riservato, a causa del suo cervello da imbecille cerebrolesa, con anziani malati e disabili. La ragazza si esercita davanti allo specchio nel tentativo di migliorare il suo sorriso cercando di farlo virare dal concetto esecrabile di cicatrice purulenta a sacro deposito di bellezza e sentimenti. Dopo fa scorrere il suo badge dentro il segna presenze della struttura e per la cronaca, da quel momento in poi, saranno grossi problemi per un sacco di indifesi vecchietti. Mentre cammina nel lungo corridoio si destreggia con gli operatori con sguardi ed ammiccamenti, con gesti e posture erotiche, con battute idiote a sfondo sessuale che solo lei capisce, assimilabili alla più alta rappresentazione mentale dell’imbecillità umana. Guarda l’orologio a parete: segna le 21. Sorride. Sa di averli in mano per 9 ore. Inermi. Deboli. Vecchi. Ma è così che va il mondo. Quando le truppe hanno sconfitto il nemico, si impossessano delle terre, violentano le donne e uccidono i vecchi e i bambini. E lei si occupa dei vecchi. Ha fatto il corso O.S.S.  e ha illuso i docenti di essere una in gamba. Una che esercita empatia. Una flebile sinapsi gliene fa ricordare il significato:



“L’empatia è la capacità di mettersi nei panni degli altri. Cercare di vedere le cose dal punto di vista dell’altra persona. Questo può aiutarci a non prendere così seriamente le offese commesse contro di noi, ma piuttosto a fare concessioni. L’empatia è una qualità che possiedono le persone mature, quelle che son grandi in senso emotivo e spirituale.”



Ed ecco un altro sorriso. La ragazza ride per come sono le cose nella teoria ma di quanto appaiono diverse nella pratica ed è con quel pensiero che entra in una camera e inquadra un anziano tremante per il Parkinson che chiede di essere cambiato. Per tutta risposta la ragazza gli afferra un orecchio, lo tira con forza e il poveretto urla, non capisce, ma la ragazza si diverte:

"...ma che richiesta assurda: io dovrei togliere la tua merda? Oh, brutto stronzo! Ma chi pensi che io sia, la tua mammina morta da 40 anni? Caga sotto tremolante merdoso che non sei altro! Ora rimani nel tuo sterco fino al turno successivo!"

La ragazza coi capelli rossi esce dalla stanza ed entra in quella dopo, si avvicina ad un letto e, sempre con il suo sorriso, si avvicina ad una vecchietta che nulla percepisce del mondo circostante a causa di un Alzheimer devastante ma che probabilmente, in un qualche anfratto del suo mondo parallelo, capisce che quella stronza sopra di lei non ha nulla a che vedere con un essere umano. Ma la ragazza inizia con uno schiaffetto sulla guancia destra e poi su quella sinistra e poi una tirata di orecchio e una tirata di capelli, quelli rimasti. A lei non rimane altro che gridare ma la ragazza è forte e con un dito, rigorosamente fasciato da guanti di lattice, le sfrucugna l’interno del naso con violenza. La vecchia urla ma è lei che comanda. A lei è stato dato il potere e come tutti quelli che lo hanno, lo esercita.



“La signora del letto 15 va sedata!” – urla all’infermiera, la quale fa cenni di assenso. Da sedati è meno divertente menarli ma questo è il suo lavoro. Lo fa da tanti anni, ormai. La ragazza, purtroppo, è anche simpatica e le sue battute, sempre a sfondo sessuale, sono divertenti e fanno ridere gli uomini. Ogni tanto si fa scopare da quell’infermiere che non gli sa resistere e, finito il turno, dal medico. A volte anche a casa sua, quando la moglie è al supermercato a far la spesa. Si fa mettere sulla lavatrice a gambe larghe, attacca la centrifuga e lo supplica di trattarla molto male.

Sono le otto e la ragazza ha finito il turno. Va nello spogliatoio, si specchia, si sciacqua la faccia, si toglie il camice bianco e ritorna ad essere una della qualunque volgari pseudo donne che pullulano la città. Ripassa il badge nel segna presenze e imbocca l’uscita ed è proprio in quel momento che la giustizia, come un gigantesco martello cosmico, si abbatte su di lei.



“MOLLA LA BORSA!” – è quello che sente come una voce imperiosa.

“Che cosa?” – domanda, iniziando a realizzare la situazione.

“MOLLA QUELLA CAZZO DI BORSA E NESSUNO SI FARA’ DEL MALE!” – urla un tipo con in mano un coltello.

“Non ho nulla dentro la borsa. Ci sono calzini, scarpe, t-shirt, il rossetto, lo smalto, il fard, il…”

Ed è proprio su quell’ultimo articolo che il castigamatti mandato dal destino decide di perlustrare con l’acciaio le budella della ragazza. Poi le strappa dalle mani la borsa e corre via.

La ragazza sente il suo sangue mischiarsi con la saliva. Guarda il terreno e vede una pozza rossa che, lentamente, si allarga verso il marciapiede. Iniziano ad arrivare i curiosi. Qualcuno chiama il 118. La ragazza appoggia la testa sulla strada e attende. I suoi capelli rossi diventano tutt’uno con il suo sangue mentre lei sta pensando che vuole vivere, che la vita è bella, che è bello scopare l’infermiere e il medico e che sono quei maledetti vecchi che devono morire, non lei. Loro sì che sono inutili. Lei è bella. Lei è giovane. Lei. Lei. Lei. Sempre lei.  Ma l’emorragia che ha tranciato l’arteria polmonare sta lasciando la sua inutile vita sul marciapiede che in un rivolo rosso ha iniziato a defluire in un tombino fognario. Un pallore spettrale si è impossessato del suo bel viso lasciando la bocca contratta in un sorriso malinconico. A guardarla con attenzione si potrebbe dire che il suo volto si sia trasformato in una smorfia di incredulità insieme, forse, al suo ultimo tentativo di riconciliarsi con un mondo cattivo. Un mondo che pensava di tenere sotto controllo e che prontamente, alla sua prima distrazione, gli ha restituito ciò che ha dato con tutti gli interessi del caso.



                                                                                     Alvaro.

Rimbambini.


Certi bambini sono infelici.

Povere bestiole!

Hanno il cervello dei genitori: 

quadrato, di un millimetro quadrato.



Ridono,

saltano,

urlano,

spaccano,

sputano,

danno calci e mollano pugni

ma i genitori li giustificano,

li scusano,

gli creano alibi.

Mostri che creano piccoli mostri,

idioti che generano piccoli idioti.

Ma sono bambini,

piccoli Buddha,

esseri intoccabili.

Li hanno partoriti le loro madri

che hanno sofferto

aprendo le gambe e spingendo.

Si sono replicate.

Hanno creato qualcosa di loro

che occuperanno un posto utile inutilmente.



Povere coppie illuse!

Stavate tanto bene da sole!

Passavate inosservati

nelle vostre tute da jogging blu con le strisce bianche

assolutamente uguali.

Nelle vostre cene con gli amici

con le solite foto del vostro ultimo viaggio a Parigi

e gli sbadigli trattenuti per educazione.

Come sono belli i vostri bambini!

Come sono simpatiche le vostre creature!

Meritano il meglio di ogni cosa bella!

Sicuramente meritano voi.

Ma noi non ci meritiamo di avervi.

Non desideriamo vedere i vostri mocciosi

piangere e strillare

e voi che li scusate e li coccolate.



Diventeranno come quegli imbecilli

che giocano a palla sulle spiagge;

o che parlano ad alta voce nel cellulare

sul treno,

in aereo,

in ascensore,

al ristorante,

in ospedale,

ai funerali

e in tutti quei posti

dove nessuno si sognerebbe di disturbare.

Stavate tanto bene da soli!

Nella vostra casetta di 400 metri quadri

in riva al mare

con il sole all’orizzonte

e i vostri vezzi da artisti.

Al massimo

avreste dipinto una tela

con qualche cosa di orrendo

pagando poi un critico d’arte

per dire il contrario.

E invece no: vi siete clonati!

La massima opera d’arte.

La vostra carne.

Già scaduta appena nata.